SCHOPENHAUER IN GUYANA:
“Piano d’Evasione”, di Adolfo Bioy Casares
un saggio per la rivista “Prospetti” [n. 37, marzo 1975]
di Marco Bascetta e Franco Porcarelli
Borges qualificò “perfetta” la trama de L’invenzione di Morel, che è del 1941; ignoriamo se abbia usato la medesima espressione per il secondo romanzo di Bioy Casares, Plan d’Evasion, del 1945 . Volendo leggerlo immanentemente, seguendo la sua logica interna, il testo presenta due livelli di lettura: solo il primo, il più mosso e più ricco di colpi di scena, ha il nitore di un perfetto “Mystery”, e può essere paragonato, per le notevoli somiglianze, all’intreccio di Morel.
Piano di evasione è forse nato dall’intenzione dell’autore di esaurire la medesima problematica affrontata nel romanzo del ’41. Qualsiasi tentativo di narrarne succintamente la trama si rivela presto insufficiente. Lasciamo allora al lettore il piacere di seguire le fantasie letterarie di Bioy Casares, il suo stile singolare e, e cerchiamo di addentrarci invece nel contenuto di pensiero del romanzo, là dove il grande scrittore ha mostrato intuizioni feconde e profondità filosofica.
1) Filosofia e felicità: Pierre Castel
La chiave del romanzo è la filosofia di Pierre Castel, governatore del bagno penale di Cayenna. Per conferire una realtà duratura a questa sua concezione del mondo, Castel progetta un abnorme esperimento nel quale usa come cavie, prima, i detenuti della colonia e, infine, se stesso. L’evolversi nel tempo di questo esperimento, fino al drammatico finale, è seguito dall’ignaro assistente di Castel, Henry Nevers, sempre combattuto tra il desiderio di non compromettersi e quello di scoprire cosa effettivamente accade nelle isole-prigioni. Nevers narra a mezzo di lettera le sue successive scoperte a uno zio, Antoine, che si trova in Francia. Nell’ultima lettera, prima della sua misteriosa e mai chiarita scomparsa, Nevers riporta e chiosa la filosofia di Castel, quella che ha informato, fin dal principio, l’esperimento.
Per Castel l’essenza del rapporto uomo-mondo è interpretazione. L’uomo interpreta la differenza, la discrepanza, si ferma al diverso; il resto è caos, frammento, proliferazione assurda di oggetti. Un movimento di atomi che si turbano reciprocamente lega l’uomo alle cose. Ma poiché non vi sono cose in sé, ogni oggetto è simbolico: forzato da un soggetto felicemente libero, un giglio può essere un’onda; una cella, soprattutto, potrebbe trasformarsi in un’Isola Beata. Ciò che necessariamente sfugge all’interpretazione umana, e ne limita la libertà, è il caos indistinto, condizione naturale del mondo. L’operazione con la quale il soggetto, in condizioni normali, manipola la realtà, lascia un resto enorme, un fuori minaccioso che inflessibilmente si oppone all’uomo, impedendogli ogni certezza. Il soggetto, ferito dalla frammentarietà del reale, ripara in un orizzonte chiuso e senza speranza. L’unica certezza ci è data dai sensi, ma essi, per la loro debolezza, ci rappresentano un mondo banale e coercitivo, perennemente assediato dal caos.
Potenziando e cambiando i sensi, attraverso un’operazione chirurgica, si può mutare l’immagine di questo mondo. L’uomo può dominare e piegare alla propria volontà il caos esterno costringendolo a rivelarci gli infiniti “Paradisi di Voluttà” che esso racchiude.
Infatti, lo scopo dell’esperimento di Castel è recuperare la felicità perduta. In ciò egli si dimostra il perfetto pendant di Morel. La macchina “eternizzante” di Morel era il risultato di una scienza che postulava la medesima concezione del mondo e che tendeva ai medesimi obiettivi edonistici di Castel. Morel si propose anzitutto di restituire all’uomo la sua dimensione immortale (come dice di lui il fuggiasco: “inventò l’immortalità”), ma intese questa dimensione come un eterno stato gioioso. Immortalità è felicità: la credenza in un paradiso terrestre, in un “frutteto” originario a portata dell’uomo, compendia perfettamente i due impulsi umani alla felicità e alla immortalità. Questa credenza è comune tanto a Castel che a Morel. Ma le loro ricerche, volte nella medesima direzione, prendono tuttavia un senso diverso e propongono diverse soluzioni.
Morel crede che sia sufficiente al raggiungimento della felicità una esistenza di immagine, di simulacro cosciente. Essendo il mondo “costituito, esclusivamente, di sensazioni”, non c’è differenza alcuna tra l’uomo e la sua immagine, purché essa sia capace di sensazioni. Tuttavia, non è un caso che i “doppi” fotografati da Morel distruggano, biblicamente, i loro originali, catturandone e perpetuandone l’anima. Ciò che Morel persegue è una mistica Resurrezione della Carne suffragata dalla tecnologia. Morel si comporta come un Dio tecnologico. Le immagini da lui create hanno una sottile e inquietante ambiguità: per sé non vivono, ma vivono solo per un personaggio esterno, veramente vivente, un non-simulacro; l’esistenza di simulacro è sufficiente cioè a mantenere in vita la coscienza, ma non l’autocoscienza. Così l’immagine esiste in quanto è-per-altri, e è-per-altri solo in quanto è amata.
Infatti l’impulso a creare l’inganno e la trama, che sta alla base dell’invenzione di Morel, è essenzialmente erotico: immortalare l’amore, rendere eterna la bellezza della donna amata. Stanco di essere solo il “voyeur” di un mondo che essenzialmente non comprende, il dio-Morel non solo restituisce all’uomo il paradiso, ma vi si cala dentro. Il mondo ritorna spettacolo estetico finché un nuovo spettatore-voyeur, il fuggiasco, non rinnova, innamorandosi delle sue creature, quell’atto d’amore originario.
All’interno di questa complessa problematica, si nota chiaramente come molte contraddizioni dilanino il pensiero e l’opera di Morel. Se la trama è perfetta, meno perfette sono le sue implicazioni filosofiche. Morel è dichiaratamente un sensista, ma odia la carne. Per lui, la felicità consiste nella ripetizione, nell’eterno ritorno delle Creature amate: ma di esse ritorna solo un simulacro, un’esistenza senza corpo che si consuma, perennemente, nell’aldiqua. Corpo e felicità si separano: l’invenzione riesce ma, misticamente, contro le sue premesse sensiste.
Appare ormai chiaro quanto mistico sia l’atteggiamento che Morel assume verso la permanenza del mondo e della natura. Nella loro felice immortalità ritornano tutte le cose, tutti gli attimi, tutte le azioni – anche le più insignificanti –, perché l’amore, conquistando il mondo, interamente lo giustifica. Al contrario Castel, sviluppando coerentemente il suo sensismo, scopre l’inutilità dell’individuale, dell’accidentale, della natura e, in ultimo, anche della coscienza. I sensi devono essere il fondamento della felicità terrena: della coscienza lo interessa solo l’aspetto creativo. Perciò all’eterno ritorno del mondo Castel sostituisce la sua semplificazione, la sua riducibilità ai sensi, e al ripetersi inconsapevole dell’azione oppone la creatività dell’azione.
Solo attraverso la trasformazione attiva dei sensi scopriamo di essere il vero fine del mondo, degli oggetti e delle rappresentazioni. Il crittogramma della natura ci appare allora chiaro. La felicità dipende da questa scoperta creativa: come ritrovare, dentro lo stesso mondo perduto, “il primo frutteto”.
Ma la scoperta teorica non basta. L’irrealtà del mondo, la sua totale dipendenza dalla forza interpretativa del soggetto (in senso nietzscheano), hanno per Castel un significato assolutamente materiale. La prigionia cui il mondo costringe, qui semplificata e simbolizzata nello spazio circoscritto di una cella, si infrange nel momento in cui il soggetto non la interpreta più come tale. Non si tratta tuttavia di semplice “amor fati “, di mera resa alla fattualità del dato.
L’irrealtà caotica del mondo rovescia quel semplice adattamento a condizioni materiali date in Liberazione, perseguimento, se non della felicità, almeno di un suo surrogato, la tollerabilità dell’esistenza. Alla realtà guardiamo sempre dal punto di vista del prigioniero, del condannato innocente. Ma la cella nella quale il soggetto imprigionato langue, in virtù della semplificazione del mondo operata operata da Castel, diventa il luogo fisico nel quale sono comprese e sintetizzate tutte le possibilità dell’universo, simile all’Aleph di Borges “el lugar donde están, sin confundirse, todos los lugares del Orbe, vistos desde todos los ángulos”.
Nella cella è anche contenuta ogni possibilità di rovesciare il mondo, attraverso la modificazione del soggetto senziente. Castel può apparire appunto un “sovversivo” perché intuisce la necessità di cambiare il mondo, ma non è più un sovversivo nel momento in cui pretende che questo mutamento dipenda solo dalla trasformazione delle nostre percezioni e rappresentazioni. Tuttavia Castel dimostra una sorprendente radicalità materialistica: la filosofia deve trapassare immediatamente in realtà, in operazione chirurgica. La semplice comprensione e l’autocoscienza sono incapaci di produrre la felicità. Il rovescio dell’invenzione di Morel era, tout-court, la morte; uccidersi per ottenere la suprema felicità: un atto degno di un cristiano o di un mistico, non di un materialista. Invece l’enigma corpo-coscienza va risolto, per Castel, sul piano della vita: egli vuole recuperare la felicità pienamente, hic et nunc.
Nelle sue trame, più coerentemente, si inserisce l’errore, la scelta fatale che fa crollare il sogno. Il vero sensismo si trascina dietro una felicità chimerica, astratta. Dalle sue premesse nasce la sua fine rovinosa. Da ultimo, e non solo simbolicamente, Castel muore, lasciando ad altri, a Nevers, la possibilità di sfruttare la sua invenzione.
Castel non è filosoficamente originale, in quanto mutua le sue concezioni da Schopenhauer, Nietzsche, James e dal materialismo volgare. Ciò che di lui più ci interessa, è il tentativo mitico-poetico di realizzare queste concezioni praticamente. Sospettiamo in Bioy Casares la volontà di chiarire, una volta per sempre, l’incolmabile distanza che separa filosofia e felicità, filosofia e Liberazione. Tale importante insegnamento ci verrebbe proprio da dove la tradizione filosofica e culturale Europea si presentò, fin dall’inizio, con il volto sanguinario dei Conquistadores e di una Fede che al pari degli idoli pagani richiese un pesante tributo di vittime sacrificali.
2) Henri Nevers: il Soggetto e l’Eternità
Ma Castel non è il protagonista del romanzo. Nel suo esperimento filosofico-materiale si inserisce un testimone riottoso o forse vile, apparentemente e costantemente preoccupato da altri pensieri: Henri Nevers. La sua funzione nello schema narrativo sembra la medesima del fuggiasco, il visitatore dell’Isola di Morel: ma due sospetti valgono a collocarlo in altra luce. Contrariamente al protagonista di Morel, Nevers è un personaggio assolutamente passivo. Una certa casualità determina la sua presenza nei luoghi nei quali si svolge l’azione: il dubbio che nelle isole stia per consumarsi qualche orrendo avvenimento lo preoccupa, perché vede allontanarsi il momento del rientro. Solo quando è sicuro del suo ritorno in Francia si lascia andare alla curiosità, ma non arriva mai a incidere sullo sviluppo delle trame di Castel.
Eppure nell’artificio letterario di Bioy Casares, Nevers dovrebbe essere il protagonista tipico del “Mystery Esotico”, il quale, se inconsapevolmente viene trascinato in un baratro di terrore, trova sempre in se stesso la forza morale di risollevarsi, o distruggendo personalmente il tiranno e le sue trame (per esempio: The Most Dangerous Game, di Connel), oppure delegando ad altri – Dio, la Natura, il Caso – la prerogativa di punire il colpevole (per esempio: L’Isola del dottor Moreau di Wells). Ma Nevers è troppo spaurito, troppo, e subito, consapevole dell’orrore. Non agisce, registra gli eventi. Alla fine, contrariamente a quanto accade ai suoi predecessori letterari, crolla il confine che dovrebbe dividere moralmente la presunta vittima, Nevers, dal presunto persecutore, Castel: Nevers sottoscrive pienamente la filosofia del suo avversario. Così in fondo al baratro non vi è distruzione, giustizia o castigo, ma quiete, tranquillo appressarsi della morte.
Del “visitatore” non sappiamo nulla, della vita di Nevers ci vengono riferiti moltissimi dettagli. Spesso i particolari della sua vita francese ci sembrano oziosi perché non puntualizzano la sua psicologia né ci aiutano a meglio comprendere lo svolgimento della trama. Questo secondo intreccio, che si sovrappone allo sviluppo dell’esperimento filosofico di Castel, sarebbe dunque una seconda trama da qualificare “imperfetta”? L’imperfezione dipende dall’inesplicabilità del personaggio Nevers e della sua storia; ma proprio questa complessità del suo carattere avvicina Nevers ai protagonisti delle grandi opere letterarie del Novecento, al K. kafkiano anzitutto, a Leverkühn e a Castorp, all’Ulrich di Musil.
Piano di evasione è anche un romanzo del mistero: non possiamo rammaricarci che non risolva tutti i suoi misteri. Tuttavia ci sia consentita un’illazione che tende a chiarire l’apporto segreto di Nevers alla logica del racconto.
Non sarà sfuggito al lettore accorto l’ambiguo finale, la chiusa emblematica che Bioy Casares appone al romanzo, laddove sarebbe il momento di sciogliere l’enigma del secondo intreccio, l’enigma del personaggio Nevers. Qui si dice che, dopo la sua misteriosa scomparsa, fu rinvenuta, tra gli oggetti appartenuti a Henri, una sirena d’oro. Ma, come sappiamo, egli non ebbe mai il tempo di prendere la sirena che la piccola Carlota gli offriva. Questo simbolo d’oro è il sigillo della sublime ironia di Bioy Casares – ironia che tanto saggiamente egli ha profuso nel suo romanzo –, ed ha davvero il medesimo sapore mitico del “Fiore di Coleridge” di cui parla Borges in Altre Inquisizioni: abbiamo creduto di sognare il paradiso, lì ci hanno dato un fiore che ora, svegliatici, stringiamo tra le mani. Bioy Casares rovescia questa paradossale manifestazione del soprannaturale: anche con questo artificio spinge il lettore affascinato a rileggere il romanzo, e a stupirsi di nuovo.
A indicarci il percorso è anche un altro passo illuminante di Jorge Luis Borges, che leggiamo nel racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius: “Bioy Casares che quella sera aveva cenato con me, stava parlando di un suo progetto, di romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti sarebbe incorso in varie contraddizioni: che avrebbero permesso ad alcuni lettori – a pochissimi lettori – di indovinare una realtà atroce o banale”.
Noi pensiamo che quel romanzo sia stato poi scritto. E che sia Piano di evasione.
Bioy Casares ha il dono di liberare il Meraviglioso: in questo quadro la nostra illazione non parrà del tutto arbitraria. Vi è una necessità intrinseca al racconto per la quale il testimone si deve trasformare in attore, e lo spettatore-Nevers deve irrompere sul palcoscenico. Il momento chiave dell’auto-introdursi volontario dello spettatore nella trama, così ben chiarito ne L’invenzione di Morel, in cui il visitatore si sovrappone alle vecchie registrazioni, creando l’illusione di farne parte dal principio, è un momento che qui effettivamente manca. Cioè, a dir meglio, non è narrato. Noi sospettiamo l’esistenza di questo momento-chiave, e che attraverso esso Nevers riesca dove Castel ha fallito.
Nevers, che al contrario di Castel non rimane disperatamente legato al mantenimento della propria coscienza, in quanto rifiuta la responsabilità della vita, oberata di ricordi orribili, scopre l’immortalità e la felicità. Infatti, si può, “in uomini dalla personalità e dai ricordi orribili [come Nevers?] trasformare non solo la percezione del mondo ma anche quella del proprio Io, ottenere, con mutamenti dei sensi e con un adeguata preparazione psicologica l’interruzione della coscienza di sé e la nascita di un nuovo individuo nel corpo precedente“. [da Piano di evasione, edizione del 1974, pp. 141-2]
Contro Castel, ma soprattutto contro Kant e Schopenhauer, Nevers pretende di distruggere tanto l’inattaccabilità dell’Io e della coscienza, quanto la quiete nullificante del Nirvana. L’Io infatti non va annullato ma sostituito. Un sensista coerente si deve fermare di fronte all’indissolubilità del proprio corpo: esso, e non nella coscienza, è il primum. Per ottenere l’immortalità, al contrario di ciò che credeva il visitatore di Morel, si deve distruggere la coscienza passata, sostituirla. Nevers allora diventa un altro, che nel libro viene chiamato Xavier Brissac. Non spostandosi mai fisicamente dalle isole, ne parte, vi muore, vi giunge. Le isole sono l’unica realtà.
Gli uomini di Bioy Casares non possono riordinare il mondo, il caos esterno l’ha sempre e comunque vinta su di loro. Contro il caos, solo l’artificio suggestivo permette di vivere, ossia di giustificare la propria esistenza. Nel mondo privo di valori, questa giustificazione va costantemente rinnovata, e deve passare necessariamente attraverso l’esperienza della morte. Lo scopo è sempre quello di uccidersi e di rimanere immortali. Paradossalmente si può dire che Morel, “il visitatore”, Castel e Nevers costruiscono trame, invenzioni e apparecchi inusitati per rinnovare la nostra cognizione della morte: il suicidio è il loro obiettivo.
Nonostante i suoi misteri irrisolti, la trama, come ognuno può constatare, non scade mai nella banalità. Né il gioco della fantasia di Bioy Casares è mai arbitrario, ma sorge e si sviluppa sulla base di una profonda conoscenza filosofica e letteraria. Tale caratteristica, comune a gran parte della letteratura dell’America Latina, ci permette un terzo livello di lettura, non più immanente, di formulare cioè alcune considerazioni complessive sul problema della cultura ispano-americana e del suo rapporto con la tradizione europea.
[…]
Si potrebbe leggere Piano di evasione, non senza un certo arbitrio, come una metafora sul destino americano della cultura europea.
La storia non è una storia sudamericana, è storia di europei in Sudamerica: per essere precisi, in Guyana. Una Guyana rappresentata, come spesso i colonialisti amarono raffigurarsi le terre di conquista, come un mondo semplificato al massimo, una sorta di spazio vuoto o tabula rasa, tale da fornire le condizioni più pure per la realizzazione di ogni sorta di strutture arbitrarie, di esperimentazioni politico sociali. Basti pensare agli innumerevoli esempi di comunità, società, comuni e “Robinsonate” collettive che punteggiano la storia del nuovo continente.
Tutti i personaggi della nostra storia sono europei, allontanati dai loro luoghi di origine e inseriti all’interno di uno spazio geografico, socialmente e culturalmente ancora tutto da definirsi: Castel, Nevers, De Brinon, Bernheim, Marsillac sono francesi; Bordenave-Dreyfus, pur essendo latinoamericano, attraverso l’interesse maniacale per il suo celebre omonimo e l’identificazione con esso, appartiene idealmente alla cultura francese. Dalla patria europea tutti questi personaggi hanno portato con sé un frammento della loro tradizione culturale. Da Teocrito a Plutarco a Shakespeare, a Zola a Hugo a Bentham, l’intero romanzo è costellato dalla presenza continua, esplicita o implicita, di una infinità di autori, peraltro completamente sradicati dal loro terreno culturale e posti in una relazione reciproca del tutto arbitraria. Bioy Casares cita esplicitamente le fonti dalle quali ha dedotto i fondamenti teorici del “esperimento filosofico” di Castel: Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, la Teoria dei Colori di Goethe, William James, DeFoe, per citarne solo alcune. Schopenhauer, Goethe e James sbarcano, con Castel, in Guyana dove trovano-nella colonia penale delle Isole della Salute-le condizioni sufficientemente semplici per tradursi nell’empiria.
Castel afferra perfettamente le caratteristiche specifiche del luogo circoscritto, ma ancora indefinito, nel quale si trova e le occasioni eccezionali che la sua posizione di potere (coloniale) gli offre: «Noi abbiamo l’opportunità, la difficile opportunità di agire su un gruppo di uomini. Ci rifletta bene: siamo praticamente liberi da ogni controllo. Non importa che il gruppo sia ristretto, che si perda tra “Coloro che sono infiniti nel numero e nella miseria”. Come esempio la nostra opera sarà universale. Nostro dovere è salvare il gregge che vigiliamo, salvarlo dal suo destino».
E così la filosofia si traduce in realtà, ma paga quest’arduo passaggio con la sua appropriazione da parte di un pazzo. Castel semplifica il mondo riducendolo a un ristrettissimo luogo fisico: una cella, linee, colori. Poi passa alla modificazione del soggetto che vive all’interno di questo mondo onde alterarne la percezione, ed ecco le mura del carcere dilatarsi e trasformarsi in “pianure sconfinate”. Se il mondo è volontà e rappresentazione, se volontà e rappresentazione non sono che determinazioni del senso, allora la trasformazione del mondo passa attraverso la modificazione della “graduazione sensoriale” umana.
Castel vuole dunque modificare il “mondo”, attirandosi così meritatamente l’accusa di “sovversivo” da parte della borghesia coloniale di Cayenna. Come Nevers, anche i Borghesi di Cayenne temono la rivolta, la liberazione reale e violenta. Tuttavia la modificazione del mondo, voluta da Castel, non è che castrazione del soggetto, né più né meno di quanto lo furono infiniti altri esperimenti comunitari, falsamente socialisti, a cominciare da quelli dei Gesuiti nel Paraguay e nel Perù. L’assoluta Liberazione si rivela in realtà assoluto dominio. Nel romanzo la cultura europea trapiantata in Guyana assume i tratti dell’utopista reazionario Castel e dell’oscuro ruolo che Nevers svolge all’interno e oltre il folle esperimento.
Nella realtà una filosofia che ha perduto per sempre la sua autorità ideologica si fonde in una letteratura fantastico-filosofica di enorme ricchezza, tanto dipendente dalla cultura europea quanto radicalmente antieuropea, come lo stesso Castel, che da colonialista si è fatto uomo coloniale, erede e nemico ad un tempo della borghesia colonialista di Cayenne e della sua tradizione culturale.
Marco Bascetta e Franco Porcarelli
[1974]
[in copertina: La fuga di Henri de Rochefort dalla Cayenna il 20 marzo del 1874, di Édouard Manet]