“In questa casa nacque il 2 giugno 1743
Giovanni Battista Boetti
Che sotto il nome di Profeta Mansur Sceik Oghan Oolò
Alla testa di ottantamila uomini
Conquistò l’Armenia e la Georgia
Il Kurdistan e la Circassia
E vi regnò sei anni
Qual sovrano assoluto.
Morì nel 1798
in Solowetsk sul Mar Nero”.
Si può leggere questa targa dal singolare contenuto sul muro di una vecchia dimora di Piazzano, frazione di Camino nel Monferrato.
Così i concittadini resero omaggio a un frate domenicano – tale fu Boetti – che era stato avventuriero, assassino, saccheggiatore, apostata, riformatore del Corano; nonché, col nome temuto di al-Mansur, condottiero di feroci schiere di montanari musulmani, che sotto la sua guida avevano combattuto con alterna fortuna contro due imperi: quello russo, quello ottomano.
Gli storici tuttavia, è bene dirlo, non concordano affatto su quanto viene affermato nella lapide: in genere salvano a stento solo il primo e il secondo rigo.
Però per molti studiosi è certo che Boetti, fuggito dal Monferrato, abbia fondato sui monti del Caucaso, tra Cecenia e Daghestan, un vero e proprio Stato e se ne sia proclamato despota assoluto.
Giovanni Battista è dunque un “Italiano Impossibile”, il primo della nostra serie.
“Italiani impossibili” sono quei nostri connazionali che compaiono all’improvviso nella Storia, o nella Cronaca, quando meno e quando dove meno te li aspetti; solitamente nascosti dietro generalità diverse dalla loro, in panni esotici e bizzarri o indossando divise differenti da quelle patrie; spesso scambiati per stranieri, e sempre del tutto divergenti e opposti da come l’opinione pubblica mondiale dipinge l’indole di chi è originario del Bel Paese. Italiani avvolti dalle tenebre del Mistero.
II- Boetti – ci informa una Relazione scritta da un suo contemporaneo, attinta dal suo Diario, e custodita a Torino – ebbe una giovinezza avventurosa. Suo padre, che non approvava la sua relazione d’amore con una fanciulla di Piazzano, l’attese di notte sulla soglia di casa, e gli sparò un colpo di spingarda. Giovanni Battista sfuggì all’attentato. Divenuto, in odio al genitore, frate domenicano, gli fu ordinato di farsi missionario e di raggiungere Mosul, città che all’epoca apparteneva all’impero ottomano. Durante il viaggio, si fermò ad Aleppo dove ottenne fama di superbo predicatore: i suoi sermoni infiammarono la devozione dei fedeli e gli attirarono l’odio dei rivali – vescovi locali, presbiteri invidiosi, cristiani cattolici amici dei potenti. A Bira, chiamato a soccorrere la figlia del governatore, morente, le prescrisse un farmaco che la guarì immediatamente. Acclamato come taumaturgo, per lasciare la città che l’osannava fu costretto a rubare un cavallo.
Finalmente giunse a Mosul. Tuttavia, anche lì la sua abilità di predicatore e l’intollerante rigidezza con la quale difendeva i propri meriti e il suo onore, gli procurarono nuovi nemici, tra i superiori e tra gli altri missionari. Fuggì, anche da lì.
Varie, disordinate, furono da allora le peripezie di Boetti, non dissimili da quelle di altri famosi avventurieri del Settecento: come Münchhausen, come Casanova, come Cagliostro.
Con Giuseppe Balsamo conte di Cagliostro il frate condivide addirittura la data di nascita, 2 giugno 1743, e parte del destino zodiacale: due vite che potrebbero definirsi parallele. Tutti e due amatori, incantatori, amici e consiglieri di potenti, ciarlatani e forse spie. Ricercati, considerati eretici, furono catturati entrambi nella primavera del 1791; condannati all’ergastolo per colpe che comportavano, di solito, la morte (graziato il primo per volontà del papa, l’altro di Caterina, imperatrice), morirono a poco tempo di distanza, entrambi, dentro un fortilizio.
“La verità su di me non sarà mai scritta, perché nessuno la conosce – aveva detto ai giudici, vantandosi, il Cagliostro. E Boetti, quando “diventò” lo Sceicco al-Mansur, si avvolse di mistero tra i suoi stessi proseliti, affermando che nessuno sapeva chi egli fosse veramente, e che la sua identità “per molto tempo ancora” sarebbe stata ignorata.
III – Prima ancora che il mistero, è l’ambiguità, a contrassegnare la vita di Boetti. Tutto è leggibile in due modi, nella sua biografia, a cominciare dai tempi della sua giovinezza. Sempre in fuga, sempre ribelle, e soprattutto sempre astuto e “mascherato”.
Giunto a Costantinopoli, Boetti si travestì da levantino e si fece chiamare Paffliss. Esercitò – con successo – la professione di medico, praticò l’alchimia e guadagnò (accaparrò, o rubò?) ingenti somme, che lo resero un uomo ricco. Ormai in Italia si parlava di lui, apertamente, come apostata: anche in Medio Oriente lo si conosceva come “il Turco che ha rinnegato la fede cattolica”. Accusa che si sommava all’altra: d’essere impenitente seduttore, e stupratore di nobili ottomane.
Ritenendosi diffamato, Boetti reclamò invano d’essere convocato a Roma per poter difendere il proprio onore macchiato dallo scandalo. Scoprì che i suoi nemici ormai si annidavano e trovavano ascolto persino in Vaticano. Perciò, prima di darsi alla macchia, il 14 aprile 1778 il frate scrisse un’accorata epistola dall’interno della Mingrelia (Georgia) al prefetto della Propaganda Fide: “Per amore del sangue di Gesù, mi liberino signori dal precipizio sul cui orlo sosto. Appena appena posso fidarmi della mia virtù. Mi sento vacillare, mi sento disperato e mi sento fuori di me stesso. Pietà Signori pietà. Poiché se questa [mia lettera] va a vuoto, è finita per me, ed è finita per sempre. Eccomi dunque prosteso umile e supplichevole alli piedi di Vostre Eminenze e di tutta la Sacra Congregazione a cui chiedo umilmente perdono, tutto bagnato di lagrime, gridando pietà, misericordia”.
Nell’autunno del 1778 finalmente e senza aiuti esterni il monaco ottenne udienza dal Papa: si presentò mascherato da orientale. Voleva supplicare il pontefice di intercedere per lui, perché lo si trasformasse in sacerdote secolare. Ma quando fu di fronte a Pio Sesto non si rivelò. Pianse, tremò e, persa di colpo ogni speranza d’essere perdonato, mentì, affermando di chiamarsi Abdalla Bacase, cattolico armeno, amico del vescovo di Ezurum. Poi si dileguò.
Si presentò qualche tempo dopo al suo ordine nel convento di Trino in Piemonte dove l’aveva destinato l’autorità del Clero, ma ipersensibile alle critiche e ai sussurri che lo riguardavano e alla terribile fama che gli era stata creata intorno dai suoi nemici, scappò presto da lì.
Arrivato a Vienna nel giugno del 1779, si rivolse per lettera a un suo presunto protettore, un cardinale, in questo tono: “Degnisi di considerare che la mia posizione è lontana di un sol punto dalla disperazione e dal potente pericolo che mi si rivolti il cervello”.
Sorpreso, al suo ritorno in Oriente, a tracciare mappe di nascosto, come spia e come informatore dei Russi venne arrestato e recluso: ma aveva soldi, pagò cauzioni, unse ruote e corrompendo funzionari d’ogni genere uscì presto di prigione. È certo che fuggì a Pietroburgo e offrì i suoi servigi a Potëmkin, plenipotenziario di Caterina imperatrice, ma non ebbe, pare, fortuna,
Dai deserti che ormai erano diventati la sua dimora abituale, proclamò che si era fatto frate per violenza del padre, ma senza vocazione.
Era ormai, in tutto e per tutto, quell’uomo che senza pudori e reticenze aveva preannunciato, ai propri superiori e a Roma, che sarebbe diventato pazzo.
IV- Giovanni Battista girovagò ancora senza requie, finché, giunto in Persia, e trovando alloggio nei pressi di Hamadan, si rinchiuse in un romitaggio inaccessibile per novantasei giorni. Quando ne uscì, non era più frate Boetti, il monferrino: era divenuto Imam e “Profeta Musulmano”. E in tale nuovo stato, che aveva miracolosamente assunto, subito parlò al popolo, e guadagnò il favore delle folle.
È in questo momento che la sua storia, già di per sé mirabolante, sfiora il Fantastico, anzi vi precipita: nella Metamorfosi di cui è preda.
Mentre “la sua fama di Santo si propagava irresistibilmente in tutto il paese”, l’ex frate domenicano venne convocato dal Khan di Hamadan. Boetti (che, ricordiamolo, era poliglotta, scienziato, medico, alchimista, sicuramente prestidigitatore), in presenza del signorotto trattenne in una mano un carbone ardente, senza ustionarsi. Il Khan gli donò dieci monete d’argento: lui, sdegnato per l’affronto, le scagliò dentro un braciere acceso. Poi si chinò a borbottare sulle fiamme e uscì furiosamente dal palazzo, senza che l’avessero congedato. Lo inseguirono, ma non poterono trovarlo. Un cortigiano recuperò le monete incandescenti: non erano più d’argento, ma d’oro.
Una sera Boetti, radunati gli abitanti di Hamadan nella piazza, annunciò che sarebbe scomparso dal villaggio quella notte stessa, e per sempre, perché i suoi concittadini erano uomini di fievole e imperfetta fede musulmana, e quindi indegni di lui.
Non gli credettero, circondarono la sua casa, vegliando fino all’alba. Quando, alle prime luci del mattino, irruppero nella sua abitazione, non trovarono traccia del profeta. Nessuno seppe mai in che modo fosse uscito: entrò, così, nella leggenda.
Da quel momento la versione “fantastica” di lui, prevale sopra ogni altra. Di Boetti, il piemontese ribelle e astuto, sfumano i contorni, tanto è diventato Altro. Anche la Relazione sulla sua vita ne risente. I fatti storici diventano inseparabili dai Miti che li accompagnano.
Il profeta, misteriosamente, tornò, dopo quaranta giorni, e si rinchiuse in casa per altri nove, rifiutando ogni festa, ogni visita, ogni spiegazione. Finché apparve di nuovo in pubblico e sostenne che l’inviato di Dio, Maometto, gli aveva parlato in sogno due volte e l’aveva investito d’una sacra missione. Doveva proclamare una guerra santa, formare un esercito. Doveva rovesciare il sultano di Costantinopoli e mettere sul trono, al suo posto, un principe fedele e osservante della Legge.
Al suo appello aderirono quasi in tremila. Penetrò in Armenia e marciò verso il cuore del Caucaso reclutando via via un vero esercito. Gente non pacifica, certo, razziatori, tagliagole e briganti votati alle faide famigliari; montanari che, come racconta Puškin (nel Viaggio a Arzrum), spesso sparavano su bersagli umani non perché li considerassero nemici ma solo perché il loro fucile era “rimasto carico per troppo tempo”. Però, col suo carisma Boetti riuscì a dar loro una regola, a riunificare e a irreggimentare ribelli che appartenevano a tribù disperse e ostili tra loro, cumicchi, ceceni, daghestani, georgiani che parlavano 110 dialetti diversi, senza un ceppo linguistico comune.
Inarrestabile, il monaco divenuto profeta e generale guidò le sue truppe contro Eraclio, principe reggente della Georgia, e lo sconfisse (così almeno afferma la “Relazione” su di lui, ma di questo trionfo la Storia ufficiale non fa cenno). Conquistò così tra le sue genti il titolo ambito e riverito di Sheik al-Mansur, “il Vittorioso”.
Inanellava vittorie, una dietro l’altra, impalando, decapitando, umiliando i pascià sconfitti e costretti alla resa.
I Russi, seguivano le sue imprese con crescente preoccupazione. Il generale Potëmkin, parente del ministro, ebbe l’incarico di sedare il Caucaso, infiammato pericolosamente ai confini dell’Impero. Pose al comando del colonnello Pieri (o de Pieri, un altro italiano, in questa storia), un reggimento che mosse verso Aldi, in Cecenia, quartier generale del profeta, col preciso compito di catturare Mansur e di condurlo incatenato a Pietroburgo.
Pieri agì esattamente come cent’anni dopo un altro colonnello, George Armstrong Custer, si comportò quando assalì i villaggi pellerossa a Little Big Horn. Disubbidì agli ordini, non aspettò i rinforzi, sottovalutò il nemico. Trovò Aldi disabitata, la rase al suolo, la bruciò, uccise tutto il bestiame che incontrava. Non si accorse d’essere caduto in una trappola. Le truppe di al-Mansur, abituate alla guerriglia, lo attendevano sulla strada del ritorno, mimetizzate in mezzo ai boschi. Pieri fu spacciato con due proiettili, e con lui morirono più di mille soldati russi. Altri cento scapparono, ignominiosamente, e il profeta fu magnanimo nel risparmiar loro la vita. Potëmkin, il feldmaresciallo suo consigliere, scrisse a Caterina: “il glorioso esercito Russo non aveva mai subito una simile onta, né agito con tanta codardia”.
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