Quando Edgar Allan Poe, fatalmente minato da fantasie e alcolismo, colpito da malore durante una sfibrante tornata elettorale, si risvegliò, per un attimo effimero, dal suo coma in ospedale, l’ultima parola comprensibile che pronunciò prima di raccomandare la sua anima a Dio, fu: “Reynolds!”. Un grido ripetuto tre volte.
Il nome che il poeta morente evocava, non ho dubbi, doveva essere quello di Jeremiah Reynolds – scrittore, esploratore, ispiratore del suo Gordon Pym –, da lui strenuamente difeso nelle circostanze più travagliate. Forse, in quell’estremo giorno, si sentì affine al destino di quest’uomo che raccoglieva solo le briciole dei suoi magnanimi sogni.
Reynolds fu anche il primo che narrò della caccia che fu data nei mari a un’enorme balena bianca, grande come un’isola: un vero Leviatano del Pacifico. Il suo scritto, Mocha Dick, è del 1839. Melville, che ne fu probabilmente influenzato, pubblicò Moby Dick dodici anni dopo.
Come arrivò Reynolds a conoscere la storia, presumibile o vera, di questo mostro marino? Ne ebbe notizia, pare, in una rada del Cile, mentre il suo vascello era all’ancora, impegnato in una delle più demenziali spedizioni della Storia: la ricerca del “Buco di Symmes”.
John Cleves Symmes, nel 1818, postulò che i Poli terrestri fossero in comunicazione tra loro, e che la Terra, quindi, fosse cava. Questi due apici del globo – Nord, Sud – non erano stati ancora né scoperti, né esplorati, e la teoria conobbe quindi una notevole diffusione. La tesi uscì poi rafforzata dal successo che ebbe un romanzo utopico sullo stesso argomento, pubblicato, anonimo, nel 1820: Symzonia, a Voyage of Discovery. Qualcuno suggerì che la novella fosse dovuta (almeno in parte) alla penna dello stesso Reynolds, il quale, poco più che ventenne, era già divenuto un accanito sostenitore del “Symmes Hole”.
Dopo una strenua ricerca di fondi, Jeremiah Reynolds organizzò, con un contributo statale ridotto, una spedizione che aveva come mèta l’Antartide. Partì alla ricerca del “Buco” nel 1829, e riapprodò a Boston dopo quattro anni di peripezie. Il Polo non l’aveva raggiunto; l’impresa poteva dirsi fallita, ma non in modo tale da disilludere un entusiasta come lui.
Tornò a bombardare il Congresso degli Stati Uniti con pressanti richieste di finanziamenti. Finalmente, nel 1838, il governo federale approvò una nuova spedizione, stavolta su larga scala; ne diede però il comando a un certo Wilkes, escludendo del tutto Reynolds. L’avventuroso scrittore rimase a terra, in tutti i sensi. Edgar Allan Poe insorse contro il Parlamento, e bollò come “cavillosa” e “scandalosa” la decisione (“a scandalous chicanery”).
Wilkes in quattro anni di ricerche non ottenne nessuno dei risultati scientifici sperati. In più, contrariamente a quello che avrebbe fatto il suo precursore, ci lasciò un resoconto piatto e poco illuminante della missione polare che guidava, fin troppo commerciale e pragmatica. Reynolds, era invece un gran prosatore e lo dimostrò pubblicando le sue memorie d’esplorazioni in un libro – Voyage of the United States Frigate Potomac (1835) –, e alcuni altri articoli di genere “esotico”. In uno di questi, Mocha Dick, or the White Whale of the Pacific, davvero splendidamente recitato, diede notizia per la prima volta della grande Balena Bianca.
Mocha Dick, cetaceo “di prodigiose forza e grandezza”, è – ci assicura lo scrittore –, molto ben conosciuto da chi frequenta l’Oceano, non solo tra i balenieri. Certo, non può passare inosservato. “Per effetto dell’età, o più probabilmente per qualche scherzo di natura – lo stesso difetto che esibiscono gli Albini d’Etiopia – ne è uscito un singolare risultato: è bianco come la lana!”. Quando è fermo in superficie, solo l’occhio esperto del marinaio riesce a distinguerlo da una nuvola candida, che si posa sull’orizzonte.
La prima apparizione della Balena bianca datava intorno al 1810. Dopo d’allora, era uscita indenne da miriadi di scontri con l’Uomo, e ne facevano fede le decine di arpioni che pendevano, sul suo dorso, come trofei. Il candido Leviatano era interamente fasciato da un reticolo di cime strappate dalle barche dei balenieri. I ferri che gli gravavano sul corpo, dimostravano però, a detta di Reynolds, che la bestia era, sì, inconquistata, ma nient’affatto invulnerabile.
Un giorno fatidico, nei dintorni di Capo Horn, se ne ebbe la prova. Il vecchio Mocha Dick, provato da mille battaglie, perse la vita in un ultimo assalto, forsennato, di ramponieri.
I suoi persecutori ne ebbero ragione perché, come era solito, il gigantesco cetaceo si mise a proteggere i più indifesi della sua specie, esponendosi personalmente agli attacchi. Ma prima di morire, comunque, divelse parecchie imbarcazioni, e affogò molti di quelli che gli davano la caccia .
Reynolds testimonia d’aver ascoltato l’epopea di Mocha Dick dalla viva voce del suo uccisore, un marinaio di Nantucket. Concede, naturalmente, che il racconto sia stato abbellito, ma non mette in dubbio sia veritiero. D’altronde, che guadagno avrebbe tratto lo scrittore a divulgare una fola, o a inventare di sana pianta una storia come questa? Se il racconto era opera di fantasia, l’avrebbe denunciato. Siamo quindi propensi a credergli. C’è del vero, forse, in questa, come in tutte le leggende.
Fatto sta che le favole non vogliono morire. L’enorme balena albina, rediviva, fu di nuovo avvistata qualche anno dopo nell’Oceano Artico. Ci fu chi giurava d’averla incrociata, e che non era un miraggio. Finché venne Herman Melville a spiegarci che non era necessario credere che questo mostro fosse esistito veramente, perché doveva avere una valenza simbolica. E come tale, non poteva morire, e certo non poteva venire ucciso dagli uomini.
Non si può vincere la Balena Bianca; al massimo, si sopravvive per raccontarla.
Parole bibliche che il marinaio, che pretende d’essere chiamato Ismaele, pone come epigrafe e suggello al capitolo finale di Moby Dick.
[dalla Fantaenciclopedia, voce “Bestiario”]