Quella che segue è un’intervista che Giovanni Spagnoletti e io abbiamo realizzato per il quotidiano “il manifesto” il 28 novembre 1976 nella casa romana di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Parlammo della loro visione innovativa del Linguaggio Cinematografico, e del film che avevano appena presentato al pubblico internazionale: Fortini/Cani, nel quale il grande intellettuale Franco Fortini “rileggeva” alcuni brani del suo libro I cani del Sinai, pubblicato nove anni prima. Si trattava d’una riflessione, soprattutto autobiografica (Fortini aveva origini ebraiche), sul conflitto arabo-israeliano culminato nella “guerra dei sei giorni” del 1967.
Il testo che compare in questo sito non è integrale: quello completo (rivisto dalla coppia di Autori) si può leggere sul numero 269-270 di Filmcritica, diretta da Edoardo Bruno.
Spagnoletti & Porcarelli:
Nell’idea di partenza del film, cosa vi ha interessato di più: il libro di Fortini o Fortini come figura di letterato e intellettuale marxista?
Jean-Marie Straub:
Le cose non si possono più separare a questo punto, perché naturalmente Fortini ci interessava in quanto ha fatto una riflessione consistente nel reiscrivere i macelli nazisti nel contesto della lotta di classe, nel contesto del colonialismo, del neocolonialismo, dell’imperialismo ecc.: perché anche noi nel nostro… nella nostra piccola evoluzione siamo arrivati a questo punto. È chiaro che è questo ciò che ci interessa, però non basterebbe a fare un film.
Ci interessavano le informazioni… che sono tante: per esempio che un ebreo in Italia era esentato dalle lezioni di religione; per esempio tutto quello che è successo al padre di Fortini; per esempio le leggi razziali, che non sono più gentili di quelle naziste – delle quali però, in Italia, la borghesia non vuol sentire parlare. In Italia sono persuasi di non essere razzisti, e non esserlo mai stati…
[…] Il film ha un senso solo se si dipana tra quel che Le Monde ha chiamato “documentario” e la finzione – quell’aspetto che io chiamo il “romanzo” –, tra la riflessione generale e la riflessione diciamo biografica, autobiografica, sul passato italiano. L’idea generale non esiste se non viene da una riflessione particolare, direi “concreta”. È così che Brecht definisce il realismo. Lo definisce come capacità di partire dal particolare per arrivare al generale… E penso che esista un movimento tra questi due poli: e è proprio ciò che fa il film, quella navette, quel zig-zag fra il “romanzo” – che è anche qualche volta, lo dico senza ironia né disprezzo, un romanzo melodrammatico– e la riflessione generale.
Danièle Huillet:
…Ma il film non è un “monumento” a Fortini…
S&P:
Ecco: una cosa che appunto era stata chiesta a Pesaro: se cioè il film fosse “agiografico”. Mi pare che tu allora hai risposto che non lo era assolutamente, e anzi nel film Fortini appariva come un “ometto”…
Jean-Marie Straub:
L’ometto, se ometto c’è, sta nell’ultima inquadratura, dopo i giornali, quando si vede Fortini per l’ultima volta ed è collocato, per la prima volta, nello spazio dove leggeva. Si parte da lui per panoramicare e arrivare a concludere: parla di “distruzione”, eccetera…
S&P:
Come avete guidato il lavoro di Fortini? La sua dizione non corrisponde mai all’intonazione che dovrebbe avere una lettura “normale” del testo de I cani del Sinai…
Jean-Marie Straub:
Ma la dizione corrisponde sempre al testo: solo che non è una lettura, diciamo, tipo speaker della televisione, di tipo naturalistico: è una lettura costruita e riflettuta, costruita a tre, cioè lui e noi due. Poi il film ha diversi livelli e fatti oltre la lettura. […] La lettura, nel primo livello, è quasi improvvisata. Poi, soprattutto i testi dove Franco non si vede – i testi fuori campo – sono costruiti in maniera molto astratta, sempre partendo dal testo; e tra questi due metodi, ci sono tutti i gradini intermedi. Cioè, non esiste un sistema o un’unità: per quanto riguarda la lettura o il metodo di leggere, il film è un ventaglio – va da questa quasi improvvisazione a una lettura completamente strutturata, con tutte le tappe intermedie.
S&P:
Che tipo di identità c’è, tra quello che voi vi siete prefissi nel film, diciamo tra il vostro “punto di vista”, e quel che Fortini si era prefisso scrivendo il suo libro?
Jean-Marie Straub:
Ma… non può esserci… è evidente. Primo, perché nel film c’è uno spazio che è il nostro, e poi c’è lo spazio dello spettatore di fronte al film, che è anche diverso dal nostro. C’è un punto di vista che è il nostro su Fortini, e questo punto di vista è: “nove anni dopo”, e lui stesso, leggendo, introduce un punto di vista, uno stacco di nove anni, e legge testi come se fossero stati scritti da un altro. La regola del gioco sulla quale eravamo d’accordo consisteva nel non cambiare i testi, nel non riscriverli: cioè lui ha accettato modestamente – e questo è un bel coraggio – di leggere i testi senza la tentazione di riscriverli […]. Abbiamo detto a Franco: leggi come se da una parte fossero testi stranieri, estranei a te, come se fossero stati scritti da un altro. In contraddizione con questa regola del gioco, leggi i testi non nella maniera dello speaker della televisione, che tenta di guardarti negli occhi – e questo viene anche dal modo nel quale lo abbiamo inquadrato, il modo tale che non ci sia mai la possibilità dello sguardo dentro allo sguardo dello spettatore. E poi, sempre in contraddizione con l’idea di leggerli come i testi di un altro, abbiamo detto a Franco di leggerli come lui avrebbe letto una lettera a un amico che fosse stato assente, che non fosse stato lì come spettatore.
S&P:
Però questo tipo di lettura si è trasformato in una dizione molto aggressiva: Fortini aggredisce il testo e, in un certo senso, anche lo spettatore…
Jean-Marie Straub:
Non credo, aggredisce se stesso, fa lo sforzo di leggere testi con i quali magari non è del tutto d’accordo o che oggi scriverebbe in maniera diversa… O testi dai quali magari è un po’ distaccato, ma che, d’altra parte, erano un po’ penosi e difficili e diciamo anche vergognosi da leggere, perché sono molto personali, cioè molto, molto privati se vuoi. Qui aggredisce se stesso, ma non credo che aggredisca lo spettatore. È chiaro che la violenza che c’è dentro viene fuori perché sono letti in maniera che abbiamo tentato di strutturare […]. È un rapporto con un testo scritto – che è il suo e che non è più il suo. È lì che comincia l’aggressività, e poi nel fatto di strutturarli al massimo. La violenza che sta in questi testi viene fuori, ma l’aggressione – se aggressione c’è – contro lo spettatore…
S&P:
… è “oggettiva”?
Jean-Marie Straub:
Penso di sì
Danièle Huillet:
Non è aggressività, è violenza: non è la stessa cosa…
Jean-Marie Straub:
Diciamo: è parzialità, è accettazione e volontà di parzialità.
S&P:
Fortini diceva che questo momento di rovello intellettuale che voi chiamate violento o “parziale”, cioè: di parte, forse aveva un elemento in più rispetto al libro, un elemento di disperazione.
Jean-Marie Straub:
No. Franco faceva allusione all’ultimo testo biografico dove parla del padre e che finisce con la frase: “e quello è ancora in me, grido di ferito”… si tratta dell’inquadratura che finisce con il traffico e il Lungarno: […] li Fortini aveva l’impressione che questo traffico, quel mondo nel quale viviamo – chiamiamolo moderno o capitalistico – è tanto pesante e tanto forte da dare l’impressione di spazzar via lo sforzo di riflessione che fa lui con il testo. Lì è quel che avete chiamato “disperazione”.
S&P:
Ma ci pare che questo momento di “violenza” della lettura sia legato alla “disperazione” che sembra abbiate visto nel ruolo, oggi, dell’intellettuale…
Danièle Huillet:
Non credo che sia disperazione, no, è soltanto realismo, perché è chiaro che uno che fa questo lavoro non vede i risultati…
Jean-Marie Straub:
Cioè, il contrario sarebbe “idealismo”, credere che l’intellettuale possa risolvere il mondo – anche se riesce a riflettere completamente, anche se è abbastanza avanti. Sono i limiti di Fortini come intellettuale italiano di una certa generazione, uscito dalla piccola borghesia, da quello che chiama il non-comunismo, per arrivare a una riflessione che va fino al comunismo. È lì che sta l’impressione di disperazione… anche se Franco va molto avanti, rimane limitata alla sua condizione, alla sua generazione, alla sua età. La disperazione, se c’è, è nell’ultima inquadratura. Poi, non so, la disperazione è piuttosto individuale – non è “cosmica”. Non è disperato un appello a “sabotare e distruggere minutamente”, un appello che finisce con la frase “ad ogni situazione esiste una via d’uscita e la possibilità di trovarla”. Che: “la verità esiste, assoluta nella sua relatività”, non è una dichiarazione disperata. La disperazione è sulla generazione alla quale lui appartiene e anche se Franco è uno degli italiani che ha spinto la riflessione più avanti, la sua riflessione rimane limitata, limitata storicamente: finisce lì, con lui. Fortini non è un profeta – in questo senso è disperata. E non l’abbiamo voluto mostrare come un profeta ma come uno che ha spinto avanti certe cose … e basta.
Danièle Huillet:
In questo senso il film non è un “monumento” a Fortini, ma un film fatto per la gente che lo vede, che sente certe cose che forse non ha mai sentito. Non è un film che si gira verso Fortini, ma è un film che si gira verso… l’esterno.
S&P:
Gli ultimi tre film da voi girati, sono stati definiti la “trilogia sulla questione ebraica”. Quali sono i motivi comuni di questi film?
Jean-Marie Straub:
È un po’ colpa mia. È vero che sono i tre aspetti di una nostra riflessione sul problema. Sono cresciuto in una famiglia piccolo-borghese francese, dove ho sentito molto giovane anche un certo antisemitismo, anche se nascosto, anche se non voleva riconoscersi come tale; e poi, siccome sono nato nel 1933, sono rimasto molto colpito da quello che è successo con gli Ebrei. Però il primo progetto sulla “questione ebraica” paradossalmente era Mosè e Aronne, e quel progetto risale al 1959; il Fortini/Cani, più o meno, all’epoca in cui è uscito il libro, il 1967, mentre l’idea di prendere quel pezzo di musica di Schönberg e di costruire un film intorno o sopra o sotto quello, è una proposta venuta dall’esterno, da un terzo canale tedesco. Questa trilogia, cioè, corrisponde a uno choc che ho avuto molto giovane… Ma è chiaro che con il Fortini abbiamo tentato, dopo Mosè e Aronne e l’Introduzione alla “Musica d’accompagnamento per una scena di film” di Arnold Schönberg, una riflessione più direttamente politica in cui la “questione ebraica” fosse rimessa a posto dentro il contesto della lotta di classe e non come un incidente della storia. Non è una trilogia in cui le parti si completano – non è ragionata, è casuale. Quello che non è casuale è la scelta del problema.
Danièle Huillet:
L’unico motivo autobiografico che ho in comune con Jean-Marie è che anche a Parigi l’antisemitismo era abbastanza forte e che anche per me era uno scandalo. Dopo la guerra ho sentito dire a Parigi che Hitler non aveva ucciso abbastanza ebrei e questa frase l’abbiamo riletta, qualche settimana fa, su un muro della Università di Dijon.