I- Come dice Seneca: “Aliquis carnifici suo superstes fuit” – o, vero: “qualcuno è sopravvissuto al proprio carnefice”. Il saggio precettore di Nerone intendeva riferirsi a quanti scamparono al patibolo, ed ebbero la soddisfazione di vedere, o sapere, morto il proprio boja: purtroppo, invece, si danno casi in cui il giustiziato sopravvive, durante e dopo l’esecuzione stessa.
La decapitazione passa per una delle pene capitali, per dir così, più umanitarie. Tanto è vero che veniva comminata, in passato, solo a persone di lignaggio superiore, o in circostanze peculiari. Gode fama di rapidità e igiene. Non si accompagna, di solito, a torture prolungate: è un colpo di mannaia subitaneo. Tuttavia, non sempre è così. Molto dipende dall’abilità, dall’esperienza, e persino dall’umore del boja. Nella maggior parte dei casi, durante le decapitazioni il patibolo risuonava, come una macelleria, d’una sorda batteria di fendenti – in quanto ché, fallito, magari di poco, il primo calo di scimitarra o scure, bisognava poi moltiplicare i “colpi di grazia”. Dilettantismo atroce, che mai la vittima sopportava in silenzio: – come? proprio ora, che, dopo una lunga vigilia e attesa, contava su una rapida liberazione, le si prospettava invece un’agonia dolorosa cui era del tutto impreparata, prima che sopraggiungesse la morte.
Subrio Flavio, condannato ad essere ucciso da Nerone, trasportato nel luogo dell’esecuzione, fu esortato da Nigro, il generale suo collega che doveva fargli da carnefice, a tener ferma la testa: “Colpissi almeno tu così fermo!”, gli replicò Flavio, e – aggiunge Montaigne – “indovinò giusto poiché, tremando a Nigro il braccio, gliela tagliò a diverse riprese”.
Questa barbara cilecca dei carnefici, ai tempi delle persecuzioni dei Cristiane, poté persino apparire un segno miracoloso, invece che pura incompetenza. A santa Cecilia, bollita invano in un calderone, e poi decapitata, “il boia”, racconta il Gilio, “non gli havendo in tre colpi potuta tagliare la testa, la lasciò mezza morta”.
Quando Madame Tiquet – una donna nativa di Metz, che aveva complottato per uccidere il marito –, scoprì il volto e il collo, sul patibolo, il boia fu talmente turbato dalla sua bellezza, che fallì più volte il colpo mortale e gli furon necessari ben cinque assalti, prima di riuscire a spiccarle la testa. L’esecuzione avvenne nel 1699.
Allorché De Thou fu giustiziato a Parigi, il carnefice menò un numero imprecisato di fendenti, prima di separargli la testa dal collo. Ci fu chi contò undici colpi di scure, un po’ a casaccio. Jack Ketch, inglese – Melville si ricordò di lui ne L’ uomo di fiducia –, divenne famoso, come carnefice, per le timide esecuzioni di lord Russell (1683) e del duca di Monmouth (1685).
La Ghigliottina fu l’invenzione che avrebbe dovuto por fine a queste improvvise titubanze del boja, e indubbiamente, secondo il Potere Giudicante, fece registrare un certo progresso e una migliore precisione, nel taglio. Però non c’è alcuna certezza che dal punto di vista del condannato a morte, la “Decapitazione a Macchina” abbia apportato effettivamente delle migliorie.
Il pittore Antoine Wiertz, forse ispirato dal racconto La verità sul caso Valdermar di Edgar Allan Poe, sostenne d’aver “mesmerizzato” un condannato a morte negli ultimi istanti di vita, in modo che, sintonizzandosi sulle sue estreme emozioni, riuscisse a comprendere ciò che l’uomo provava, sia dal punto di vista fisico che psichico. Appena il boja azionò la ghigliottina, la testa recisa gli comunicò mentalmente, e capillarmente, la serie di infinite e inaudite sofferenze che sperimentava, ancora decine di minuti dopo il “distacco”.
II- Le impiccagioni sono ancora più problematiche delle decapitazioni. Perciò, in Inghilterra, ancora nel 1926, era proibito, al personale indaffarato intorno alla forca, consultare un cronometro che fissasse la durata dell’agonia del condannato. La morte sopraggiungeva per legge, sempre, “dopo un breve intervallo”. Tuttavia (lo ricorda il Manuale del Boia di Charles Duff), “per impiccare Antonio Sprecage in Canada, nel 1919, ci volle un’ora e undici minuti”.
“Ma per chi mi prendete… per un dannatissimo yo-yo?”, gridò, sempre secondo Duff, un altro condannato a morte, in attesa di essere impiccato una seconda volta.
Tre volte il boja inglese James Berry, il 23 febbraio 1885, tentò di impiccare John “Babbacombe” Lee sulla forca, “e tre volte fallì”, perché non riuscì mai a azionare correttamente la botola che doveva aprirsi sotto i piedi del condannato. In precedenza, nel 1803, anche Samuel Taylor era sfuggito per tre volte all’impiccagione, che a quei tempi non prevedeva botole, ma l’uso di una carretta. Taylor per tre volte cadde in piedi, e la corda lo risparmiò. Nel suo caso, come in quello di Berry, la folla pretese e ottenne che fosse graziato. I due condannati ebbero salva la vita, ma dovettero scontare il resto dei loro giorni all’ergastolo.
Ci si rassegni: le Esecuzioni Capitali, “omicidi legittimi a termini di Legge”, non sono infallibili, come piacerebbe pensare alle coscienze restie ai turbamenti. Maneggiano corpi umani, ma non condividono nessuna perfezione con la sala operatoria.
III- Andrebbe indagato, ma non in modo cinico, il rapporto tra esecuzione capitale e ballo in maschera.
I boia comparivano sulle piazze incappucciati. Appena due fori, per gli occhi. Si potrebbe pensare fosse un espediente per non essere riconosciuti, per potersi mischiare con l’altra gente senza suscitare orrore, nella vita di tutti giorni. Non è così. I boia erano personaggi famosi, nella loro epoca, con il loro nome e il cognome vero. Non temevano rappresaglie personali, e il popolo comune o li stimava, o li tollerava. In ogni caso era nella norma sociale che tutta la Comunità sapesse chi fossero.
Charles Duff, ritiene che gli esecutori, in Inghilterra, portassero una maschera, nei tempi antichi, “per nascondere l’espressione benevola” del volto. Macabra celia.
Essi si camuffavano con un cappuccio nero per un’altra ragione. Erano senza volto perché chiunque, tra il pubblico delle esecuzioni, o delle torture, potesse identificarsi con loro. Ognuno dei presenti poteva immaginare sotto quel cappuccio il proprio volto. Forse, persino il condannato.
Incappucciate – cioè, anche loro, mascherate – furono per molto tempo le stesse vittime dell’impiccagione.
Persino a chi doveva essere decapitato non si negava un’inutile benda sugli occhi.
Fatto sta che, socialmente, psicologicamente – l’Esecuzione Capitale ha un senso se rappresenta tutti. Di qui si spiega la sua popolarità; non c’entra la curiosità. La “partecipazione” conta più di ogni altra cosa. Dice Canetti in Massa e Potere che, nel caso il boja bruci un condannato a morte sul rogo, le fiamme agiscono come se l’uccisione fosse collettiva: quindi, per conto della folla. Ognuno può essere soddisfatto, come se la sua favilla personale avesse incenerito il reo.