I- Un modo diverso di avvicinarsi alla Scrittura – alla “Legge” – ce lo insegnano vecchi e nuovi Cabbalisti. Non mi riferisco allo scandaglio tipico d’ogni lettura “esoterica” e “occulta”, quanto piuttosto alla capacità d’intendere la Torah come se il suo Senso non ci fosse stato dato una volta per tutte, ma come “Legge sempre differente”. Il che consentirebbe di conservare, in essa, l’Utopia della Novità – ché altro non è infatti, la nostra Salvezza o Redenzione: Novità assoluta rispetto ai tempi bui in cui da millenni, viviamo.
Perciò, chi legge la Bibbia, oggi o cent’anni fa, non legge lo stesso sacro libro. La «Scrittura, secondo un antico detto, ha settanta “facce”», e con ciò si intende “che essa ne mostra una nuova ad ogni generazione”.
La Torah è proteiforme. Come tutti i Libri Totali, azzera il Tempo.
Cambia nel Presente, nel Passato, nel Futuro. Cambia, da lettore a lettore. Il miracolo dell’Antica Scrittura è la sua “Molteplicità”.
“Vi sono”, compendia Borges, “tante Bibbie quanti sono i suoi lettori”. Infatti i “cabalisti ebrei sostenevano che la Scrittura è stata scritta per ognuno dei fedeli, il che non è incredibile se pensiamo che l’autore del testo e l’autore dei lettori è il medesimo”.
Ciò non significa che a ogni lettore sia lecito interpretare la Bibbia a suo modo, quanto piuttosto, credo, che essa ha qualcosa da dire, di diverso, di personale, ad ogni individuo: il quale leggendola vi si riconosce, e si sente, in essa, menzionato. L’Anima ebraica è incomprensibile, senza questa esperienza, il “tocco” divino del Libro: de te fabula narratur.
Questa blanda premessa dovrebbe introdurci nel modo più semplice (e quindi forse per ciò stesso limitato e parziale) alla ri-lettura di una celebre Parabola di Franz Kafka: “Davanti alla Legge”. È un racconto che compare due volte nella sua opera: la prima, come prosa a sé stante; la seconda, nel romanzo Il Processo, dove viene commentata – anche da K. – in modo talmente periferico e umbratile che non giova per nulla alla sua comprensione.
«Davanti alla legge sta un guardiano. Un uomo di campagna viene da questo guardiano e gli chiede il permesso di accedere alla legge. Ma il guardiano gli risponde che per il momento non glielo può consentire. L’uomo dopo aver riflettuto chiede se più tardi gli sarà possibile. “Può darsi”, dice il guardiano, “ma adesso no”». Il campagnolo si siede accanto alla porta, ogni tanto sbircia lì dentro, e passano gli anni, senza che riesca a entrare; neppure riesce a convincere il guardiano, corrompendolo. Giunge così alla fine dei suoi giorni. E nell’agonia, con l’ultimo filo di voce che gli è rimasto in gola, chiede al suo irriducibile sorvegliante: «”Tutti si sforzano di arrivare alla legge. Come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?”. Il guardiano si accorge che l’uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli grida: “Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l’ingresso. E adesso vado e la chiudo”».
Anche il Cabbalista, ritiene, che la porta della Legge si apra solo per noi: è labirinto tutto nostro. Nel Libro dei Libri, nel racconto di tutti i racconti, troverai la tua Vita. Lì dentro c’è la Tua profezia, devi solo saper leggere. Altrimenti il Custode (Angelo e Demone insieme) la chiuderà, quella porta, se tu, neppure in punto di morte, hai saputo chi sei, dentro di te.
Supponiamo dunque, per un istante, che la Legge di cui parla la Parabola “Davanti alla Legge”, sia la Torah dalle molteplici facce. Né altro è, anche in Kafka – se non galleria personale, passage –, la Legge, ossia la Torah. Ma dobbiamo pure chiederci in che modo Kafka fu Cabbalista, per comprendere appieno il racconto. Che rappresenta, in nuce, in “grado zero”, l’essenza stessa della sua ispirazione: un modello che viene replicato e ingrandito in tutto Il Processo, finché trionfa nel successivo Il Castello.
Noi non sapremo mai cosa volesse esattamente dalla Legge il campagnolo, quale fosse la sua istanza e la natura del Giudice al quale intendeva presentarla: sappiamo solo che l’uomo è disposto a non tornare più a casa, e a dilapidare ogni fortuna, pur di entrare; altrettanto ci resterà oscura e misteriosa la colpa di K. e i motivi per i quali viene perseguitato dal Palazzo della Giustizia; e del “sedicente” agrimensore perennemente respinto dai funzionari “che contano”, ignoriamo il reale motivo che l’ha spinto a arrivare fino alle pendici del Castello del Conte.
I protagonisti della narrativa di Kafka non subiscono solo gli effetti d’una forma degradante di impotenza, condita di umiliazioni, che li attanaglia: le loro stesse motivazioni di base sono, in genere, mutile, inadeguate, gratuite, pedanti, insensate, e il resto – smacco, sconfitta, catastrofe – viene quasi da sé.
La prossimità con il Sacro o il Mistero, non solo non riesce mai a salvare o a redimere i suoi K., ma è proprio denunciata, dall’autore, come “nonsense“.
E questo, mi pare, è il segreto del “Fantastico” di Kafka.
L’opera kafkiana – che indiscutibilmente ricade nel Fantastico, ma che è al tempo stesso così sfuggente e labile ad ogni classificazione –, risulterebbe incomprensibile, se divelta dallo sfondo del processo di integrale laicizzazione, e Secolarizzazione, della cultura occidentale. La grandezza di Kafka, e il suo sublime senso del ridicolo, stanno proprio in questo: nell’aver “de-sacralizzato” la Cabbala nei suoi racconti, sperimentando cosa accadrebbe se, prendendoli per istruzioni “pratiche”, calcassimo i meandri interpretativi della Torah dentro il Reale. L’operazione “metafisica”, se c’è, sarebbe svolta dunque e chiaramente al contrario.
Naturalmente, questo movente di fondo è anche permeato di ambiguità, che possono sembrare concessioni a modelli “mitologici” o “scritturali”. Però, il rifiuto del “Mitico” in favore del “Fantastico Puro”, mi sembra fondamentale e costitutivo, in Kafka – e una lettura spregiudicata del racconto “Davanti alla Legge” potrebbe rivelarcelo.
Nella Parabola, l’accesso alla Verità e alla Giustizia, nelle quali è riposto il senso della Vita di ognuno di noi, è sbarrato da una serie di guardiani, uno più forte e spietato dell’altro, che rappresentano altrettante potenze Mitiche poste alla frontiera delle nostre Utopie. Essi non sono Custodi di Verità e Giustizia, ma solo mostri che hanno lo scopo di respingerci, per cui non è escluso che nessuno abbia affidato loro quei feroci compiti di sorveglianza, ma che si siano investiti da sé, quasi depredando l’incarico, pur di esercitare l’indole malvagia, repressiva, e priva di speranza, che è il fondo veritiero di ogni Mitologia del Destino.