Secondo Omero, Esiodo, Apollodoro, e altri mitografi moderni e antichi, Mnemosine – dèa della Memoria – era la madre delle Muse Olimpie: ossia partorì ispiratrici, guide e guardiane del Bello Artistico in ogni sua possibile declinazione. I nostri contemporanei dovrebbero stupirsi, e infatti lo fanno, che proprio la Memoria sia stata la madre delle Muse. In tempi recenti l’improvvisazione, la spontaneità, l’happening, l’assenza di studio, di storia, e d’applicazione, sembrano madri migliori, per qualsiasi Espressione Artistica. Mentre invece, secondo le parole chiarificatrici di Nerval (Figlie del Fuoco): “in sostanza, inventare è ricordarsi, ha detto un moralista”. Persino il surrealista Buñuel – contro chi vuole essere originale a tutti i costi – approvava questo detto: nell’Arte, “tutto quello che non è Tradizione, è plagio”. E l’iconoclasta che distrugge le regole (è opinione di Queneau) segue senza saperlo regole che non conosce, e che quindi lo domineranno. Dove non c’è Memoria, per Alberto Savinio, non c’è neppure Speranza.
La madre delle Arti è sempre incinta: a giudicare dal loro numero crescente. Dal 1839 in poi – nascita del dagherrotipo – le Muse sono diventate, da 9 che erano, 12 o 13, e non si vede la fine di questa figliolanza. L’ultima nata, dopo il Giornalismo, dovrebbe essere, ed è, la Realtà Virtuale: nei nostri pc e negli smartphone modalità precotte e preordinate di “creazione artistica” vengono inserite di default, all’atto dell’uscita dalla fabbrica. La novità futura sarà probabilmente un’app che garantisca all’opera nostra un subitaneo plauso della Critica, con expertise acclusa. E allora: cosa ci impedisce di aggiungere alle antiche Olimpie la Tv interattiva (cioè lo zapping col telecomando), o la supersonica messaggistica di Instagram? Con i nuovi telefoni cellulari tutti si fotografano di continuo. Siamo diventati “turisti” della nostra vita. Non c’è, però, niente di veramente “social” nella smania dei contemporanei di ritrarsi “selfie” in ogni situazione. L’uomo e la donna moderni oggi incarnano la “pubblicità di se stessi”. E la Pubblicità, almeno da mezzo secolo, s’atteggia e pavoneggia a nuova Musa.
L’Opera d’Arte dell’Avvenire (preconizzata dal tonitruante Wagner) è diventata in Occidente facilmente prevedibile, almeno in termini albertosaviniani: sarà, ancora più che mai, un’Arte senza Memoria, senza “Tradizione”. Finalmente l’onda sollevata dal detersivo, e ben visibile dentro l’oblò della lavatrice, sostituirà in toto Hiroshige e Hokusai. Dei quali si sarà perduto ogni ricordo.
Ma: riuscirà a salvare il mondo, anche questo tipo “nuovo” di Bellezza? Alberto Savinio ne dubiterebbe, garbatamente scettico sulla nota predizione del principe Lev Myškin. Il Bello per Savinio, è già bell’e morto. In specie quello “artistico”. Discutendo d’estetica con una sconosciuta, Savinio le fece notare “che da almeno ottanta anni” (siamo nel 1949), “la bellezza è ufficialmente morta”. All’obbiezione scontata: “Allora tutto è brutto”, l’artista oppose questo notevole argomento: “No, perché nell’istante medesimo in cui la Bellezza morì, morì anche la Bruttezza”. Ammesso e non concesso che non fosse proprio morto, nel ’49, ma solo agonizzante, ciò che è Bello (o sembra tale) ormai da più di un secolo si azzuffa dovunque col Brutto che si trascina sempre dietro, come una coppia inseparabile da commedia dell’arte, da teatro dei burattini in parco pubblico.
Perciò la Parodia giunge per prima a cogliere, dell’Arte Attuale, la vera essenza. Detto in altri termini: il Bello cui aspiriamo noi contemporanei, dovrebbe nascere già come Parodia di se stesso. Si può forse affermare, senza offenderlo, che questa è stata proprio (“scusate la parola”) la missione estetica d’Alberto Savinio? Il compito fondamentale, e “l’apostolico fine”, che si è prefissi con l’opera sua questo sublime umorista, e sublime parodista, che padroneggiò tutte, proprio tutte, le forme d’Arte (Giornalismo compreso)?
Il Bello è morto insieme al Brutto, però l’Arte sopravvive. Come mai? È probabile che nel frattempo il morto Bello prosegua un’interessante vita da Fantasma (La vita dei fantasmi essendo, per l’appunto, titolo d’un libro di Savinio). E questo perché – è una regola che invento di sana pianta per questa voce di catalogo –, il Bello è sempre più imprevedibile del Brutto. Quindi c’è da credere, e da attendere, che il Bello risorgerà, o, meglio, che stia già per “riapparire”, grazie al travaglio d’un pugno d’artisti oscuri e taumaturghi che operano da tempo come “medium”, in sofferta solitudine.
Non sono critico d’arte ma (spero) solo scrittore e (forse) moralista, quindi non mi inoltro più di tanto in territori che non sono i miei. C’è un modo ancor più terribile di uccidere quello che non si capisce; ed è: fingere di capirlo.
Posso solo aggiungere (e lo faccio in omaggio all’Alberto Savinio anti-surrealista), un’esperienza personale, che mi pare rivelatrice dell’Opera d’Arte che ci aspetta, almeno in Occidente.
Ascolto alla Filodiffusione un’esibizione del pianista Dino Ciani, scomparso a 32 anni nel 1974: Chopin (due Notturni opera 48 n. 1 e n. 2); una serata musicale dal vivo al Piccolo Teatro di Milano, registrata il 16 dicembre del 1973. In pieno concerto, una donna tossisce forte, una, due, tre volte. Dopo una lunga pausa, si risveglia, e tossicchia nuovamente, accompagnata da un brusio di meraviglia generale. Più tardi altri due colpi suoi, o raschi, secchi, rapidi. Finalmente in chiusura del primo Notturno, quel zinzinìo in gola le diventa intollerabile, e si fa viva di nuovo, con circospezione, ma risoluta. Risuonano appena due note del secondo Notturno e: s’ode un accesso di tosse stizzosa degno di un sanatorio, robusto, stentoreo, al limite dell’espettorazione. Durerà quattro, cinque secondi, stavolta in primissimo piano. Non è più la donna, ma un uomo adesso, un uomo maturo. La signora, passeranno dieci secondi, risponde con quattro rapidi colpi: sembra stizzita dalla concorrenza. La musica scorre dal pianoforte sempre fluida, ma – miracolo – diventa a questo punto più “espressiva”, si rabbuia, severa, interrogativa; si chiede, la Musica: ma che succede? E dentro questo turbine creativo, alle note si frammischiano, da pari a pari e con tanto d’eco, altri due colpi di tosse perentori – non so più distinguere se d’origine virile o femminile. Poi brontolii sordi di laringi infiammate, quasi in fondo alla sala, come tuoni lontanissimi all’orizzonte. C’è persino un singulto, sintomo di cattiva digestione, oppure di dispetto. Chi avrà l’ultima parola, cioè l’ultimo sfogo? È la donna. Un colpo finale, austero, inappellabile, icastico come la battuta conclusiva d’una tragedia del seicento.
Non può essere un caso. I due Tosseggiatori sapevano che i Notturni sarebbero stati registrati. In quanto alla signora, mi sbaglio, o è la stessa che ho già udito gargarizzare in un concerto per piano, mi pare, di Pollini? Siamo di fronte a virtuosi che fanno trattenere il fiato per la loro bravura. Che usano la Tosse come fosse uno strumento tracheale, variandone temperatura, tono, colore, timbro, espressione. Urge un loro intervento sulle partiture d’altri brani “classici”: a quando un “Concerto di Beethoven per Tossicchiatori e Orchestra”? Nell’epoca dell’assoluta Riproducibilità Tecnica costoro sono testimoni, e antesignani, d’una totale e democratica Vandalizzazione delle Arti. Da quasi un secolo – processo per il quale il Surrealismo ha sicuramente le sue responsabilità–, l’Arte si è liberata della Memoria; e così l’Arte Vandalica, l’Arte che ha inglobato il Vandalismo, è stata battezzata nuova Musa. Che poi anch’essa, come le altre nuove Muse, sia “figlia di Mnemosine”, è quantomeno discutibile. Mater semper certa est, sentenziavano gli antichi: ma l’età nostra, epoca di cloni e di “grembi in affitto”, ha smentito pure questa millenaria verità.
[in copertina: Un pittore provoca un’inondazione nella Galleria dei Medici (1910), di Louis Béroud]