I- L’Ira di Dio a Comando
Trovo nel dimenticato libro Le notti beriche di Giovanni Imperiali (1663), notizia di un “Incantesimo horrendo” – ma assai astuto – per debellare la siccità.
I fatti si svolsero nel luglio del 1463, quando il re Ferrando (Ferdinando Trastámara d’Aragona) decise d’accerchiare con le sue truppe Mondragone, una cittadella che si era schierata a favore del suo acerrimo nemico, Giovanni d’Angiò.
Ferrando era convinto che l’assedio non sarebbe durato a lungo, perché da settimane su quelle terre non pioveva, e sapeva che le cisterne all’interno della rocca erano ormai talmente secche e asciutte che da ognuna si spremevano appena poche gocce d’acqua. La sete e l’isolamento totale avrebbero fiaccato qualsiasi resistenza.
Ma poi, quando la resa di Mondragone sembrava ormai questione d’ore, se non addirittura di minuti, avvenne qualcosa di inatteso o di incredibile. Sulla rocca all’improvviso si formarono cumuli giganteschi di nuvoloni scuri, e dopo una tempesta di fulmini e di tuoni, si scatenò un nubifragio, di tale inaudita potenza, che subito si riempirono tutti i serbatoi e anche le riserve d’acqua casalinghe d’ogni più minuto cittadino.
Imperiali – raccogliendo la testimonianza di Giovanni Pontano, umanista e storico contemporaneo agli eventi –, diede questa spiegazione del fenomeno: che tutto era dovuto a un patto scellerato tra gli abitanti, i quali, per scongiurare la capitolazione, avevano fatto ricorso a “artifici diabolici e profani per provocare la pioggia“.
Persino i preti e le gerarchie ecclesiastiche del luogo s’erano esposte partecipando attivamente a quest’opera sacrilega. Anzi è probabile che l’idea originale fu loro.
Dapprima, fu gettata giù dagli spalti una gran croce di Cristo. Quindi i cittadini accoliti sistemarono un asino fuori le porte d’una chiesa, lo trattarono come se fosse un moribondo, e cantarono in onore della bestia inni e poemi funebri; “di poi nella bocca (ò horrore,) intromessagli la divina Eucharistia, vivo ivi lo sepelirno”.
Appena ebbero compiuto il misfatto, si vide il cielo oscurarsi di nuvole, folgorar di saette e brontolar di tuoni, e l’aria agitata dai venti con tanto impeto e rumore, che molti alberi furono strappati via, e, mentre le pietre venivano sbriciolate dai fulmini, la pioggia cominciò a cadere in modo così esorbitante che fece debordare le cisterne e i letti dei torrenti, e le cataratte celesti sembrarono aprirsi per assorbire di nuovo il mondo come ai tempi del Diluvio Universale.
Quando re Ferrando vide un tale prodigio e putiferio, non volle sentir ragioni: cessò l’assedio e se ne andò altrove, assai velocemente, con la sua armata sconcertata dagli eventi.
II- Il diavolo tenta di impadronirsi della chiesa di Quimpercorentin, ma ne viene scacciato
“Sabato, primo giorno del febbraio 1620, avvenne una grande disgrazia e un gran disastro nella città di Quimpercorentin”, racconta La Vision publique d’un horrible et tres-éspouvantable Demon, un opuscolo pubblicato a Parigi quel medesimo anno.
Verso le otto del mattino, si era udito un tuono possente in cielo, e subito dopo un fulmine aveva colpito la guglia di piombo, a forma di piramide, che sormontava, con la Croce, la cattedrale cittadina. “A questo punto, fu visibilmente visto un Dèmone orribile, e spaventoso, all’interno d’una nuvola di nevischio afferrarsi alla citata piramide, sia alla cima, sia alla base della Croce, essendo il sopradetto demònio di colore verde, e dotato d’una lunga coda del medesimo colore”. Per alcune ore, fino alla una, non si percepì sulla piramide alcun fenomeno; finché si sprigionò dalla sua cuspide un gran fumo, che durò un quarto d’ora, e, appena terminato quello, la Croce fu avvolta dalle fiamme.
Temendo che quel fuoco bruciasse tutta la cattedrale, i popolani salvarono il tesoro della chiesa. Si tentò pure di spegnere l’incendio, ma invano. Finché il clero decise di esporre le reliquie sante davanti al fuoco che avanzava nella navata, e di cantare presso di esso l’Agnus Dei, continuando a gettarvi sopra l’acqua, a barili.
Ma, niente: le fiamme proseguivano il loro cammino. E in mezzo ad esse balenava sempre la figura del Demònio, verde, giallo, blu.
“Come extrema ratio, si decise allora di scagliare tra le fiamme un pane di segale di quattro soldi, dentro il quale era stata riposta un’Ostia consacrata; poi si prese dell’acqua benedetta, mescolata al latte d’una balia di sani e cristiani costumi, e anche questa fu spruzzata sulla fiamme”.
Il dèmone non sopportò quel trattamento, e fu costretto ad abbandonare il fuoco, che, a quel punto, fu facilmente estinto. Erano le sei e mezzo della sera, quando questo accadde. Quando il demonio fu dileguato, e le fiamme soffocate, si ritrovò tra le ceneri della chiesa il pane di segale: esso non era bruciato, solo la crosta si era un po’ annerita.
[in copertina: Il diavolo assalta la vetrata, di Matthias Grünewald (particolare della pala dell’altare di Isenheimer)]