Con “Zelig” (1983) Woody Allen ha fondato un genere, ma, essendo un capolavoro – e probabilmente il suo miglior film –, ha rischiato di ucciderlo alla nascita. Difficile per chiunque misurarsi e rivaleggiare con l’inventiva del Maestro. Impossibile raggiungere certe vette di comicità all’interno d’un “falso documentario” (o “mockumentary”). Elaborato, elegante, esilarante, colto, originale: sono aggettivi insufficienti a designare il film. Woody rasenta la perfezione, anzi la “imita”, grazie a un soggetto al quale il suo “Spirito” aderisce come in nessun altro tassello della sua filmografia. Perché Zelig rappresenta l’apoteosi, il trionfo, della Sindrome di Tourette. Senza la quale, come abbiamo cercato di dimostrare, non esisterebbe il Comico.
Zelig, il personaggio, confessa, e denuncia a Eudora, la sua psichiatra, il momento preciso nel quale la “malattia” ha avuto il sopravvento su di lui. Gli avevano chiesto, da adolescente, se aveva letto Moby Dick. Non l’aveva letto, ma rispose di sì, e sarebbe stato pronto a recitarlo a memoria, dal principio, anche se non lo conosceva. Così comincia la sua discesa nell’abisso. Per difendersi dalle derisioni, per compiacere gli altri, per dimostrarsi informato, adeguato e conforme al Mondo, sempre minaccioso, che lo circondava. Ma non basta persuadere il nemico: per farsi accettare bisogna “imitarlo” fino in fondo, e trasformarsi fisicamente in lui. Per uscire dal ghetto della Nullità, non c’è niente di meglio che la Metamorfosi in qualcosa, in qualsiasi cosa. Una Replica che proprio limitandosi all’aspetto consente alla vittima di calarsi nella personalità e nella professionalità di chi ha di fronte (medici, rabbini, scrittori, psicoanalisti, pugili, attori, ecc.), e perfino d’essere “credibile”: fino a questo punto il mondo intorno a noi è infarcito e composto di maschere, manichini che si atteggiano, marionette in carne e ossa.
Attraverso Leonard Zelig Woody Allen riesce a imitare tutto il Cinema, a farne una complice ma micidiale Parodia.
Segue un piccolo, duplice assaggio del film (in bassa qualità). In una delle sue trasformazioni, l’Uomo-Camaleonte si infila in una fumeria d’oppio, a Chinatown, gustando lo stesso paradiso artificiale che poi cercherà De Niro in C’era una volta in America (1984): ma da cinese, in mezzo a altri cinesi. Ne scaturisce una zuffa colossale, solo “raccontata” (come farebbe Mizoguchi) ma comunque degna di Stan Laurel e Oliver Hardy.
Nel secondo spezzone, assistiamo al clamoroso successo di Zelig, esibito da sorella e cognato come un fenomeno da baraccone.