Nel 1614, il gesuita bolognese Mario Bettini (1582-1657), nel suo Rubenus: Hilarotragœdia Satyropastoralis, riuscì a trascrivere il canto dell’Usignolo, ispiratore d’immortali poesie sotto ogni cielo letterario:
“Qutio qutio qutio qutio
Qutio qutio qutio
Zizizizizizizizi
Quoròr tiù zquà pipiquè.
Pitiù xquò
Quori zpe
Tio tio tio tio tio tio
Tio tio tio tio tiò.
Tiùu tiùu tiùu tiùm tiùm
Zpe zpèzizi zquoqui.
Zpezpezpezpezpe
Zpezpezpezpezpe
Pipipi qutiò quoriquoritò.
Quororororor qutio qutio
Qutio zquo zquo zquo zquo
Zquò tia tia tià
Quoròr tiò tiù zquè
[…] Pì pì pì pì pì pì pì pì
Zqua zquà tiò tiù zizinz”.
Un paio di secoli dopo, il naturalista tedesco Jean-Mathieu Bechstein (1757-1811), studiò ancora più a fondo il gorgheggio di questo pennuto, fino al punto da impadronirsene completamente.
Bechstein non era un filologo. Era, lo definisce Gembloux (Idiomologie des Animaux), un “cacciatore istruito”, un inguaribile collezionista di voci d’uccello.
Durante uno dei suoi agguati venatori, ebbe modo di ascoltare un lungo canto d’usignolo, e di trascriverne dozzine di versi. Ne cito alcuni:
“Tiouou, tiouou, tiouou,
Shpe tiuou tokoua
Tio, tio, tio, tio
Kououtiou, kououtiou, kououtiou, kououtiou;
Tskouo, tskouo; tskouo, tskouo;
Tsii, tsii, tsii, tsii, tsii ,tsii, tsii, tsii, tsii, tsii.
Kouorror, tiou. Tskoua pipitskousi.
Tso, tso, tso, tso, tso, tso, tso, tso ,tso, tso,
tso, tso, tso, tsirrhading! [ecc.]”.
Sono evidenti le differenze con l’Usignolese di Bettini: come se l’uccello parlasse a orecchi stranieri due lingue diverse, per compiacerli. Mentre nel primo ragguaglio aleggia un’acustica da banda o fanfara di paese, nel secondo – anche se la punteggiatura è posticcia, capziosa –, il “ritmo” del cinguettio sembra più rispettato, e se ne ricava l’impressione che, una volta decifrato, il testo (soprattutto se si leggono i versi con l’accento sull’ultima sillaba, alla francese), debba apparire indubbiamente poetico.
Il tour de force di Bechstein suscitò l’ammirazione dell’erudito Nodier, ma poi, purtroppo, solleticò anche la vena lirica di Dupont de Nemours. Costui, ebbe l’ardire di trarre dei versi “poetici” da certe sue trascrizioni, azzardando una traduzione completa dall’Usignolese, al francese. Un’impresa tentata prima di lui, e con esito incerto, solo da Clement Janequin – nel 1530, in una raccolta intitolata Chant des oyseaux.
Soddisfatto dei risultati ottenuti, Dupont prese a infestare le serate mondane della capitale propinando di continuo all’uditorio il suo “Chant du Rossignol”. Presentava il proprio concerto dicendo: “Oso lusingarmi d’aver avuto la fortuna di trascriverlo e accentarlo sotto dettatura, da parte della Natura”. La Marchesa di Crequy – il cui celebre salotto fu uno dei più funestati da quelle esibizioni – non si trattenne dal definire il Poeta dilettante, un “maniaco”.
L’ode ornitologica tradotta da Dupont è compiuta e sorprendente, ma anche stranamente chiassosa, trattandosi secondo lui d’una nenia che invita al sonno, una ninna-nanna tenera e vezzeggiativa, rivolta, dall’usignolo, alla sua amata compagna, alla madre della sua adorabile covata.
Pressappoco, queste sarebbero le parole dell’uccello:
“Dormi, dormi, dormi, mia dolce amica,
amica, sì, amica,
amica, amichetta,
sì bella, sì preziosetta,
dormi, amorosa,
dormi, abbracciando con l’ali
la nostra prole graziosa
i nostri così graziosi, graziosi, graziosi, graziosi,
dico graziosi di nuovo,
sì, graziosi, sì graziosi, sì graziosi,
piccoli pargoli custoditi nell’uovo.
(Silenzio, eccetera, eccetera)”.
Inutile dire che la versione dalla Lingua Usignola di Dupont de Nemours è del tutto arbitraria (come la mia traduzione di Nemours, del resto).
Non possediamo nessuna “stele di Rosetta” che ci aiuti a trasporre perfettamente il gergo o il dialetto degli animali, in uno qualsiasi dei nostri linguaggi conosciuti, neanche quello (sordomuto) dei segni.
[dalla Fantaenciclopedia]