I- Quando si pensava che per l’arte fosse un dovere imitare la natura, sorsero artisti snaturati e “inimitabili” come Nerone.
Afferma Tacito che, per comporre una nuova Iliade, e cantare “dal vero” la disfatta di Troia per mano degli Achei, non esitò a bruciare Roma. L’incendio durò sei giorni e sette notti. Delle quattordici parti di cui era composta la città, ne arsero dieci. Il tiranno, intanto, strimpellava versi sulla cetra, ritto “in abito scenico” sulla torre di Mecenate.
È probabile però, e lo sostiene Svetonio, che Nerone avesse posto mano a modo suo – cioè, col Fuoco – a una riforma urbanistica del Centro Storico, e che, più che aver chiesto alle fiamme l’ispirazione giusta, sia stato colto in un secondo tempo dalla “rassomiglianza” tra quella catastrofe e quella che incenerì la Città di Priamo.
Nerone era un uomo coraggioso: se voleva cantare una nuova Troia, doveva solo raggiungere i suoi eserciti, mentre radevano al suolo qualche grandiosa roccaforte ai confini dell’Impero.
L’imperatore stesso, invero, alimentò la sua fama di piromane.
«Una volta che un tale, nel mezzo di una conversazione generale, disse [citando un verso greco]: “Quando sarò morto, la terra si mescoli con il fuoco,” egli lo interruppe gridando: “Anzi, mentre sono vivo!” e realizzò pienamente questa sua aspirazione ». Si vociferò, a questo proposito, che avesse progettato non solo di incendiare Roma, ma persino, nello stesso momento, “di lanciare contro il popolo le bestie feroci, per rendere più difficile l’opera di salvataggio”, e lo spegnimento delle fiamme.
Comprendiamo appieno cosa sia il fenomeno umano chiamato “Artista” solo allorché dalla sorte gli viene anche conferito uno smisurato Potere.
Su Nerone leggiamo ancora in Svetonio:
“Quando cantava non era permesso uscire dal teatro, nemmeno per necessità. E così, stando a quanto si dice, alcune donne partorirono durante lo spettacolo, e molti, stanchi di ascoltare e di applaudire, sapendo che le porte erano sbarrate, saltarono furtivamente oltre il muro o si fecero portar fuori fingendosi morti”.
Filostrato ricorda che quando giunse nella capitale dell’impero, incontrò un ubriaco che ricopriva questo alto incarico: “andava in giro per tutta Roma cantando le melodie di Nerone dietro ricompensa; e aveva il diritto di trarre a giudizio per lesa maestà quanti ascoltavano distrattamente“.
Il biografo ufficiale di Apollonio ci ha conservato anche alcuni titoli delle tragedie neroniane: una Orestea, e un’Antigone, che il tiranno “era solito eseguire con stile snervato e contorto”, – accusa che per altro la critica filistea ha sempre rivolto alle Avanguardie. Nessuna di queste opere, né integralmente, né parzialmente ci è stata conservata. A Nerone, poeta forse insigne e geniale, spetta quindi la palma dell’Artista Incompreso – quando era in vita –, e dell’artista ignorato e perseguitato, – da defunto.
Di Nerone, inteso come artista, disgraziatamente non ci rimangono che pochi versi, forse una decina. Uno, l’ha tramandato Persio, e pare dica: “torva mimalloneis implerunt cornua bombis“. Un altro lo ricorda Alberto Savinio, rammaricandosi per la perdita dell’opera omnia del despota, perché – sostiene, perorandone la causa – già questo è sufficiente a riconoscergli un’ elevata ispirazione, e valore di poeta.
Suona, la rima superstite: sub terris tonuisse putes (“sembrava che tuonasse sotto terra”).
È però singolare che Savinio, alieno a certe pruderie, taccia sul vero motivo che ci ha conservato questo frammento. Si trova nella biografia di Lucano, scritta da Svetonio. L’autore della Farsaglia, era gran nemico di Nerone, al punto che un giorno, «avendo nelle pubbliche latrine emesso un suono particolarmente forte, tra il fuggi fuggi dei presenti declamò proprio lo stesso verso di Nerone: “Diresti ch’è tuonato sottoterra!”».
II- Nerone (ed è ora del tiranno, non dell’artista, che parlo) si distingue tra i despoti per la ferocia con cui trattò i suoi congiunti. Non amava sua madre, Agrippina, che lo rampognava di continuo.
Racconta Svetonio: “Per tre volte tentò di avvelenarla, ma vedendo che essa si era munita di antidoti, preparò un congegno che avrebbe dovuto far cadere su di lei il soffitto durante la notte mentre dormiva. I complici però non conservarono il segreto sul progetto e allora ideò una nave che facilmente si sfasciasse per farvela morire sia di naufragio sia per il crollo del ponte”. Agrippina però si salvò a nuoto.
Nerone fu dapprima prostrato dalla notizia, ma poi – dimostrando che i posteri avrebbero in futuro calunniato la sua intelligenza – escogitò seduta stante questa astuzia matricida: “quando il liberto di Agrippina, Lucio Agermo, arrivò pieno di gioia ad annunziargli che sua madre era salva, gettatogli ai piedi, di nascosto, un pugnale, ordinò di arrestarlo e di incatenarlo come se fosse venuto a fargli un attentato, e di uccidere sua madre, in modo che apparisse che si era data la morte, quando la sua macchinazione era stata scoperta”.
Fu responsabile anche della morte di Poppea . L’amò più di ogni altra delle sue favorite, e tuttavia “uccise anche lei, con un calcio, perché, incinta e malata, lo aveva rimproverato aspramente una sera che era rincasato tardi da una corsa di carri”.
Neppure voleva rivali, agendo con grande precocità su chi poteva forse togliergli l’impero: “Informato che il suo figliastro Rufrio Crispino, figlio di Poppea, ancora fanciullo, si assegnava nei suoi giochi il ruolo di generale [e di Imperatore], diede incarico ai suoi stessi schiavi di annegarlo nel mare mentre pescava”.
Nerone ammazzò pure sua zia, nel modo più commovente. Costei, gravemente inferma, “con grande affetto gli carezzava la peluria rossa che aveva sul mento e le labbra”. Era costume che un giovane, tagliatasi la prima barba, la regalasse ai parenti più stretti. La zia, quindi, espresse questo desiderio: che se l’avesse avuta in dono, sarebbe morta contenta. Nerone la prese in parola. “Me la taglio subito!”, esclamò. Mentre si radeva, ordinò ai medici di sopprimere la donna con un potentissimo purgante, poi si impossessò dei suoi beni, e fece sparire il testamento, perché non era l’unico erede.
Eppure questo stesso Nerone, secondo Montaigne, quando gli fu portata la sentenza di condanna a morte d’un criminale, che senza la sua firma non sarebbe stata eseguita, sospirò: “Piacesse a Dio che non avessi mai saputo scrivere!”, e questo sfogo fu inteso da tutti come un gesto di pietà. Tuttavia: egli era imperatore, e poteva astenersi comunque dal firmare, se voleva. Quindi, non aveva bisogno d’essere illetterato, ma solo d’essere umano.
III- Mentre attendeva la fine, e il suo impero era già rovinato del tutto, l’imperatore, saputo che il Senato intendeva condannarlo come “nemico della Patria”, e che quindi, trattenuto da un cappio, sarebbe stato battuto a morte con le verghe, allora, con grande forza d’animo, “inorridito, afferrò i due pugnali che aveva portato con sé, ne saggiò le punte, poi li rimise nel loro fodero” e disse: “non è ancora giunta l’ora segnata dal Destino”. I despoti, si sa, sono stati sempre convinti d’intrattenere un rapporto privilegiato col Destino, di norma soprattutto quello altrui.
Più tardi, assistendo affranto ai preparativi della propria sepoltura, non fu ai suoi sterminati domini, che pensò, ma, come dice Svetonio: «Nerone piangeva e ripeteva continuamente: “Quale artista muore con me!”» .
In effetti, di imperatori che governarono provincie anche più sconfinate delle sue, ce ne sono stati in passato: ma artisti “estremi” come lui, mai.
Nerone avrebbe voluto un Nerone che cantasse le sue gesta, ma, non avendolo, s’accontentò di se stesso. Se pensiamo ai suoi posteri, ci scuote uno scoramento. Presto i fatti atroci della Terra hanno sopravanzato gli aedi – coronati o meno – e brutalizzato ogni Musa: troppo accadeva, nelle stanze del Potere, nelle città bombardate, nelle prigioni d’ogni Inquisizione, nei roghi dell’Autodafé, nelle deportazioni, le soluzioni finali, le fucilazioni di massa, perché i poeti potessero tener dietro alla Storia, alle storie, e dipanare un canto, o un lamento sincero – che non fosse solo una manciata di vocali: un grido di sgomento.