Oggi vorrei parlare di Mario Foglietti, Maestro di Giornalismo, di Cinema e di Vita, 40 anni passati in Rai, molti dei quali spesso insieme. Mario, nato a Catanzaro nel 1936, reporter, saggista, sceneggiatore e regista di una quarantina tra film commedie, drammi e sceneggiati di grande successo per la Rai. Inviato speciale dei notiziari Rai (prima e dopo la riforma del 1974) in Nord Europa, America, Sud America, Medio ed Estremo Oriente. Poi corrispondente dai fronti di guerra di Suez (ininterrottamente dal 1973 al 1975) e dal Libano (1985). È stato art director del TGUno e ha curato (con Paolo Giuntella, e con me) il settimanale d’informazione TGUno sette. Nel 2000 è stato nominato City Man (uomo immagine) di Catanzaro. Sempre fedele alle sue radici e alla sua terra, dopo essere andato in pensione dalla Rai nel 2001 è diventato Sovrintendente del grande teatro Politeama di Catanzaro, ruolo che ha ricoperto fino al giorno del suo “Lungo Addio”, l’8 novembre del 2016.
Onesto, trasparente, rigoroso e mai fazioso sul lavoro, Foglietti era d’una bravura disarmante, dovuta non solo alla grande conoscenza del mestiere, quanto piuttosto alla chiarezza delle idee, che riusciva a rendere concrete e “popolari” con sorprendente rapidità, sia che dovesse metterle in scena, sia che dovesse farle trasparire dalla cronaca. Mostrò il suo fiuto di grande giornalista, mettendo a segno una serie di “scoop”: dalla prima lunga intervista televisiva mai concessa da Luis Buñuel, alla scoperta dei documenti filmati nel lager di Bergen Belsen, alle riprese, mai viste, del carcere tedesco nel quale era detenuto il delfino di Hitler, l’ergastolano Rudolf Hess.
Amava definirsi un “chandleriano”. Mi disse, durante un’intervista: “Il fatto è che io sono cresciuto col cinema degli imperativi categorici, il cinema di Bogart (soprattutto, il Grande sonno), o Giungla d’asfalto di John Huston. Sono cresciuto con gli scrittori dell’ Hard-Boiled School, la scuola dei Duri, convinto che ci vuole un uomo giusto per un mondo ingiusto e un uomo buono per un mondo migliore, come dice Chandler…”.
Anche il Foglietti che ho conosciuto più da vicino, quello delle notti insonni, delle cento sigarette al giorno, della valigia da reporter sempre pronta dietro la porta, mi è sembrato un po’ “un eroe stropicciato”, come quelli che poneva sul gradino più alto della sua scala di valori. Il disincanto però aveva prodotto in lui un’ironia giocosa, scoppiettante, fatta di strappi e di sberleffi, nient’affatto amara o malinconica come quella dei suoi amati “Paladini delle Cause Perse”.
Era una persona estremamente positiva che ti trascinava con la sua vitalità. Gli piaceva questa descrizione che, incautamente, avevo dato di lui in un libro: “Mario coltiva i ricordi di una vita intrisi di umorismo e quasi di stupore d’essere sopravvissuto con un intatto bagaglio di allegria ai disastri personali o a quelli imposti dall’onnivora società moderna”.
Aveva superato gli 80 anni, ma Mario Foglietti non è mai stato vecchio, perché della vita amava la “bellezza”. E, naturalmente, l’Amore.
L’Amore doveva essere il suo nono libro, ma non ha mai visto la luce. Durante l’estate del 2016 Mario ha messo a punto la struttura e scritto i ricordi che gli premevano di più. Avremmo dovuto parlare di questa nuova pubblicazione, e di come completarla, al suo ritorno a Catanzaro. Non ci siamo riusciti: un male inatteso, diverso da tutti gli altri per i quali si curava, se l’è portato via.
Mi sembra doveroso quindi presentare oggi, nel settimo anniversario della sua scomparsa, che ancora addolora tutti noi, una piccola antologia, inedita, de L’Amore: con l’impegno, anche a nome di Ighelaion, di veder pubblicato, possibilmente già nel 2024, il libro intero.
L’AMORE
Ricordi, Riflessioni, Aforismi e Frammenti Autobiografici
di: Mario Foglietti
“Si vede bene solo con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi” (Antoine de Saint-Exupery)
L’autobiografismo è una forma di scrittura semplice (ma non facile) comune a molti scrittori. Io non sfuggo a questa regola. In verità non sono nemmeno uno scrittore. Sono un giornalista che ha avuto il privilegio di vivere mille avventure. Il mestiere di inviato del telegiornale Rai mi ha offerto il privilegio di girare il mondo in lungo e in largo; mi ha permesso di incontrare e conoscere gente di ogni razza, cultura e civiltà; mi ha insegnato a guardare la realtà con gli occhi di chi vuole conoscere e capire; mi ha consentito di raccontare il mondo filtrandolo non solo attraverso l’ obiettivo della cinepresa ma anche, forse soprattutto, con il cuore.
Il mio maestro Enzo Biagi con cui ho avuto la fortuna di lavorare e che spesso voleva che andassi con lui in giro per il mondo, mi spingeva a scrivere. Quante volte mi ripeteva “Devi scrivere: hai la capacità di vedere quello che molti nostro colleghi non vedono. È un dono prezioso che ti fa essere migliore degli altri.”
Ho perso tempo: il lavoro mi assorbiva completamente. Oggi che sono più libero (almeno non impegnato, come un tempo, su molti fronti) provo a mettere in pratica le parole del Maestro. Devo però, ora, fare ricorso alla memoria che qualche volta fa cilecca. E così questo lavoro di ricerca nella toponomastica mentale del mio passato, è faticoso e lungo; qualche volta traditore.
Ma io ho un carattere tosto; gli ostacoli non mi fermano. Allora proviamo!
Inizio rispondendo a tre domande che mi sono posto e che possono racchiudere il senso della vita. Una confessione senza vergogne, senza pudori e infingimenti. Con la massima sincerità.
Come hai vissuto? Alla men peggio.
Cosa hai fatto di utile per gli altri? Non quanto avrei dovuto, e potuto fare.
Come intendi vivere il tempo che precede il lungo addio ? Ricordando che “ogni uomo è responsabile del proprio tempo…”, come scriveva il grande scrittore calabrese Corrado Alvaro.
Millenovecentotrentasei
Da qualche parte ho letto che il destino di una persona discende dagli eventi che hanno costellato la sua nascita. Mi sono subito informato studiando gli annali del tempo.
Sono nato nel 1936, anno bisestile del xx secolo.
Il giorno della mia nascita, il 25 gennaio, è un sabato di rigido inverno. Quel giorno nascono 140 bambini, ne muoiono 480. Io nasco gemello con una bambina che vive soltanto un’ora. Avrebbe dovuto chiamarsi Maria Luisa.
Il 1936 è un anno di grandi eventi.
Scoppia la guerra civile in Spagna: un conflitto che anticiperà gli orrori della seconda guerra mondiale. A Madrid muore assassinato il grande poeta Garcia Lorca.
In Argentina, a Buenos Aires nasce Jose Mario Bergoglio che diventerà Papa con il nome di Francesco.
La XI edizione delle Olimpiadi si svolge a Berlino. Il nazismo ne fa uno dei più imponenti eventi mediatici del XX secolo. Sarà uno smacco per il nazismo: alla presenza di Hitler l’americano di colore Jesse Owens vince 4 ori nell’atletica leggera. Contrariamente a ogni pronostico, la giovane Italia di Vittorio Pozzo vince la medaglia d’oro, ancora ad oggi l’unica del calcio italiano.
In America esce nelle sale cinematografiche il capolavoro di Chaplin Tempi moderni.
In Italia lo stipendio medio di un impiegato, laureato, di alto livello, è di 800 lire.
Muoiono Luigi Pirandello e Grazia Deledda.
Negli stabilimenti di Torino nasce la Fiat 500 Topolino la prima utilitaria degli italiani.
Gli italiani cantano con i successi del trio Lescano (Tornerai, Ma le gambe) e di Natalino Otto (Polvere di stelle, Ho un sassolino…).
E la mia nascita cosa ha a che fare con questi eventi? Niente ovviamente. Mi suggestiona, però, questo pensiero del filosofo rumeno Emil Cioran: ”So che la mia nascita è un caso, un incidente risibile, eppure, appena mi lascio andare, mi comporto come se fosse un evento capitale, indispensabile al funzionamento e all’equilibrio del mondo”.
Con il tono dei mafiosi: Ma tu u sai cu’ sugnu eu? (Ma tu lo sai chi sono io?)
Risponde mio nipote Andrea, anni 11, filosofo, amico di Messi, fan di Tina Pica: “Zio, a volte l’ego fa l’eco”
Anch’io, come tutti, ho una vita piena di ricordi. Penso che non dimenticare migliori la vita.
Madre
“Gli uomini reggono il mondo, le madri reggono l’eterno che regge il mondo degli uomini“. (C. Bobin)
Nella vita di tutti noi il bene più prezioso è la mamma. Essa ti è sempre vicino, nella buona e nella cattiva sorte. Mamma è la prima parola che un bambino sillaba. Poi viene il resto. Tutti i figli dovrebbero erigere un monumento alle proprie madri.
Un proverbio ebraico cita “ Dio non poteva essere dappertutto, così ha creato le madri”.
Non essendo in grado di innalzarle un monumento, ricordo mia madre semplicemente con le mie parole.
Le precedono i versi del grande poeta Giuseppe Ungaretti: “E il cuore quando di un ultimo battito / avrà fatto cadere il muro d’ombra per condurmi, Madre, sino al Signore / come una volta mi darai la mano”.
Il nostro è stato un amore sconfinato, un rapporto difficile da raccontare. C’era una simbiosi insolita. Ci somigliavamo in tutto.
Mi ha insegnato a sognare e a correre dietro ai sogni. Per poterli realizzare; anche se il costo era elevatissimo. Quello che sono e quello che ho fatto lo devo a lei. Mi confidavo: come si fa tra amanti. Le raccontavo alcuni momenti difficili che ho vissuto in giro per il mondo; dei desideri che covavo inconsciamente. E le parlavo dei tanti amori che avevo avuto. Lei mi ascoltava con pazienza; talvolta interveniva con poche parole per esprimere la sua contrarietà.
C’è stato un tempo lungo almeno sette mesi che ho lasciato il mio lavoro per starle vicino. Era rimasta sola: mia sorella Vittoria, la sua figlia prediletta, era fuori Catanzaro per costruirsi un avvenire economico.
Con mamma si cenava insieme, a volte a lume di candela, con la radio che diffondeva una musica romantica. Lei teneva sempre una fascia gialla che le cingeva la fronte, come certe dive degli anni Venti e Trenta, forse suoi idoli di gioventù.
Pretendeva che io indossassi la giacca quando si cenava. “È più signorile e rispettoso per la signora che ti sta di fronte”, mi riprese accennando a un mezzo sorriso.
Da nubile mamma aveva un neo sotto l’occhio sinistro che io ho ereditato. Con il trascorrere degli anni questo neo andava scomparendo (anche il mio) ma lei non si rassegnava alla perdita. Aveva escogitato un sistema per ingrandirlo: usava una forcina per i capelli che inumidiva con il carbone e quindi rinforzava quel neo ormai scomparso. Era un’ operazione che compiva almeno una volta alla settimana. Non aveva timore che potesse procurarsi qualche malattia della pelle. Le è andata sempre bene.
Avrebbe voluto insegnare ma mio padre glielo ha sempre vietato. Trascorreva le sue giornate leggendo un po’ di tutto. Aveva una buona cultura classica, amava Dostoijevski e parlava abbastanza bene il francese. Talvolta le chiedevo notizie della sua terra e delle sue origini. Rispondeva a monosillabi, mai compiutamente, malgrado le mie insistenze. Capivo però che non era felice, lontano dai suoi luoghi. Evitava ricordi di un’altra vita che non le apparteneva più.
Era gelosa di mio padre, notoriamente un bell’uomo che piaceva molto alle signore di Catanzaro (e non solo…).
Eravamo quattro figli: Anna, io, Piero e Vittoria. Nostro padre ci dava poche lire alla settimana: quella era la nostra “paghetta”. Non ci bastava: allora io e mio fratello Piero bussavamo a mia Madre la quale, disperata, aveva escogitato un marchingegno per darci ogni tanto dei soldi extra.
Sotto le scale di casa, avevamo un magazzino pieno fino all’inverosimile di salumi, provole, formaggi, olio e altri ben di Dio. Erano le provviste che mio padre portava dai suoi viaggi di lavoro in giro per la Calabria.
Mio padre era un uomo generoso e credente. A Natale chiamava i vicini, quelli meno indigenti, e faceva beneficenza.
Noi facevamo disperare nostra Madre bussando sempre a quattrini. Lei non li aveva, però aveva aguzzato l’ingegno. Senza avvertire papà prendeva dal ripostiglio una provola o una forma di formaggio o una bottiglia d’olio e incaricava nostra sorellina Vittoria, che all’epoca avrà avuto sette anni, di venderle ai vicini, i quali erano ben felici perché le pagavano meno della metà di quanto costavano nei negozi di alimentari.
Senza saperlo Maria Vittoria esercitava il contrabbando…
Mamma a Catanzaro non viveva bene; non riusciva ad accettare la nuova realtà con la quale doveva misurarsi. Una sera, in occasione del suo compleanno, le lessi i primi versi di una poesia che le avevo dedicato: ”L’esilio volontario al Sud/ non ti ha risparmiato pene./ Pure, ti sei adattata trepida e mansueta /alla realtà di pietra dura, al rosario dei giorni uguali/ all’arabo suono delle gente…”. (settembre 1973).
Le piacque e volle che la mettessi in una cornice da appendere al muro. È ancora lì.
Morì mentre le tenevo la mano. Lei mi sussurrava qualcosa che non capivo. Ma non importa. Certamente sarà stato qualcosa di bello.
Tempo dopo, frugando tra le sue carte e le sue lettere (d’amore per mio padre) trovai un romanzo di Fëdor Dostoevskij, L’idiota, con ai margini una serie di chiose.
Era, Dostoevskij, il suo scrittore preferito. Vergato a mano con la sua elegante grafia aveva riscritto questo aforisma: “La bellezza salverà il mondo”.
Era la sua “filosofia di vita”.
Amori
“Io so un amore che ha durato un giorno, e un vero amore fu”. (da Addio, di Umberto Saba)
I miei amori, devo confessare, sono stati brevi, in gran parte. Ma intensi. Non sono state semplici avventure ma veri amori. Chi ha detto che i veri amori sono quelli che durano a lungo? Si può amare una persona solo un giorno, ma in quel breve tempo può nascere un sentimento profondo. Tutte le donne che sono entrate nella mia vita anche per un attimo, hanno lasciato una traccia.
Ha lasciato una traccia anche la bionda sconosciuta che un mattino di quarant’anni fa ho incontrato a Budapest lungo un viale imbiancato dalla neve. Mi è passata accanto chiusa in un cappotto nero, il bellissimo viso esposto ai fiocchi di neve. Era come assorta nei suoi pensieri. Che erano pensieri tristi, ne sono sicuro. Ci siamo lanciati un lungo sguardo che ricorderò sempre. Avrei voluto fermarla, parlarle, conoscere i suoi pensieri. Non ho avuto l’ardire di interrompere quel suo meditare. L’ho seguita mentre si allontanava e lentamente si perdeva alla mia vista.
Qualche anno più tardi […] mi fermai a Budapest un giorno. Presi un taxi e andai al cimitero Farkasréti dove riposano i grandi artisti magiari, poi mi feci accompagnare nel parco dove avevo incontrato la bionda sconosciuta. Era una giornata di inoltrata primavera. Feci una lunga passeggiata sul sentiero di tigli che ben conoscevo. Mi prese una dolce inquietudine. Ritornai in albergo. Salii in camera. Sulla scrivania c’era un blocchetto per prendere appunti. Di getto scrissi: “Mi manchi anche se non ci siamo conosciuti”.
Ricordi catanzaresi: U rungutuball
Da ragazzi praticavamo un gioco indefinibile, qualcosa tra il calcio misto al rugby e alla lotta libera; nessuna regola. Si chiamava “u’ rungutuball” (si legge come si scrive). L’inventore era l’amico Filippo B.: si radunavano nella via sotto casa sua un numero imprecisato di ragazzi di qualsiasi età. Non erano due squadre che si affrontavano; ognuno giocava per sé. Dalla terrazza di casa Filippo al grido di battaglia “u rungutuball!” lanciava una grande palla di pezza. Si formavano delle mischie gigantesche. Della palla ci importava poco. Di solito le partite (chiamiamole così) duravano fino ad esaurimento delle forze. Poi si passavano in rassegna i feriti. A rimetterci erano quasi sempre i più piccoli e i più fragili. Tra questi, immancabile, mio fratello Piero, che peraltro aveva una iella incredibile. (Se passava sotto una casa gli piombava quasi sempre in testa qualcosa…)
Toccava a mia sorella Anna, inviata da mia Madre, riportarci a casa prima dell’arrivo di nostro padre. La sera che Anna arrivò in ritardo trovammo ad aspettarci nostro padre con una cinghia in mano…
Animaletti
“La compassione e l’empatia per il più piccolo degli animali è una delle più nobili virtù che l’uomo possa ricevere in dono”. (Charles Darwin)
Larga parte degli animali di qualsiasi razza, taglia e dimensioni è protetta da associazioni e iniziative private. Oggi è protetta anche dalla legge.
Giusto, non c’è che da apprezzare il nostro buon cuore!
Con un amico buontempone, giorni fa, ci chiedevamo se non fosse il caso di istituire una fondazione per la protezione degli animaletti che infestano la nostra vita quotidiana. Soprattutto d’estate. Non siamo tutti creature di Dio? E allora perché permettere il brutale sterminio di minuscoli e indifesi insetti con una pubblicità terroristica, cartacea e televisiva?
Dobbiamo ribellarci. Io e il mio amico abbiamo dato ospitalità e protezione a 13, tra formiche zanzare etc.
Dai, aiutaci anche tu in questa nobile missione! Adotta una pulce!
La Poesia
“Non so dove i gabbiani abbiano il nido / ove trovino la pace./ Io son come loro / in perpetuo volo”.
A metà degli anni cinquanta mi ero trasferito a Roma. Cercavo di costruirmi un futuro. Sognavo di fare il giornalista. Ero diventato amico di un’illustre firma del Messaggero, Costanzo Costantini. Spesso il pomeriggio andavamo assieme in via Veneto. la via dei sogni, la via del successo, la via del cinema. Molti provinciali arrivati a Roma la frequentavano; ne rimanevano abbagliati. Alcuni si sono perduti nei sogni che dispensava.
Un mattino mi trovo solo a Via Veneto e noto seduto a un tavolo all’aperto di un glorioso bar, mi pare fosse il caffe Rosati, un vecchietto chiuso in un cappotto di foggia militare, con un basco in testa. Era estate, il caldo quasi insopportabile. Incuriosito chiedo a un cameriere chi sia quel signore. “È un Poeta”, risponde con molta enfasi, forse per farmi intendere che era una persona importante. Lo dico a Costantini che mi precisa: è Vincenzo Cardarelli, poeta magnifico, prosatore raffinatissimo, una delle voci più alte della letteratura del ‘900. Era nato a Tarquinia in provincia di Viterbo. Soffriva di una rara malattia, il freddo. Costanzo mi invita a leggere le sue poesie. Compro una sua raccolta che conservo ancora con cura.
Così mi accostai alla poesia. Mi piaceva la poesia, mi dava come un senso di serenità. Interiore.
Divenni un assiduo lettore di Cardarelli e poi di altri poeti italiani: Montale, Ungaretti, Quasimodo, Umberto Saba e più in là, nel tempo, di Rilke, Baudelaire, Verlaine, Prévert, Neruda…
Un pomeriggio assolato, sempre a Via Veneto, vediamo seduto al tavolo di Cardarelli, il grande Ennio Flajano amico ed estimatore di Costantini. Ci invita a sedere e ci parla di Cardarelli: “È come un gabbiano…”. Stringo la mano al grande Poeta e mi chino per dargli un bacio sulle gote. Sorride, sembra un bambino.
Poi il grande poeta si ammala. Muore al Policlinico di Roma, il 18 giugno 1959. Con Costantini vado al funerale. Sono commosso.
Il Grande Poeta riposa nel cimitero della sua città, Tarquinia, di fronte alla Civita etrusca che ha spesso evocato nelle sue poesie e nei suoi racconti. ”La Civita etrusca aveva per lui il valore di un simbolo più che un tema autobiografico – scrive un suo storico –. Era stato il faro che lo aveva guidato nella sua avventurosa navigazione tra gli scogli dell’esistenza. Visse nella povertà e nella solitudine, e morì a settantadue anni ancora più povero e solo”.
Per me la scoperta di Cardarelli ha avuto un valore incalcolabile. Mi ha accostato e fatto amare la poesia. Senza la poesia la mia vita sarebbe stata certamente diversa, forse la vita di un uomo banale. L’ho già ammesso: ancora oggi, sul comodino accanto al mio letto c’è un libretto di poesie.
Non mi vergogno di ammettere che molte conquiste femminili le devo a una poesia di Cardarelli che reputo la più bella. La recitavo alle ragazze con successo: “Oggi che t’aspettavo non sei venuta. E la tua assenza so quel che vuol dire / la tua assenza che tumultuava nel vuoto che hai lasciato come una stella, dice che non puoi amarmi. / Quale un estivo temporale si annuncia e poi si allontana, così ti sei negata alla mia sete. / L’amore sul nascere, ha di questi improvvisi pentimenti. Silenziosamente ci siamo intesi./ Amore, amore, come sempre vorrei coprirti di fiori e di insulti” .
Quando guardo il cielo e scorgo un gabbiano volare senza meta, penso al grande poeta Vincenzo Cardarelli.
La Fine
Come mettere il suggello “fine” a questa raccolta un po’ scombinata di ricordi che ho pescato frugando nella memoria?
Forse con questo pensiero ”serio”:
Ognuno ha la sua vita già tracciata. È il destino che ci guida. Non possiamo opporci. Ma ci è concesso d’intuire quando si avvicina la fine. È un grande vantaggio perché ci permette di tentare di fare, almeno in piccola parte, le cose che avremmo dovuto fare, e non abbiamo fatto .
FINE
Mario Foglietti: L’Amore
[Era intenzione dell’Autore, e vorremmo rispettarla citandoli adesso, di dedicare questo libro a:
“Giorgio, Fiorella, Bianca, Pigi, Mario e Bernardo, nipoti carissimi. E ai loro splendidi figli. Aldo, Andrea I, Andrea II, Annetta, Alice, Benedetta, Giulia, Piero, Sofia, Stefano”]