Agli albori del Fantastico moderno troviamo, e davvero non ce lo saremmo mai aspettato, Nicolò Machiavelli. Con ciò, non vogliamo dare eccessiva importanza alla novella Belfagor o a La Mandragola, le scorribande del celebre Segretario Fiorentino nel campo “fantasy”. Anche perché nella prima ciò che conta è la satira contro i costumi del tempo e contro le bizze delle donne, e nella seconda – l’opera teatrale –, si prendevano in giro le superstizioni e la dabbenaggine di chi crede ancora nelle leggende e nelle favole “paurose”.
In realtà il contributo di Machiavelli al Fantastico fu decisivo in senso più teorico che letterario: perché al principio del Cinquecento fondò e sancì quello Spirito del Tempo che può essere chiamato “Secolarizzazione”. Una chiave di lettura del presente e della Storia, e un’attitudine mentale, scevra d’ogni precedente indottrinamento. Certo non fu il solo, tra gli intellettuali, a battersi per questo tipo d’emancipazione, ma altrettanto certamente fu il più letto di loro, in tutta Europa, soprattutto per ciò che ebbe da dire come consigliere “politico” dei Principi. Sottraendo la “Ragion di Stato” – e persino la virtù personale – a qualsiasi condizionamento esterno e “ultraterreno”.
Machiavelli incarnò dunque il sentimento comune delle migliori coscienze del Rinascimento e si adoperò nell’opera di render “laico” e “secolarizzato” praticamente tutto ciò che era stato in precedenza ritenuto trascendente e metafisico. Aprì così la strada a quella mentalità” moderna” che poi condusse alle scoperte anche scientifiche del Seicento, il primo secolo veramente “illuminato”: il che implicò la fine, contemporanea, dell’influenza nefasta dei dogmi delle Chiese e dei dettami di Aristotele, così strettamente connessi.
Il Fantastico moderno, come ho cercato di dimostrare nella Fantaenciclopedia, germoglia proprio in questo terreno che si sta dissodando e liberando dalle scorie “religiose”, dai retaggi e dai “Miti” del passato. I due processi vanno di pari passo, perché la Modernità non è che si imponga con un improvviso colpo di stato, che azzera tutto, ma cresce nel tempo insieme alle conquiste, anche intellettuali, dello spirito borghese.
Nasce però, il Fantastico, non da un’adesione totale a questi sviluppi “illuministici”, bensì al contrario come “critica” e “denuncia” di ciò che sta accadendo nelle coscienze. Per esempio, sarà per prima la letteratura fantastica a svelare come, parallelamente alla rivoluzione industriale, stia mutando di senso stesso del nostro legame con la Natura, divenuta solo oggetto di dominio. E pure la prima a rivelare che tutto ciò che viene rimosso brutalmente dal nostro inconscio, o dal nostro sostrato comune e archetipo, è destinato a tornare, se non in termini “reali”, almeno come angoscia.
Ciò significa, per semplificare (e, ribadisco, questo è fondamentale): che noi, uomini e donne della modernità, continuiamo ad aver paura dei Fantasmi, degli Spiriti, dei Demoni, e degli Aldilà, anche e soprattutto perché sappiamo che non esistono. E in questo c’è una bella differenza tra noi che viviamo nei grattacieli e i creduli uomini medievali che affollavano le cattedrali gotiche o romaniche. Non ci sono affatto, tutte quelle cose “tra Cielo e Terra” che ci spaventano o ci attraggono tuttora: e lo sappiamo anche per colpa o per merito di Machiavelli, il “Grande Secolarizzatore”. Colui che, secondo padre Kaspar Schopp, gesuita, altro non era che “uno scellerato, agente di Satana, nemico del diritto, della natura e della religione, nonché inventore dell’ateismo”.
Di conseguenza Nicolò, Segretario Fiorentino, fu considerato antesignano del libertino Don Giovanni; e fu quindi il primo “Ateista fulminato”. Sia pure in effigie.
II- L’essenza stessa del Fantastico Moderno è trasgressiva: si basa sulla violazione delle Regole. Comprese quelle stabilite dalle Leggi Naturali della Fisica e quelle del Linguaggio.
Se pensiamo alla Fantascienza, al Fantasy, all’Orrore, è evidente che questo tipo di narrazioni, nell’era moderna (ancora prima delle Avanguardie letterarie e di ogni “ismo”), si sono presto affrancate dalle norme del Discorso “sensato”, “codificato”, e ne hanno fatto tabula rasa proprio sfruttando, a livello di Invenzioni, tutta la libertà creativa concessa loro dalle pieghe del Linguaggio. È questo lo spirito nuovo dell’epoca della “Secolarizzazione”: qualsiasi asserzione, anche la più stupida, può assumere in qualsiasi momento lo stesso valore dei Dieci Comandamenti. E avere la stessa forza evocativa d’una formula magica. Come insegna la letteratura fantastica, anche il solo “senso letterale” delle frasi scritte o dette senza premeditazione può richiamare in vita, in modo inatteso e sorprendente, ciò che è stato “rimosso” e che quindi non dovrebbe esistere.
In quest’ottica, secondo la Fantaenciclopedia, pietra miliare e atto di nascita del Fantastico in Letteratura va considerato il “Convitato di Pietra” di Tirso de Molina (frate Gabriel Téllez), poi di Molière, e poi ancora di Mozart e di Da Ponte: uno Spettro insieme antico e assolutamente nuovo.
Si tenga conto, infatti, che nella saga Don Giovanni non invita a cena il Fantasma o il Cadavere di colui che ha ucciso, ma soltanto la Statua marmorea che lo rappresenta, l’inamovibile monumento funebre del Commendatore. È quella, che poi, arriva per davvero.
Non solo il nobile, blasfemo e spiritoso (cavalcando lo Spirito del Tempo) ìncita una scultura inanimata a muoversi dal suo piedistallo, ma – giro di vite – la invita a consumare un pasto da lui, come se fosse provvista d’un corpo umano che non ha mai avuto, ma solo simboleggiato. Il fondo libertino del Fantastico – “letteratura dell’Infrazione” –, lo pretende: che si abolisca ogni Tabù.
Statue che mangiano – spesso, vivande orribili – compaiono già nelle Leggende e nei Miti più antichi. Dione Crisostomo e Pausania hanno narrato anche loro le imprese di sculture semoventi: la statua di Teogene di Taso, ad esempio, precipitò addosso a chi aveva ingiuriato il personaggio che essa rappresentava, un celebre atleta. Ma è sostanziale la differenza tra questi “miti” precedenti e l’invito – peraltro non ingiurioso, ma cortesissimo – che don Giovanni rivolge al simulacro del Commendatore, di presentarsi, da lui, per un “banchetto”. Con questa “trovata”, basata su una proposta impossibile, poi presa “letteralmente” in parola, Tirso de Molina (se è lui, davvero, l’autore del copione) – già negli anni Venti del Seicento – spinge fatalmente il Linguaggio verso la sua frontiera: per cui, se esso vuol mantenere un briciolo di senso, i fatti accadranno esattamente come non dovrebbero. Ciò dimostra la “modernità” e la “novità” inserite dal frate drammaturgo nella sua trama.
Il testo del Burlador de Sevilla fu inteso da subito come Fantastico, e fu proprio una tale caratteristica – non le imprese amorose – a decretare il successo del protagonista.
Don Giovanni, però, non era un personaggio completamente originale. In teatro s’era già visto un suo precursore: lo ha messo giustamente in luce il grande critico Giovanni Macchia in un magnifico studio, dedicato a Vita, Avventure e Morte di questa figura leggendaria.
Il Burlatore “ante litteram” era un conte chiamato Leonzio, il quale non compiva le sue imprese in compagnia d’un servo, Catalinòn, Sganarello, o Leporello che fosse, ma tenendo presso di sé, come presenza viva e come consigliere, il subdolo Machiavelli.
La commedia originale è perduta, d’essa sappiamo che fu rappresentata a Ingolstadt, roccaforte tedesca dei gesuiti, già nel 1615 (quindi prima di Tirso), ma pare che il copione fosse ancora più antico, perché il teologo Paul Zehentner sostiene d’averlo visto debuttare anni addietro sulle scene italiane. È probabile però che i gesuiti misero mano all’intero testo e ne modificarono l’impianto.
Cosa narra il loro dramma intitolato Storia del conte Leonzio che corrotto da Machiavelli, ebbe una fine terribile? Conosciamo la storia proprio attraverso Zehentner, che ne parla a lungo nel suo Promontorium Malae Spei Impiis…(etc).
Il nobile Leonzio, fatto preparare ai servi un lautissimo cenacolo, sta passeggiando in un cimitero “per eccitar l’appetito”, quando, imbattutosi in un Cranio di defunto, prima lo scalcia via in malo modo, poi, un po’ per celia, un po’ per esibizione di ateismo libertino, un po’ per saggiare se quanto aveva appreso da Machiavelli fosse vero, comincia a fare al teschio le domande che – aggiungo – più o meno tutti noi faremmo a un morto, se stimassimo che potesse risponderci, ossia:
“É vero ciò che credono molti uomini, che uno spirito immortale é racchiuso in un piccolo corpo mortale, che da quello riceve il beneficio della vita? E se un tale ospite una volta ha abitato in te, dimmi, per favore, dopo la morte è perito o sopravvive? E, ammesso che sopravviva, dove abita? in qual luogo? É salvo o è punito? Ma che forse l’altro mondo è eterno? Ed esistono i Radamanti e gli Eaci? E forse un Dio che siede in un severo tribunale e dà un premio per gli uomini pii e un castigo per gli scellerati, che durerà per sempre?”. Domande che generano orrore, al teologo, domande che non si fanno, perché non si deve chiedere ciò di cui si conosce già la risposta; in termini di Fede, sarebbe come dubitare degli assiomi della Geometria. Comunque Leonzio, dopo questo incontro amletico, “ordina al cranio del morto di partecipare al banchetto insieme ad altri convitati”. Tra questi, c’è Machiavelli in persona.
Naturalmente, come vuole la Logica Fantastica, sia antica che moderna, il Teschio si presenta per davvero: non a mezz’aria, (come il cranio di de Sade nel film horror The Skull, diretto da Freddie Francis), ma a figura intera – ed è “l’immagine viva della morte (quam vivum mortis simulacrum)”. Sedutosi a tavola con gli altri, il defunto sembra contento di vedere i commensali rimpinzarsi. Infatti, dice, da molto tempo non ricordava più il sapore del cibo e delle bevande, “saziandosi di sola fame”. Tutti gli ospiti però a quella vista scappano via, ad eccezione di Leonzio e Machiavelli. Ai due lo scheletro impartisce una lezione salutare, svelando loro quali siano i misteri dell’Aldilà, visto che Iddio l’ha spedito a quel convito appositamente per farlo. Primo: l’anima sopravvive alla morte e va in un altro mondo; secondo: l’attendono “l’eterna beatitudine”, o le “fiamme perpetue”, secondo quale sia la sentenza del Signore.
Come conosce tutte queste cose arcane, un vecchio pacco d’ossa scarnificate? Semplice: perché egli stesso è il residuo corrotto di qualcuno che giace e pena giù all’Inferno. E si dà il caso che il conte Leonzio abbia scalciato quanto rimaneva di un suo parente, perché l’Ospite sgradito gli rivela che è suo nonno. Detto questo, lo spettro in ossa senza carne ghermisce suo nipote, promettendogli che lo porterà dritto e subito all’Inferno, “per una scorciatoia”. Del povero Leonzio resta solo, in scena, il “cervello sanguinante”, “appiccicato” sulla parete, perché la Morte l’ha preso con tale violenza che gli è schizzato via durante quell’abbraccio.
Questa storia, recuperata dall’oblio grazie allo straordinario studio di Giovanni Macchia, è palesemente inventata, ma, bisogna ammetterlo, è anche opera di geniale propaganda. Una pratica nella quale sempre si distinsero i guerrieri della Fede, i gesuiti. Comunque, nel raccontarla, il teologo Zehentner si premunì. Lui la dava per fatto vero, ma nel caso, dice, si tratti di una favola, essa dimostra “assai chiaramente che la dottrina di Machiavelli ricavata dal Principe conduce all’ateismo”. O, che è lo stesso, dimostra che chi l’approva si danna senza appello, per l’eternità.
Coerentemente i gesuiti, al termine della rappresentazione a Ingolstadt del dramma di Leonzio, e in altre affollate adunanze convocate appositamente per l’occasione, diedero pubblicamente alle fiamme l’effigie di Machiavelli, e godettero di veder contorcersi e abbrustolire il suo ritratto. Un autodafé che era solo l’immagine “visibile” di quanto doveva capitare in quel momento giù nelle bolge dell’Inferno al ripugnante autore del Principe, “uomo”, come fu bollato, “scaltro e subdolo, gran fabbro di cogitazioni diaboliche, ausiliario di Satana”.
La crociata antimachiavellica dei gesuiti non si fermò ai teatri, ma percorse, fiammeggiante, tutto il secolo. Un destino da Faust, oltre che da Don Giovanni, che mi sembra sufficiente a rendere Nicolò un Eroe, anche se non un martire, del Fantastico.