I- I banchetti cemeteriali di Domiziano
Domiziano, che regnò dall’anno 81 al 96 dell’era volgare, ebbe fama di grande crudeltà presso il popolo anche per un suo celebre e spaventoso “convito funebre”.
Racconta Dione Cassio che l’imperatore un giorno invitò a un banchetto i cavalieri e i senatori più eminenti in tutta Roma. Quando i convitati, senza alcuna scorta, giunsero a Palazzo, furono sistemati in una vasta sala nera come la pece, illuminata qua e là da poche deboli faci, come un cimitero di notte. Ognuno fu sistemato accanto a una colonna funebre, sulla quale trovava contrassegnato il proprio nome.
Arrivarono dei giovinetti nudi, dipinti di nero, che danzarono nel buio, intorno a loro. Furono poi servite le vivande, in piatti neri: erano le stesse, nere, rituali, che si offrono ai defunti.
Solo Domiziano parlava, tutti gli ospiti erano ammutoliti dal terrore, e presagivano una strage. In quel silenzio funerario, l’imperatore tenne un’orazione sui suoi argomenti preferiti: la morte e le uccisioni. Poi congedó i convitati e li fece riaccompagnare a casa non dai loro schiavi, ma da altri, sconosciuti, che parevano assassini prezzolati. Ciononostante, tutti furono presto nelle loro dimore. Giá tiravano un sospiro di sollievo, e si sentivano scampati a una morte sicura, quando, da ognuno, giunse un messo imperiale. “Ciascuno allora fu certo che fosse giunta la sua ultima ora”. Il messo era invece uno dei fanciulli che avevano danzato nella penombra della sala atra, e che ora, lavato e rivestito, portava loro ricchi doni.
I tiranni sembrano gustare, come fosse nettare o ambrosia nei banchetti divini, il Terrore che incutono col loro Potere.
II- Il Velo nero del Terrore
M. de Savigny, il naturalista ottocentesco, aveva contratto fin da ragazzo una forma rara e terribile di cecità, per cui, se sugli occhi gli cadeva anche la più debole luce, ne provava una atroce sofferenza. Si rifugiava per questo in una camera oscura e, diffidente persino del buio, si proteggeva la vista con un velo nero e una maschera d’argento sul volto. Fin là dentro, però, era perseguitato da tormentose allucinazioni. Epifanie improvvise, che non toccavano solo la visione, ma tutti gli altri sensi: si sentiva strattonato, udiva urla e melodie sconquassanti, voci umane che cantavano, fischi acutissimi. Era anche soggetto, in aggiunta a tutte queste turbe già spaventevoli, a crisi che gli sconvolgevano il senso dell’odorato. per cui il suo olfatto era assalito di continuo da repentini miasmi fetidi.
Solo, mascherato, avvolto dalle tenebre, le dita affondate negli orecchi, le narici dilatate e offese, de Savigny viveva nella più cieca forma di Paura. L’Inferno che, si dice, attende i peccatori dopo morti, lo sperimentava già, da innocente, in vita.
[in copertina: Frammento dalla “Tempesta”, di George Romney (1790)]