Ignorante, misantropo, necrofilo, propenso a farsi beffe della legge e dei suoi guardiani.
Pochi riconoscerebbero in questo identikit il detective per eccellenza, l’eroe eponimo del genere poliziesco, l’eccentrico e sfaccendato Sherlock Holmes. Eppure, la prima notizia che abbiamo di lui, nel suo romanzo d’esordio Uno studio in rosso, è perversa e fantastica: Holmes si chiude nei gabinetti anatomici con uno staffile e frusta selvaggiamente i cadaveri.
La sua ignoranza è sesquipedale: in pieno XIX secolo si vanta di ignorare che la Terra gira intorno al sole. Di se stesso sospira: “sarei un ottimo delinquente!”, mentre scassina un appartamento. Non nasconde di preferire la cocaina ad altri, più innocui, passatempi borghesi. Chi lo detesta, tuttavia, non lo fa certo per questi tratti poco accattivanti del suo carattere, gli stessi che tra i suoi ammiratori, invece, ne hanno fatto un mito.
Holmes dà fastidio a un tipo preciso di lettore di gialli, proprio per la sua preordinata infallibilità. Conan Doyle, il medico scozzese che si è umilmente integrato con la figura insignificante di Watson, gli fa scoprire esattamente gli indizi che servono alla soluzione, come se Sherlock già la conoscesse in anticipo, e soprattutto lo fa pontificare di continuo, e ex cathedra, sugli strumenti logici che servono per acchiappare un colpevole o per indovinare i suoi pensieri più riposti. I suoi dialoghi col fido Watson (così rassicurante, perché è tanto stupido da far sembrare qualsiasi lettore un Einstein) sono pieni di osservazioni campate in aria e regole improvvisate che assumono invece, per bocca di Sherlock, carattere di leggi bronzee e fuori discussione. Un breve florilegio: «quando hai escluso l’impossibile – dice Holmes – qualsiasi cosa resta, per quanto improbabile, deve essere la verità». Oppure «Da una goccia d’acqua un logico potrebbe inferire [risalire al-] la possibilità di un Atlantico o di un Niagara senza aver visto e udito nulla né dell’uno né dell’altro». Oppure ancora: «Non bisogna mai fidarsi completamente di una donna, neppure della migliore». Queste, e altre “leggi” generali guidano il suo metodo, infallibilmente, all’ammanettamento del colpevole.
Il fatto che spesso non viene perdonato a Holmes, è il destino che divide con gli altri investigatori nati da lui e dal Dupin di Poe: egli vince superando ostacoli “logici” e non naturali, né sociali, e persegue con le sue indagini un ideale “estetico”, da giuoco intellettuale. Chi detesta la sua prosopopea britannica, non a torto gli contrappone i suoi rivali “realisti”, i detective privati d’ascendenza americana che puzzano di suole e di sudore, gli eroi incolti e quasi proletari del Nero e del poliziesco d’azione, che annusano il colpevole a distanza e che spesso hanno un solo problema: ammazzarlo in tempo.
Sherlock si mette in moto perché si sente sfidato dal crimine inspiegabile. La sua catilinaria sull’assenza, nei tempi moderni, di «grandi delitti e grandi delinquenti», è già tutto il suo programma, a partire dalla sua prima apparizione – novembre 1887 – in Uno studio in rosso. Sia la creatura di Conan Doyle, sia il suo progenitore Dupin, intervengono per restituire trasparenza a una società appena intorbidata dal delitto: e altrimenti, soprattutto secondo Holmes, assolutamente cristallina e comprensibile. Questa credenza presuppone un motivo ideologico, che non è sfuggito, per esempio, a Kracauer (Sociologia del romanzo poliziesco). Ma, in genere, chi disprezza o sottovaluta il metodo di Holmes lo ritiene sic et simpliciter frutto dei suoi tempi, e inadeguato ai nostri: e allora lo legge come se i suoi interventi esplicativi fossero esercizi narcisistici e ridondanti apologie del positivismo – sociale e scientifico – imperante nell’era vittoriana.
C’è però un libro importante, pubblicato negli anni ’80 del secolo scorso, che invitiamo tutti a rileggere, e che grida a gran voce ai detrattori di Holmes che hanno torto, e torto marcio per giunta. Ci riferiamo a Il Segno dei Tre: Holmes, Dupin, Peirce, curato da Umberto Eco e Thomas A. Sebeock, un volume dal quale Holmes esce vendicato e rivalutato, proprio per i suoi abili giochi di prestigio nel campo della Logica.
Grazie a Conan Doyle oggi noi sappiamo che un Giallo va letto con sospetto dalla prima all’ultima riga, come si trattasse di un indovinello posto alla nostra mente. Ciò comporta, come per il Fantastico (genere limitrofo), un cospicuo lavoro da parte dei lettori, delle lettrici: una sorta di compromissione, di complicità con i meccanismi narrativi. Ma le ardite argomentazioni “logiche” del detective non servono solo, come Borges in modo pertinente osservava, a preparare un tipo nuovo di lettore che si voleva attirare in un genere – il romanzo poliziesco – appena fondato: il metodo di Holmes è piuttosto il prototipo di una «logica della scoperta scientifica» ancora utilizzabile, secondo Il segno dei tre.
«Sherlock Holmes – si dice in uno dei saggi del volume, quello di Rehder – fu un eminente filosofo della scienza, molto avanti per l’età vittoriana e edoardiana, precursore del caustico anarchismo di Paul Feyerabend», cosicché le sue «procedure congetturali nell’indagine criminale» possono gettare, secondo Umberto Eco «nuova luce sulle procedure congetturali in scienza». Aggiunge il grande epistemologo Jaakko Hintikka: «noi crediamo che la vera struttura di ’’deduzione” e ’’inferenza” nel senso di Sherlock Holmes rappresenti un’impresa nuova e significativa per la logica filosofica».
Riassumendo, si può affermare che Holmes è il campione di un metodo investigativo “euristico” che, applicato alla scienza, è in grado di formulare nuove teorie e produrre nuove idee. Al contrario insomma della pretesa di Wittgenstein (Tractatus), secondo il quale tutte le verità logiche sono “tautologiche”, cioè: che le deduzioni e i sillogismi, non scoprono altro che ciò che era già implicito in essi.
Hintikka propone addirittura nella parte più interessante ma anche più specialistica del libro, una «formalizzazione» dei metodi holmesiani (cioè una sorta di Calcolatore/Sherlock), basata sulla «teoria dei giochi», che diventa il modello generale di una strategia di domande fatte alla natura, le quali implicano risposte in grado di favorire così la scoperta scientifica.
Ma, a parte l’illustre logico, gli altri testi insistono soprattutto sulle analogie del metodo holmesiano con la Semiotica, e in particolare con le teorie del filosofo americano Charles S. Peirce, quasi contemporaneo di Conan Doyle (anche se non risulta si conoscessero). Quello che il detective chiama, in Uno studio in rosso, la “scienza della deduzione e dell’analisi”, non sarebbe altro che un modello logico che Peirce ha battezzato, nei suoi scritti, “Abduzione”.
Che cosa significa “abdurre”? Famoso è l’esempio dei fagioli bianchi, con il quale Peirce spiega il nuovo tipo di inferenza. Se io parto da una regola (per es.: “Tutti i fagioli di questo sacchetto sono bianchi”) e prendo in considerazione un caso particolare (per es.: “I fagioli che ho in mano vengono da questo sacchetto”) ne deduco un risultato: in questo caso, che i fagioli che stringo sono bianchi (non ho neanche bisogno di aprire la mano). Questa è una deduzione. L’induzione procede al contrario, prende i casi (i fagioli) dal sacchetto, li conta, e ne inferisce che tutti i fagioli del sacchetto saranno bianchi. L’Abduzione introduce, in questo quadro triadico, una “congettura”, valida come elemento creativo. Essa parte da una regola, o una teoria di riferimento, come appunto: “Tutti i fagioli di questo sacchetto sono bianchi”. Se mi imbatto, fuori dal sacchetto, in alcuni fagioli altrettanto bianchi, non sono sicuro, ma posso abdurre che questi fagioli vengano dal sacchetto. È qualcosa di qualitativamente diverso dalla “Probabilità”, l’Abduzione, e non è imparentata neanche con il «tirare a indovinare», con il caso fortuito. È un’ipotesi-guida che collega un indizio alla sua causa.
La verità è che noi, parlando di qualsiasi evento, abduciamo continuamente. Molte cose di cui siamo arciconvinti non sono verità, ma semplici abduzioni, anche se per esse ci faremmo scannare. L’Abduzione – afferma la Harrowitz ne Il segno dei tre – «è letteralmente il fondamento necessario per la codificazione di un segno». Tramite il linguaggio, essa diventa sapere diffuso. La circostanza su cui tutti i contributi del libro in questione insistono, è che il modello abduttivo Peirce/Holmes può essere il modello futuro con il quale assicurarsi un numero cospicuo di “scoperte scientifiche”.
In questo senso, la via tracciata da Sherlock e da Peirce può essere valida ancora oggi, nell’epoca di Internet, del Post-Umanesimo, della “Connessione forzata”, dove le conquiste della Scienza sembra posta al servizio della trionfante Tecnocrazia, e senza quello ottengono poca risonanza, e poca eco.
Da noi, in Italia, Sherlock gode di un culto di seconda mano, che non ha mai raggiunto le vette di beatificazione anglosassone. Qualcuno lo scambia ancora per il detective con la pipa e il berretto con i copriorecchie che dice a ogni piè sospinto: “Elementare, Watson!”, oppure “semplice deduzione!”: due frasi che Conan Doyle, in decine di romanzi e racconti, non si è mai sognato di usare, e che appartengono invece (se non sbagliamo) al repertorio di Basil Rathbone nei panni del celebre investigatore.
Per questo, il risarcimento di Holmes giunse, in quegli anni, inatteso e ancor più gradito. Anche perché avveniva non attraverso un’esplicita rivendicazione del positivismo ottocentesco (del quale l’ex medico Conan Doyle fu senza dubbio un epigono, prima di convertirsi allo Spiritismo), ma piuttosto nel segno della crisi che ancora oggi attraversa la “certezza”, nella Scienza. Era anche indicativo che il volume inglobasse, come corpo un po’ spurio, ma egualmente denso di domande insidiose, il testo di Carlo Ginzburg: Spie, che parla di modelli scientifici «congetturali», che apparterrebbero all’antica sapienza del cacciatore, dell’indovino, del medico: il dibattito cui si mirava era quello tra irrazionale e razionale nella scienza. Con la volontà di dare una serie di indizi per uscirne. Anche appellandosi al valore “estetico” delle scoperte matematico-scientifiche, in consonanza con la convinzione di Sherlock, che le proprie indagini “logiche” avessero una loro “bellezza gratuita”, e valessero soprattutto per quella.
Naturalmente le Abduzioni sono infallibili solo nel testo-contesto del Poliziesco. Holmes a volte (lo dice Eco) esagera: «ci fa pensare a un giudice che, avendo acquisito la certezza che un imputato non era presente al momento giusto sulla scena del crimine, conclude che, perciò, costui stava commettendo nello stesso momento un altro crimine in un altro posto». Oppure: “quando una cosa non esiste, è segno che qualcuno ha interesse a nasconderla”. E così via: elementi che vanno bene solo nei racconti fantastici, come L’invasione dei coccodrilli in Alvernia (Francia) di Cortázar, e che giustamente ci stupiscono invece, se li ritroviamo nelle sentenze e nelle cronache delle aule giudiziarie.
Quando, nel 1983, scrissi per il manifesto la recensione del libro Il segno dei tre, feci a questo proposito un garbato cenno al Processo “7 aprile”, nel quale i magistrati abdussero un numero considerevole di carcerazioni, che Sherlock, probabilmente, non avrebbe approvato. Altri esempi, se ci sono, li lascio alla memoria del lettore.