Certi “Popoli Primitivi” – ci informa James Frazer –, ritengono che per propiziarsi l’Orso che hanno cacciato e catturato, non ci sia miglior sistema che offrirgli in dono – cioè, in pasto – squisiti bocconcini prelevati dalla sua stessa carne, e questo dopo averlo ucciso e decapitato. L’orso morto (dato che il suo spirito dev’essere rimasto, intontito, nei paraggi) capisce così che la sua prelibatezza, non la sua individualità di bestia, ha provocato i cacciatori a sopprimerlo; essi vogliono che si plachi, compiacendosi quasi con se stesso, per quanto è “buono”, da mangiare.
Gli Aino, una popolazione assai primitiva che vive nell’isola giapponese di Yezo, adorano l’orso, e sono soliti catturare uno di questi animali quando è ancora cucciolo, per allevarlo amorosamente (certe volte viene allattato da una donna indigena) e venerarlo come un feticcio nei loro villaggi.
L’orsetto grazioso, che chiamano affettuosamente “il caro piccolo essere divino che vive nei monti”, viene infine scannato nel corso d’una gran festa che attira l’intera tribù. Prima lo fanno infuriare lanciandogli frecce spuntate, poi “lo legano a un palo, lo imbavagliano e lo strozzano ponendogli il collo fra due pertiche che vengono premute fortemente finché l’animale muore”. Un arciere gli scocca una freccia puntuta nel cuore. L’orsacchiotto viene quindi scuoiato e decapitato. La testa la espongono come un trofeo: e “sotto il naso gli mettono un pezzo della sua propria carne”: come se, lo si arguisce, per affrontare il lungo e duro viaggio nell’aldilà il dio-orso avesse bisogno, per rifocillarsi, d’uno spuntino auto-cannibalistico.
Il Batchelor – citato, nel Ramo d’Oro, da Frazer – assisté a una di queste “feste dell’Orso”, e pare abbia udito gli Aino rivolgersi al loro Dio appena assassinato in questo modo: “O essere divino, tu sei stato mandato al mondo perché noi ti dessimo la caccia […]. Ora, poiché ti sei fatto grande, ti rimandiamo dai tuoi genitori. Quando sarai con loro, dì bene di noi e racconta loro come siamo stati buoni”.
La morte, il sangue, la paura, il soffocamento, l’imprigionamento tra due pertiche, lo scuoiamento, sono puri accidenti, che non debbono influire sul sereno giudizio degli Orsi. Ucciderli, è renderli messaggeri. Per questo gli Aino sono convinti che il loro Orso-Dio, contento del trattamento ricevuto, si reincarnerà presto e tornerà da loro: “ti preghiamo di tornare da noi, e ti sacrificheremo”, è la loro preghiera.
Se gli Orsi non amassero essere catturati e “festeggiati” – si opina tra questi selvaggi – non si farebbero riprendere mai.