Renato Berta (nato a Bellinzona, in Svizzera, il 2 marzo 1945) ha attraversato, da protagonista, più di cinquant’anni di storia del cinema europeo.
Ha impresso il segno del suo apporto creativo su tutta la Nouvelle Vague svizzera e sul Cinema d’Autore francese, collaborando con Tanner, Goretta, Daniel Schmid, e poi con Godard, Resnais, Rohmer, Malle, Chabrol. È stato il direttore della fotografia, negli anni Novanta, dei film del Maestro portoghese Manoel de Oliveira e dell’israeliano Amos Gitai. Da ultimo si è legato professionalmente al regista italiano Mario Martone, col quale ha realizzato tre film; per uno di questi, Noi credevamo, ha ottenuto il David di Donatello per la miglior fotografia.
Ma il sodalizio artistico più duraturo, l’ha intrattenuto con la coppia di registi Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, con i quali ha collaborato ininterrottamente dal 1970 (Othon) fino al 2010 (per il cortometraggio O somma luce). Naturalmente è sua anche la fotografia del film Fortini/cani.
A. Z.:
Se tu sei d’accordo, parliamo del tuo ricordo personale di Fortini/Cani, realizzato da Jean Marie Straub e Danièle Huillet nel 1976. Già il libricino di Franco Fortini da cui è tratto, I cani del Sinai, è straordinario: oltreché naturalmente di una attualità eccezionale se si pensa a quel che sta succedendo in questi giorni in Israele e in medio oriente. Però il testo, che è del 1967, pone anche problemi basilari intorno all’etica comunista, si interroga e propone risposte sul significato dell’essere comunista o non comunista. Insomma sono tutti temi che appartengono molto alla storia della mia generazione e che certo oggi sembrano desueti.
Renato Berta:
Eh sì, fin troppo.
A. Z.:
Secondo me la prospettiva e il modo col quale tu e gli Straub avete deciso di inquadrare Franco Fortini in Fortini/Cani meritano già un trattato.
Renato Berta:
Vorrei partire dalla tua introduzione, parlando di Fortini. Di questo film ho dei ricordi personali, che mi hanno segnato. Soprattutto mi piace ricordare il mio incontro con Franco e le nostre conversazioni. Collaborando con Jean-Marie e Danièle Huillet ho sempre avuto occasione di avvicinare delle persone veramente interessanti, ma sono davvero grato agli Straub di avermi permesso di conoscere Fortini.
Naturalmente, durante le riprese, parlavo con lui anche del film, ma ho instaurato con Franco un rapporto che andava oltre le questioni di lavoro.
Si mangiava insieme e si discuteva in continuazione: perché Franco accettava il confronto, è un personaggio che si è messo in discussione e si è interrogato per tutta la sua vita. Mi ha raccontato che lui è stato “Balilla fascista”, da giovanissimo. In quel periodo non si rendeva neppure conto di cosa volesse dire essere ebreo. Un giorno, parlando con lui, ho criticato duramente l’atteggiamento della Svizzera durante la seconda guerra mondiale e lui mi ha squadrato, sorpreso. Ho capito di aver toccato un argomento spinoso. Io ho precisato: “non è che la posizione della Svizzera fosse così chiara, specialmente prima del ’43, perché solo dopo la battaglia di Stalingrado, con la vittoria sovietica, l’opinione pubblica ha cambiato parere sul nazismo; prima di allora, sulla questione dell’antisemitismo c’era molta indifferenza oppure ambiguità”. Lui, che era arrivato esule in Svizzera proprio in quel periodo, si è un bel po’ meravigliato, e mi ha risposto: “ma cosa dici, ma perché?” E mi ha raccontato delle cose incredibili sul suo rapporto col mio Paese.
Conoscevo già la storia di tutta una serie di personaggi che lui aveva incontrato a Zurigo, personalità come l’editore Theo Pinkus, per esempio, che era un fulcro, un punto di riferimento imprescindibile per i rifugiati, per gli stranieri impegnati politicamente, e per gli intellettuali di passaggio. Ma mi è rimasta impressa la sua riconoscenza verso la Svizzera, un luogo, mi ha detto, nel quale aveva scoperto per la prima volta l’esistenza di una “Biblioteca Socialista”. Volumi e volumi che non aveva mai letto, che il fascismo aveva distrutto o nascosto. Una “Biblioteca Socialista”?, gli ho chiesto io, sorpreso. “Ma dove?”. “A Lugano”. “E come l’hai scoperta?” “Era nel retrobottega di un farmacista”. Non ricordava né il nome né la strada. Ma il piacere di aprire e sfogliare quei libri mai visti prima, quello sì, lo ricordava.
Ha fatto lì un’esperienza fondamentale, perché le sue posizioni politiche sono nate dalla vita che ha vissuto, ed è arrivato al suo pensiero in relazione alla Storia in maniera molto pragmatica, in maniera “diretta”, si può dire. Fortini insomma ha avuto bisogno della Svizzera per diventare Fortini ed è una cosa incredibile per uno svizzero “critico” come sono io.
Per quanto riguarda il modo col quale si è deciso di inquadrare Franco in Fortini/Cani, ti dirò: non bisogna dimenticare che Jean-Marie faceva moltissime prove con gli attori, o, se non erano attori, con le persone che filmava. Spesso, durante le prove, cercava già di scegliere le inquadrature migliori, dal suo punto di vista, guardando nel “viseur”, il “mirino” (anche se non è molto preciso). Poi faceva altre prove sui luoghi stessi dove avrebbe girato successivamente. Quindi non è che abbiamo preso certe decisioni sul Fortini partendo da zero: no, c’era tutto un “historique”, un lavoro già consolidato, alla base. Quando arrivo sul set, io sono relativamente “vergine”, mentre Jean-Marie ha già fatto un sacco di lavoro. E questo vale per tutti i film che ho girato con gli Straub.
Naturalmente si partiva dalla proposta che faceva lui, e si cominciava a discutere l’inquadratura già impostata su Fortini che leggeva il suo testo, e poi si spostava la macchina da presa un po’ a sinistra o un po’ a destra, per farci entrare per esempio un angolo di casa sua (la casa che aveva all’Isola d’Elba); insomma piano piano l’inquadratura diventava molto più pensata e molto più solida e coerente con quello che volevamo realizzare assieme.
A. Z.:
La questione è che per la prima volta nella vostra comune filmografia (e questo vale anche per le opere che avete fatto dopo), per la prima volta tu e gli Straub avete a disposizione l’Autore del testo letterario da cui è stato tratto il film. Ora, mi pare che il senso dell’inquadratura finale che avete scelto per riprendere Fortini mentre legge, sia proprio quello di non fare di lui “un tribuno”, di non far prevalere la sua immagine personale, la sua figura, sulla sostanza di quello che dirà. È un’inquadratura, in genere, che mi sembra ritagliata, un po’ da un angolo, un po’ di profilo: un modo insomma di “distanziare” l’oggetto di cui si parla.
Renato Berta:
Si voleva dare più spessore al testo. Conferire più importanza alla parola. Questo tipo di scelte sono alla base di tutti i film di Jean-Marie, che sono sempre stati “funzionali” ai personaggi, e al contenuto di quello che si filma. Da questo punto di vista, c’è sempre stata una riflessione fortissima da parte degli Straub. È una riflessione “visibile” in tutti i film che ho fatto con loro. È chiaro che siccome Franco Fortini era anche l’autore del libro che veniva letto, bisognava creare una certa distanza tra la persona, il testo, e la lettura del testo e come leggerlo. È stato un lavoro completamente diverso dal Giulio Cesare [Lezioni di Storia, 1972], dove il rapporto al testo, che era di Brecht, era veicolato attraverso delle persone che erano attori. Nel nostro caso Fortini non lo era, non voleva esserlo lui, e non volevano gli Straub che “interpretasse” la parte di se stesso.
A. Z.:
A me sembra che, persino rispetto a Lezioni di Storia, Fortini/Cani sia ancora più brechthiano, nel senso che Fortini è stato trattato come un soggetto-oggetto di teatro brechthiano. Tu hai usato l’altro giorno, parlando con me, questa espressione: Fortini si è “meravigliato” – hai detto – di essere trattato in questo modo. “Meravigliato” perché lui, dopo nove anni che ha scritto un testo di cui, diciamo, un po’, da comunista, “si vergogna” perché è molto autobiografico, si trova improvvisamente catapultato in una situazione in cui deve dire davanti a tutti, davanti all’obiettivo: “Io”.
Brecht diceva: “Bisogna vivere in terza persona”, e molte volte, troppe, c’è la parola “Io”, o il soggetto “io”, in questo libricino, I cani del Sinai.
Renato Berta:
Mi pare evidente che il film non sia una “illustrazione” del libro. Il che implica una relazione molto più complessa e “distanziata” tra l’autore dell’opera e il suo “oggetto”. La cosa che più interessava era il rapporto che aveva Fortini con questo testo e con questo tipo di lettura: che cosa risaltava da questa “dialettica”. E allora in questo senso è chiaro che Franco stesso sta leggendo un testo suo come se non fosse suo, in un modo nel quale lui non l’avrebbe mai riletto. E c’era anche questa dimensione: a un certo punto Franco comincia a leggere quello che ha scritto come se lui lo “scoprisse” per la prima volta man mano che va avanti. In definitiva lui I cani del Sinai l’ha un po’ riscoperto soprattutto grazie al modo col quale l’aveva elaborato insieme a Jean-Marie.
A. Z.:
Che dialogo c’è stato tra te e gli Straub sulle immagini “invisibili” della Resistenza? Perché nelle riprese gli eventi storici vengono riferiti e esemplificati solo con una lunga sequenza, nella quale si vedono le montagne dove hanno combattuto i Partigiani, ma è solo (in apparenza) natura, e non storia.
Renato Berta:
Prima di tutto erano posti che io non conoscevo e che gli Straub invece conoscevano benissimo. Sapevo naturalmente cosa era successo lassù, però li vedevo per la prima volta in maniera molto più concreta. Abbiamo girato, mi ricordo, praticamente nell’ordine col quale poi si è montato il film. Abbiamo cominciato le riprese intorno a Lucca, poi siamo saliti sulle Alpi Apuane e siamo scesi dall’altra parte, sulle orme della “Linea Gotica”.
Ti faccio un esempio, che riguarda il “senso” di quelle riprese sulla Resistenza. Arriviamo in una zona montagnosa non molto distante da Marzabotto. Nel film, a quel punto, si vedono due panoramiche che si susseguono. C’è una panoramica di 360 gradi, un giro completo, e poi, quando siamo convinti sia arrivata alla fine e si passi ad altro, comincia subito un’altra panoramica. Nell’intenzione originale degli Straub, doveva essercene una sola. Sono stato io a proporgliene due, una dietro l’altra, senza fermarsi, perché così, al momento del montaggio potevano scegliere quella migliore e più utile per il taglio da effettuare. Jean-Marie ha detto: “Ah, sì, sì, facciamo così”. Morale della favola: non è che ha scelto una sola delle panoramiche: ha detto “non ho potuto tagliare” e le ha lasciate tutte e due. Lui voleva dare alla sequenza filmata un significato non didascalico, “non descrittivo”, e l’ha ribadito ripetendola. Questo ti rivela molto su che tipo di rapporto ha lui con queste inquadrature.
Sinceramente, all’epoca mi domandavo, e me lo sono chiesto mille volte, in che modo lo spettatore avrebbe potuto capire quello che era successo in quei luoghi lì, solo attraverso le nostre immagini. C’era un “mistero” dietro. Da parte degli Straub c’era un rispetto assoluto della “sacralità” di quei luoghi. Erano territori, se si può dir così, “evocativi” ma non erano filmati in una maniera evocativa. Anche in questo caso, gli Straub hanno preteso una forma di “distanziamento”. Non c’è nessun legame diretto tra queste sequenze e la Resistenza, se si seguono le leggi tradizionali dell’informazione giornalistica. Mi pare evidente che una tale distanza dovrebbe favorire, nello spettatore, non tanto un “sapere”, o un “riconoscere”, quanto un “interrogarsi”. Un interrogarsi sulla Storia e sugli uomini che hanno fatto la storia.
Io penso che Fortini/Cani sia uno dei film che ho fatto con Jean-Marie nel quale ci si interroga di più. Ma questo tipo di problematica è presente in tutti i film degli Straub.
A. Z.:
In che modo Fortini seguiva le indicazioni di “lettura” degli Straub?
Renato Berta:
Mi ricordo che Franco si poneva domande: “ma questo passo si capisce? Ma è giusto?”. E Jean-Marie rispondeva: “sì, sì, si capisce”. Ne era sicuro: anche perché quello che giravamo corrispondeva al lavoro di preparazione del film, condotto con la meticolosità e il metodo rigoroso che io conoscevo benissimo. Però mi ricordo che Franco, un giorno, disse: “Va bene, faccio così”, con un’espressione che non era molto convinta, come se il testo gli stesse sfuggendo un po’ di mano; si rendeva conto che il suo testo stava diventando quasi “autonomo” da lui, che l’aveva scritto. Non contestava le direttive di Straub, aveva dei dubbi; ma il dubbio faceva parte del film: era previsto, in un certo senso, fin dal principio.