Lineamenti equamente divisi tra Totò e Edward Everett Horton, la maschera di Bava non aveva nulla di inquietante. Anzi, tranquillizzava: soprattutto, i produttori. Era un grande direttore della fotografia e un magnifico artigiano, conosceva tutti i trucchi e gli “effetti speciali” del mestiere. E quelli che non conosceva, li inventava.
Un sabato accettò di girare un film, un “Giallo” (di cui non sapeva nulla), con le riprese che cominciavano due giorni dopo, il lunedì. Poi, per ripicca, cambiò il finale, e l’attore-cocco dei suoi finanziatori diventò con un colpo di scena il “mostro” assassino e lubrico della storia.
Nel 1959, il regista Jacques Tourneur (il genio del Bacio della Pantera e La notte del Demonio) scappò dal set, in Jugoslavia, perché non era riuscito a finire il peplum “La battaglia di Maratona” entro i tempi e col budget prestabiliti. Bava subentrò e terminò il film in pochi giorni, improvvisando una truculenta, “realistica”, battaglia navale di modellini e, come suo solito, infarcendo la trama di violenza gratuita e di sadismo.
I produttori lo premiarono permettendogli, per la prima volta dopo tante regie clandestine, di realizzare un film tutto suo. Fu La maschera del demonio (1960), che fondò definitivamente il “film di Paura” all’italiana, e rese una sconosciuta attrice irlandese dagli occhi abnormi e spiritati, Barbara Steele, una Star mondiale e iconica del genere Horror.
Bava era un Mago del Terrore, proprio perché sapeva bene che la Paura è dentro di noi, che va solo assecondata, fatta vibrare, scatenata. E lui, dopo averla preparata con un uso magistrale della suspense (anche per la sua rapidità) e con una superba direzione di atmosfere, di luci e di colori, poi, con un trucco inatteso, portentoso, oppure con una semplice Sorpresa, ne provocava l’esplosione.
In Operazione Paura (1966), altro suo Teorema dell’Orrore, il fantasma della Bambina che spinge un intero paese all’autodistruzione, compare all’improvviso quando e dove meno te lo aspetti, cioè nel posto più banale: nel tuo armadio, quando allunghi la mano per vestirti.
Probabile però che tra i molti titoli di Bava la palma del “capolavoro” spetti a I tre volti della Paura (1963), firmato, per l’occasione, con lo pseudonimo “John Old”. Fu finanziato dagli stessi produttori statunitensi che distribuivano in quel momento i film di Roger Corman e Richard Matheson. Sicuramente dell’American International è l’idea di scritturare per quest’opera a episodi il “mostro sacro” Boris Karloff. Boris tuttavia, forse a causa delle nefaste conseguenze di una brutta polmonite, non diede il meglio di sé: anche se il suo “Wurdalak” (tratto da un racconto di Aleksej Tolstoj) resta un sontuoso esempio di messinscena gotica, degna del miglior Bava.
Molto più interessanti appaiono gli altri due episodi della trilogia: “Il Telefono” (falsamente attribuito a Maupassant), una “Voce Umana” che strapazza Cocteau (come se dall’altra parte del filo, invece che l’Amore, rispondesse Jack lo Squartatore), e soprattutto il terrificante e pressoché muto “La goccia d’acqua”, desunto, secondo i furbi autori, da un’inesistente novella di Cechov – e ispirato invece di sicuro da un racconto di Franco Lucentini, comparso in Storie di Fantasmi.
Come esige la migliore tradizione del Fantastico, qui i protagonisti sono appena due, anzi: uno solo. Una medium è morta durante una seduta spiritica, e la donna che la accudiva ruba il suo anello, strappandolo dal dito della morta. Da quel momento è perseguitata dal rumore di una “goccia d’acqua”. Un piccolo “trattato dell’Orrore” che riprende e arricchisce l’eredità del Nosferatu di Murnau.
Nella sua ultima intervista, pubblicata su Liberation appena dopo la sua morte, Mario Bava ha detto: “I Mostri non esistono nei miei film, sono visioni deformi dei miei personaggi, che si avventurano ai bordi della malattia mentale, dell’aberrazione sessuale, in cerca d’emozioni forti”. In effetti, anche nel terzo episodio de “I Tre volti”, (di cui, di seguito, diamo un breve estratto), il Maestro coltiva una certa Ambiguità, sulla natura vera dei suoi Fantasmi.
Il finale de “I tre Volti della Paura” era talmente ironico, “metacinematografico” e avveniristico, che l’edizione americana lo tagliò via, e non compare in molte altre versioni internazionali del film. In questo spezzone tratto da Youtube possiamo goderlo nella sua interezza. Precorre almeno di un anno il finale, simile, di The Patsy, opera del 1964 del “total filmaker” Jerry Lewis, conosciuta in Italia come Jerry 8¾.
Un altro piccolo esempio della maestria “orrorifica” di Mario Bava: l’attacco degli Zombi in Ercole al centro della Terra (1961), dove il muscoloso Reg Park fronteggia un diabolico Christopher Lee: