I- Come tutti i più ammirati condottieri della storia, Alessandro il Grande non morì in battaglia. Altri, a migliaia, durante le sue vittoriose campagne di guerra e di conquista, perirono al suo posto – in suo nome, oppure da nemici, bestemmiandolo. Morì, invece, a 33 anni, per una malattia dal decorso fulminante nel suo palazzo di Babilonia, tra lo sconcerto dei suoi intimi seguaci e di tutto il suo esercito, che sfilò in silenzio davanti al suo letto d’agonia.
‘Attar ricorda (o inventa) nel Poema divino che Alessandro spirò col capo reclinato sulla sua cotta di maglia d’acciaio, mentre i più fedeli tra i suoi soldati – la sua guardia del corpo, gli stessi che un tempo gli avevano impedito d’uccidersi – formavano sopra di lui che moriva un tetto lucente di scudi sbalzati nell’oro. Piangeva, l’imperatore macedone, perché al limitare della vita aveva finalmente capito quanto fosse vana per una creatura mortale la sua ambizione di impadronirsi di tutta la Terra; piangeva, ma questa saggezza lo rendeva felice.
Sul morbo che contrasse fioriscono tuttora leggende e diagnosi incaute: si fa risalire la causa delle febbri, altissime, che lo uccisero, a un “vento putrido” che inalò nelle campagne, a una recidiva di malaria, a leucemia, a tifo, o a un devastante virus intestinale.
Ma non fu certo estraneo all’improvviso peggioramento della sua salute l’abuso del vino, una debolezza che trasformava il condottiero invitto, generoso, letterato e casto, in un uomo diverso, rozzo, brutale e omicida. Fu durante una crisi etilica che, in preda all’ira, uccise personalmente uno dei suoi generali, Clito, il quale ebbe il torto di ricordargli che il suo successo militare e tutto ciò che aveva conquistato (il mondo “civile”, dalla Grecia all’India) lo doveva solo alla bravura e al sacrificio dei suoi soldati.
Durante i suoi eccessi alcoolici Alessandro, ubriaco, radunava la sua corte e si beava d’essere incessantemente lodato e incensato dai suoi lacchè. Probabilmente fu al termine d’uno di quei festini conditi di iperboli e copiose libagioni, che cedé alla perniciosa convinzione – pilotata dai suoi adulatori – d’essere figlio del Padre degli Dei, e non di Filippo, re macedone. I più anziani dei commilitoni e anche i più leali tra il suo seguito, non gradirono di doversi prosternare da allora in poi, distesi in terra, davanti a lui, come se fosse un Dio.
Molti vollero ucciderlo, e non ci riuscirono. Ai veleni, sfuggiva, o per intuizione propria o per delazione altrui, oppure, quasi per sfida. Ebbe in mano una volta una coppa, portagli dal suo medico, Filippo: un biglietto giunto appena in tempo gli intimava di non berla, che conteneva una pozione mortale, perché Filippo si era venduto a Dario. Allora, riferisce Plutarco [Vita, 19], guardando fisso negli occhi il suo medico, trangugiò di colpo quel farmaco, fino all’ultima goccia. La sua fiducia fu ripagata.
In un’altra occasione, rischiò di rimanere vittima d’un Delitto Perfetto: e ne scampò. La vicenda, o leggenda, ha una lunga tradizione e compare negli scritti di molti storici delle gesta del Conquistatore. Anche il Secretum Secretorum, uno dei libri più diffusi di tutto il medioevo, un manuale d’origine araba composto di brevi ammonimenti rivolti da Aristotele al suo allievo Alessandro, racconta questa storia, a suo modo.
Si dice che un re indiano avesse inviato in dono a Alessandro una voluttuosa, colta e bellissima fanciulla, per intrattenerlo conversando e per cedere a ogni suo altro capriccio. Il regalo però nascondeva un’insidia fatale.
La ragazza si comportava con grande disinvoltura: senza vergogna, e senza mutare l’espressione gradevole del volto, cercava, pure in pubblico, d’avvicinare il proprio viso a quello del giovane principe macedone. Aristotele, insospettito da questo strano comportamento, la trasse indietro, la esaminò. Comprese che era stata nutrita di aconito e d’altri veleni e che il suo vero scopo era quello di uccidere Alessandro, coll’emissione del fiato, coi morsi, o “nell’ardore del carnale diletto”. Si dice anche che il filosofo, a riprova di quanto aveva scoperto, convocò un servo e questi, abbracciato dalla “puella venenata”, stramazzò presto a terra, fulminato. Così salvò la vita al suo discepolo.
II- La letteratura orientale, dai tempi più antichi fino e oltre le Mille e una Notte, è gremita d’esempi come quello precedente: percorsa da avvenenti fanciulle velenose e belle Donne-Serpente, seducenti Meduse allevate, istruite, donate, per uccidere principi e potenti “vuoi attraverso la conversazione, vuoi per copulazione”.
Una delle ultime tra queste donne fatali, una scheggia “reale” uscita dal Mito, la troviamo però in Occidente. Nell’ultimo secolo del nostro medioevo, lo stesso stratagemma del re indiano, che doveva ammazzare Alessandro, fu riesumato, di nuovo, dai fiorentini, per scongiurare la conquista della loro città.
Ladislao d’Angiò re di Napoli, l’impavido e lussurioso tiranno che tentò di riunificare l’Italia, s’infuriava se a coronamento delle sue vittorie veniva a mancargli, come dice Montaigne, “il godimento di qualche rara bellezza”.
Per questo, assediata e stremata Firenze nel 1414, quando la città era ormai a un passo dalla capitolazione, decise di lasciare libero il campo, a condizione che i Fiorentini consegnassero ai suoi ardori una certa fanciulla, universalmente lodata per la grazia seducente e la leggiadria della persona.
“Fu giocoforza concedergliela, ed evitare la rovina pubblica con un’ingiuria privata”, ammette a malincuore Montaigne.
La giovane, però, era figlia “di un medico celebre ai suoi tempi, il quale, trovatosi costretto a sì turpe necessità, si risolse a una nobile azione. Siccome tutti agghindavano la sua figliola e le mettevano addosso ornamenti e gioielli che potessero renderla gradita a quel nuovo amante, anch’egli le diede un fazzoletto squisito per profumo e lavorazione, del quale essa doveva servirsi nei loro primi approcci, oggetto che esse non dimenticano mai in quel paese. Questo fazzoletto, avvelenato secondo l’abilità della sua professione, venendo a strofinarsi a quelle carni eccitate e con i pori aperti, trasmise il suo veleno tanto rapidamente che avendo immediatamente reso il loro sudore da caldo a freddo, essi spirarono nelle braccia uno dell’altra”.
Precisa (o forse no) lo “storico dell’Amore” Mouchet, per i più ingenui: il filtro maligno la bella dama l’aveva utilizzato per aspergere quelle parti che, “la verecondia impedisce di nominare”.
E così Giuditta morì con Oloferne.
Le cronache si dividono nel riferire se la bellezza locale, sacrificando la propria castità e la vita per vendicare l’onore della città vicina alla sconfitta, fosse consenziente o fosse stata ingannata dal padre. Quegli storici che ambientano la storia a Perugia, ritengono che il medico fosse stato prezzolato dai fiorentini, e che consegnò la figlia al macello per avidità, tenendola all’oscuro del complotto.
Comunque: spesso ignara, (ma non in questo caso) la Letteratura Fantastica invertì il suo corso e, nata come favola in Oriente, in Occidente seguì la rotta della Realtà: poi di nuovo tornò Racconto. La figlia di Rapaccini, immaginata da Hawthorne in uno dei suoi Muschi, non è altri che una “puella venenata” – l’amante assassina di Alessandro il Grande e di Ladislao, il re di Napoli, ucciso, mentre esercitava la venere, dal più fraudolento degli Afrodisiaci e da uno dei più astuti Delitti Perfetti.
[in copertina: particolare della Sala delle Nozze di Alessandro e Rossana, di Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma]