Dopo un viaggio interminabile, pericoloso, sfibrante – spesso letale per le imboscate dei predoni, per gli arrembaggi dei pirati, per i naufragi, o per febbri sabbiose e altri morbi del deserto, o per la crudeltà di insetti, serpenti, scorpioni e fiere, o per i veleni che corrodevano le fonti, o per la sete che li attanagliava nelle dune –, i pellegrini cristiani d’oriente e di occidente giungevano finalmente al Santo Sepolcro, in Gerusalemme, piangendo di gioia e meraviglia. Ma allora scoprivano che non potevano entrare.
Non possedevano abbastanza denari per accedere alla tomba del Salvatore, per pagare, si direbbe oggi, il “biglietto d’ingresso”. Racconta Basilio Posniakov, che era là nel 1560: “arrivano molti cristiani da diverse contrade; questi poveri pellegrini non hanno niente da dare ai maledetti Turchi; allora si mettono presso l’ingresso della santa chiesa e guardano nell’interno attraverso una piccola apertura fatta nella porta, e piangono amaramente di non potervi entrare per vedere il Sepolcro di Cristo, nostro Dio, e la discesa dello Spirito Santo sul Sepolcro di Nostro Signore”.
Il Sabato immediatamente antecedente la Pasqua, nella cappella della Chiesa, da tempo immemorabile si verifica infatti un misterioso prodigio: le lucerne si accendono da sole, di fronte alle folle sbigottite. Secondo la tradizione, la fiamma, che compare improvvisamente, è un segno visibile della discesa invisibile dello Spirito Santo sui fedeli. Altri dicono che venga accesa, attraverso un impercettibile pertugio, da un apposito “vescovo del fuoco”, rappresentante del Patriarca. Papa Gregorio IX – nel 1238 –, lo storico Gibbon – nel Settecento –, Adamantios Korais e Michael Kalopoulos – in tempi più recenti –, hanno denunciato che questo preteso “miracolo” è in realtà una Frode. In ogni caso, la visione del “Fuoco Celeste”, fosse anche frutto d’una truffa, garantisce la Remissione dei Peccati, la Salvezza.
Il Santo Sepolcro, a Gerusalemme, dove si trova il marmo su cui furono adagiate le spoglie di Cristo, è uno dei luoghi sacri più venerati dai popoli della terra, ma al tempo stesso, probabilmente, l’oggetto di culto più lambito da sangue, stragi, guerre e delitti del mondo intero.
Fino al principio del XX secolo, i Turchi furono costretti a tenere un soldato di guardia, bardato e armato, proprio accanto all’altare dove il Cristo resuscitò: tante erano le risse, gli insulti, i furti reciproci di reliquie e souvenir, che si perpetravano tra adepti delle varie confessioni cristiane.
In quel luogo, si regolavano i conti di antiche controversie religiose. Racconta Matilde Serao: “tre anni dopo il mio viaggio, un povero francescano fu, colà, preso a revolverate da un fanatico greco; ne morì”.
Nella Pasqua del 1834, un’esplosione di panico “sacro” causò un’ecatombe tra i pellegrini cristiani che affollavano la chiesa e i dintorni del Santuario. Morirono a centinaia, forse a migliaia.
Dal massacro si salvò a stento persino il governatore turco, Ibrahim Pashà, che aveva voluto assistere alla messa, sia pure a distanza, per presenziare al famoso “miracolo” della “discesa del fuoco celeste” sull’altare dove fu disteso Gesù.
Appena la face s’illumina, tutti i pellegrini stipati nella chiesa – una massa enorme – protendono i loro ceri, per impossessarsi d’una favilla dell’ambito “Fuoco Celeste”. Si accalcano, quindi, disordinatamente, e poi, ottenuta l’accensione, coi lumi ardenti si proiettano, eccitati, verso l’unica porta del Sepolcro.
Nel 1834, centinaia di fedeli, traditi dalla loro stessa foga, sciamarono verso l’uscita con tale impeto, e irruenza, che persero il senso dell’orientamento e, in parte o in tutto, la ragione. Colti dal panico, imbottigliati tra le mura, i più morirono, miseramente schiacciati o asfissiati, dentro la chiesa stessa. Quelli di loro che – superando i corpi maciullati ed i cadaveri –, riuscirono ugualmente a fuggire, appena fuori dalla cappella corsero via ululando come una falange d’ ossessi. I soldati turchi, che presidiano i luoghi santi, temendo li volessero assalire, li trapassarono con le baionette. Si crearono così, tra i pochi sopravvissuti della cappella, due fronti di morti, uno davanti, e uno dietro.
Allora, riferisce il diplomatico inglese Robert Curzon, testimone oculare della strage, nel suo Visits to Monasteries of the Levant (1850), accadde un fatto ancora più spaventoso. La folla dei pellegrini, in quell’arena improvvisata e imbrattata di sangue, si divise in due ranghi feroci e contrapposti, che in preda ad un furore totalmente incontrollabile, cominciarono a lottare fra loro:
“Ognuno combatteva per difendersi o scappare, e nella mischia quelli che erano caduti furono immediatamente calpestati a morte da tutti gli altri. Così disperata e selvaggia divenne la lotta, che i pellegrini presi dal panico, terrorizzati, sembravano più intenti a distruggersi l’un l’altro che ansiosi di salvare se stessi.
Per parte mia, non appena ebbi percepito il pericolo, gridai ai miei compagni di tornare indietro, cosa che essi fecero immediatamente; ma, nello stesso tempo, la pressione della folla mi spinse avanti finché raggiunsi quasi la grande porta, dove tutti stavano combattendo per la propria vita. Qui, vedendo che andavo certamente incontro alla distruzione, feci ogni sforzo per tornare indietro. Un ufficiale del Pashà, allora […] si avvinghiò al mio mantello, o burnus, e mi trascinò giù sul corpo d’un vecchio che stava esalando il suo ultimo respiro. Mentre l’ufficiale mi tratteneva in questo modo a terra, lottammo l’uno contro l’altro, per la vita, o per la morte, con la forza della disperazione. Ho lottato con quest’uomo finché non sono riuscito ad abbatterlo […]”.
Curzon si salvò a stento riparando all’interno della cappella cattolica. Fuori, i cadaveri dei calpestati e dei soffocati – oltre quattrocento – giacevano a mucchi, alti anche cinque piedi.
Elias Canetti, nel suo ineguagliabile Massa e Potere ha commentato la strage di cui parla Curzon con queste parole: “La Resurrezione si era mutata nel suo opposto: in un massacro generale”.