Nel 1992 Vincenzo Mollica e io ci divertimmo, davvero molto, a realizzare uno “Speciale Tg1” (curato da Romano Tamberlich) dal titolo “Appunti a Fumetti”, nel quale un grande artista, Danijel Žeželj – all’epoca appena venticinquenne – ci aveva ritratto come “personaggi disegnati”, un po’ sonnambuli, un po’ rabdomanti e pellegrini, che andavano in cerca dello Spirito Vero dei Fumetti. In questo “Speciale” di 40 minuti comparivano interviste originali e inedite a: Woody Allen, Ray Bradbury, Giorgio Strehler; a fare da fil rouge a tutta la narrazione, il dialogo di Mollica con il suo grande amico Federico Fellini. Una mattina, Vincenzo e io andammo a trovare Attilio Bertolucci nella sua casa di Monteverde, a Roma, e lo intervistammo a lungo sul suo rapporto con la “Letteratura Disegnata”. Il poeta era stato tra i primi, in Italia, a occuparsi dei Fumetti, ignorati, o derisi e vilipesi dal mondo della cultura. Anche questo incontro – del quale do, qui di seguito, il resoconto pressoché integrale –, finì nel nostro “Speciale”.
Mollica e/o Zzywwurath:
Quando è nata la sua passione per i Fumetti?
Attilio Bertolucci:
È nata in un certo senso, tardi. Da bambino io non ho letto il Corriere dei Piccoli, perché stavo in collegio dove non arrivavano i giornali per bambini. Nel periodo del ginnasio – che corrisponde alla scuola media di oggi – ero già appassionatissimo di poesia e di letteratura. Io ho scoperto i Fumetti un po’ più tardi, e li ho scoperti come espressione figurativa del nostro secolo e nello stesso tempo anche espressione sospesa fra la realtà e il sogno, sfogliando quella specie di “archetipi” che sono i fumetti americani, quelli pubblicati nei giornali della domenica. Avevo scoperto queste cose per mio conto, non se ne occupava nessuno allora, credo. Io me ne sono interessato così, in maniera mia, perché i miei interessi sono molto vari, ma non ho mai cercato di interpretare i Fumetti in maniera semiologico- strutturalistica, come è successo (credo anche con dei risultati interessanti) quando se ne sono impadroniti i professori universitari.
Lei è stato uno dei primi intellettuali in Italia a scrivere saggi sui Fumetti, a prenderli, se possiamo dire così, “sul serio”, anche quelli umoristici…
Attilio Bertolucci:
È vero, questo mio interesse poi si è concretato quando la signora Orietta Garzanti ha deciso, insieme a me, di pubblicare degli album di grandi Fumetti americani e di farli precedere da una grossa antologia. Si chiamava “I primi Eroi”, e ha avuto, poi, la fortuna di una prefazione di Renè Clair. Io non li ho “studiati”, ripeto, ho veduto i Fumetti come tante altre forme del nostro secolo; non ho mai rifiutato niente, e neanche questo, insomma.
Leggere quei fumetti era anche un modo di conoscere l’America…
Attilio Bertolucci:
Beh insomma, gli adulti non guardavano i Fumetti, quindi quell’America la conoscevano i bambini ma non i grandi. Nessuno aveva questo interesse per i Fumetti che potevo avere io. Si sa di Fellini che però era anche un inventore di fumetti, e questo spirito l’ha dimostrato anche facendo il suo cinema. Ma nessuno degli altri se ne interessava, assolutamente. Vorrei dire che era una mia ricerca personale, quella di trovare questi elementi dell’America, anche realistici, nelle “strisce” di quegli anni.
Buster Brown [1902-1921, creato da Richard Felton Outcault], per esempio, è un bambino cattivissimo, tremendo: una delle cose che fa, è andare in una chiesa – una delle tante chiese che ci sono in America, non una chiesa cattolica –, dove c’è un pubblico, chiamiamolo, di credenti con un’aria un pochino ipocrita, come si vede nel Pellegrino di Charlie Chaplin. E lui porta dei topi, anche in chiesa, quindi potete immaginare cosa succede lì.
In Arcibaldo e Petronilla [Jiggs and Maggie di George McManus (1913-1954)] poi, c’era veramente una specie di critica della società americana molto interessante.
Guardi che era straordinario perché, qui entriamo quasi in sociologia, si era pensato che in America non potesse rinascere lo snobismo. Invece Petronilla è una snob. Mentre Arcibaldo è un americano medio, che si sottrae, fugge per andare a giocare a carte e così via. Lei invece è sempre alla ricerca di nobili…
Una vetrina sociale, anche?
Attilio Bertolucci:
Sì, ecco. Quindi in questi primi fumetti ci sono delle cose molto forti, non di critica, ma di satira della società americana.
Ci sono però ancora aspetti da studiare e da spiegare, e i sociologi e gli storici potranno farlo, forse…
… sapete: in America questi fogli con i Fumetti, io li ho visti, sono bellissimi, facevano parte di quei giornali della domenica che sono di cento pagine e c’erano questi fogli colorati…mi piace molto il colore che c’è, il colore assoluto, netto, tipografico, Non so come chiamarlo. Mi chiedo: mentre in Italia finivano subito nel Corriere dei Piccoli, che normalmente i grandi non leggevano, in America erano, mettiamo, nel New York Times, facevano parte di quella grande massa di carta in cui c’era anche il New York Times Book Review. Quindi i primi fruitori (parola che non mi piace) dei Fumetti, probabilmente, erano i grandi. Qui da noi invece li hanno subito messi nel paradiso dei bambini e ghettizzati. Ma negli Stati Uniti, evidentemente, sono sicuro che una persona adulta che comprava il giornale alla domenica e gli capitavano sotto gli occhi queste cose, non poteva non divertirsi. Perché era un po’ come il Cinema: anche quello era un modo di presentare la realtà. All’origine, non c’è una precisa collocazione di questa serie di fumetti americani nella biblioteca dei bambini, fanno parte del giornale serio che si compra alla domenica e sono sicurissimo, la storia della “stampa gialla”, lo “Yellow Journalism“, questo enorme successo che hanno avuto i quotidiani per merito di questo infernale bambino con il camicione giallo, Yellow Kid [di Richard Felton Outcault (1894-1898)], il bambino giallo, è dovuta ai grandi. Non erano certo i bambini che andavano a comprarlo e che potevano fare il successo di un editore di giornali.
Ci sono altri personaggi dei fumetti americani, che lei ha “studiato” a modo suo, e l’hanno particolarmente colpito?
Attilio Bertolucci:
Ho anche fatto una prefazione per una cosa stupenda che è Krazy Kat [(1913-1944) di George Herriman], che è un caso un po’ speciale perché è molto intellettuale.
Ma vorrei anche citare un bellissimo fumetto americano che è uscito sempre da Garzanti e che ha avuto una prefazione da un uomo di cultura molto più dotto di me su queste cose, e su tante cose, che è Oreste Del Buono. Voglio ricordarlo per il suo valore figurativo: Little Nemo in Slumberland [1905-1927, di Winsor McCay]. In fondo cos’è? Qualcosa che si ripete sempre: un bambino fa un sogno, poi si risveglia da quel sogno. Ma c’è una tale fantasia artistica, figurativa, che il mio maestro di storia dell’arte, Roberto Longhi, ha detto: “mi fa pensare molto all’antica miniatura e a cose di questo genere”.
Lei ha detto di non conoscere a fondo il fumetto italiano, soprattutto quello degli anni del Corriere dei Piccoli, ma è sempre stato un ammiratore del “Signor Bonaventura”. Cosa la affascinava di questo personaggio?
Attilio Bertolucci:
Il signor Bonaventura era qualcosa di molto diverso dai personaggi americani. Era stato creato da uno stupendo uomo di teatro, di arti figurative, di poesia, che era Sergio Tofano, il quale, si sa, aveva cominciato facendo versetti proprio per le didascalie dei fumetti americani. Poi è stato invitato dall’allora direttore del Corriere dei Piccoli a fare una cosa sua e ha creato questo Bonaventura che invece, stranamente, è legato figurativamente a qualcosa di più moderno, più europeo. Questo Signor Bonaventura non ha un corrispettivo, mettiamo, in Arcibaldo con la moglie snob, oppure in Fortunello, oppure ancora in Capitan Cocoricò.
Anche graficamente non seguiva la realtà. E quello che mi piaceva era proprio questo suo “candore”, se si vuole interpretarlo con una specie di psicologia. Anche il cane di Bonaventura è tipico: è un cane un po’ astratto. È un bassotto ma non lo è. E gli ambienti in cui si muovono i personaggi sono abbastanza astratti, rispetto a quelli della grande tradizione americana. Insomma era veramente una risposta moderna, non realistica, non so se sia giusto dire italiana o europea, a quello che è stato il grande momento del fumetto americano.
Topolino e Paperino di Walt Disney. quando entrano nella sua vita?
Attilio Bertolucci:
Entrano, curioso, molto tardi. I cartoni li vedevo al cinema quando li davano alla fine della proiezione. Poi… io ai miei figli, Bernardo e Giuseppe, ero riuscito a far avere delle raccolte dei primi “Topolino”, rivista di Fumetti (Paperino viene un po’ dopo), usciti quando loro non erano ancora nati. Li hanno divorati. E erano diventati così esperti – questo è interessante – che a un certo punto ho dovuto dar loro ragione su una cosa che mi sembrava molto strana. Dicevano, mentre li leggevano: “ma non sono più quelli di prima, devono essere stati disegnati da altri!”. Poi si è saputo che erano fatti in Italia, non più in America.
Io, come non mi sono mai negato niente, a Bernardo e Giuseppe bambini, o ragazzi, ho sempre dato tutto quello che tutti gli altri bambini leggevano: per me, dovevano averlo. Però erano insaziabili, per cui, finita una storia di Topolino, – e io ero molto lesto a acquistare i giornalini quando uscivano –, a loro non bastava mai. E allora dovevo raccontargli una specie di “seguito”; a un certo punto dovevo inventarmi anche delle cose con Gambadilegno, Pluto e gli altri personaggi di Walt Disney. Erano avidi di saperne sempre di più, ma quando non era ancora uscito il numero successivo a quello che avevano letto, gli bastava quello che potevo inventare io.
Cioè: improvvisava sui Fumetti, come se fossero fiabe?
Attilio Bertolucci:
Certo, perché la fiaba non c’era più, non esisteva più, non era possibile, purtroppo. Però la fiaba rimane molto bella, ma io non non lo so se ancora adesso le raccontano o le leggano, le fiabe ai bambini, non lo so.
Ricorda qualcuna di queste invenzioni? Qualcuno di quei “seguiti”?
Attilio Bertolucci:
Mi pare, che a loro fosse piaciuto molto “Topolino nella legione straniera”. Ma non ricordo la traccia. Non è possibile. Perché in realtà, i bambini il mattino si svegliavano, e entravano nel letto di noi genitori che non avevamo ragione per alzarci troppo presto, e io allora, tra l’ultimo sonno e la veglia, avevo questa capacità, che forse sveglio del tutto non avrei più, insomma, di inventare delle favole.
Non ha mai avuto la tentazione di scrivere delle rime o dei versi, o addirittura di fare dei disegni, pensando al Fumetto?
Attilio Bertolucci:
No, perché intanto avrei dovuto avere almeno un nascente talento grafico, che non ho assolutamente. E poi fare questi versetti, in sé era un pochino una cosa troppo astratta.
Ma secondo lei, professore, perché la cultura italiana ha snobbato per decenni il fumetto?
Attilio Bertolucci:
Perché i Fumetti sembravano a tutti una cosa poco seria. Una cosa da bambini. La cultura, chiamiamola così, non si occupava di questo come di molte altre cose. Adesso non voglio fare il pioniere di tutti, ma mi sono interessato molto presto, per esempio, del Jazz, tra il terzo liceo e i primi anni di università, e su una rivista alla quale lavoravano uomini come Zavattini, ho segnalato per la prima volta in Italia Armstrong e Duke Ellington. Ci è voluto moltissimo tempo perché se ne accorgessero gli altri. Io mi sentivo molto aperto a tutte le espressioni del nostro secolo. Facevo poi una scelta, in un certo senso.
Se guardiamo agli anni ’20, gli accademici hanno sempre rifiutato, non solo i fumetti, ma anche quella cosa che era diventata già così importante come il Cinema. La scoperta del Cinema, mia e del mio amico e grande critico Pietro Bianchi, risale – facevamo il ginnasio, si stava a Parma – al 1925, un tempo nel quale, per esempio, nei quotidiani non c’era critica cinematografica. Uno che è stato poi un meraviglioso padre del Neorealismo, Cesare Zavattini, considerava il cinema una cosa minore, che magari poteva avere solo un interesse politico. A lui piaceva più il teatro, mettiamo, Pirandello. Poi l’abbiamo a viva forza portato a vedere La febbre dell’oro, che a Parma è stato dato verso il ‘26-’27 – sul finire del muto, che è un periodo meraviglioso per il cinema –, ed è stato folgorato, assolutamente. Ma prima di allora aveva rifiutato anche il Cinema, figurarsi il fumetto, poi, non se ne parlava neanche.
C’è un personaggio dei Fumetti, anche di quelli moderni e contemporanei, con cui si identifica o al quale le piacerebbe assomigliare?
Attilio Bertolucci:
È difficile dirlo, mi faccia pensare … è difficile dirlo perché in quelli che ho letto, i protagonisti sono quasi sempre dei bambini. Tintin è un adolescente, quindi non direi…
però le avventure di Tintin, fatte da questo geniale fumettaro belga, Hergé, mi sembrano bellissime, e moderne. C’è tutto: c’è anche la guerra per il petrolio; i personaggi sono stupendi, come la cantante lirica, la Castafiore… e poi erano molto belle anche le battute. So che gli albi di Tintin sono stati anche tradotti in italiano, ma senza successo, mi pare. Probabilmente non era possibile, non erano cose italiane.
Per il resto, non conosco bene i fumetti dei contemporanei. Non sono uno specialista, sono al solito uno studioso anomalo del Fumetto. Insomma non saprei, è un po’ difficile perché mi sento un po’ isolato in questo. In questi ultimi anni per esempio, non me ne sono più occupato, forse sbagliando.
Ma in assoluto, il personaggio dei Fumetti, che lei preferisce, chi è?
Attilio Bertolucci:
Mi ci faccia pensare… Un altro album al quale ho fatto la prefazione, è The Little King, Il Piccolo Re [di Otto Soglow (1930-1975)]: è un re molto, molto, confidenziale. È bellissimo. In Italia ne fu fatta una prima pubblicazione, credo, da Longanesi, ma la chiusero: perché avevamo un piccolo re anche noi. Il modo di fare il “capo di stato” di questo personaggio è così spregiudicato, che è straordinario. Mi interessava e mi piaceva perché tutte le volte che gli tocca di fare il re, lui trova sempre dei modi di andarsene. Ad un certo punto deve dichiarare guerra, ma quando poi ci sono delle cerimonie non se ne parla neanche.
Prima lei ha parlato di Krazy Kat di Herriman. George Herriman ha realizzato anche le illustrazioni di un libro che si chiama Archy e Mehitabel, di Don Marquis, la storia di una gatta e di un bacherozzo poeta, che lei ha prefato. Questa è proprio una creazione completamente fantastica che probabilmente è possibile solo al Fumetto, Quindi c’è un mondo intellettuale e poetico al quale si può arrivare solo attraverso il Fumetto, e solo con questa forma molto popolare d’Arte che è il Fumetto?
Attilio Bertolucci:
Adesso dico una cosa un po’ sacrilega: Sì. Ma allo stesso modo col quale si diceva che gli affreschi delle cattedrali erano la Bibbia dei poveri, di chi non sapeva leggere. C’è della gente che adesso non sa leggere, non perché non sappia leggere, ma per la quale il leggere è una fatica, È una cosa che… non so se mi sono spiegato, in questo momento ci sto pensando, è abbastanza interessante, secondo me. Nelle cattedrali c’erano queste serie di pitture che raccontavano la Bibbia, oppure, non so, ad Assisi, la vita di San Francesco. Alcune di loro avevano proprio, sotto, delle iscrizioni. Era come fossero Fumetti, seri. Ma adesso ci sono delle persone per le quali il leggere è una fatica, e allora certe cose della cultura, della vita, dell’immaginazione, arrivano attraverso il Fumetto. Lo dico con meraviglia: ma ci sono casi, non so, viaggiando, che vedo dei ragazzi abbastanza grandi che leggono i Fumetti. Qui c’è dietro una cosa un po’ più difficile, da spiegare. Qui c’entra proprio la psicologia, forse, del profondo…
[in copertina: un’ immagine tratta dal fumetto Little Nemo]