I- C’è un racconto di Ambrose Bierce – scrittore straordinario –, che mi è caro più di tanti altri dei suoi (quasi tutti magnifici), e che consiglio: si intitola: Storiellina (“The Little Story”, 1874). È un capolavoro dell’Umorismo Nero.
Si tratta d’una variazione “combinatoria” della fiaba della Piccola Fiammiferaia (Andersen, 1848), allo scopo d’introdurvi un paradossale “lieto fine”.
Un’orfanella, la notte di San Silvestro, sola, debole, affamata, esposta a pioggia e gelo – mentre tutti gli altri, satolli e sganasciati, festeggiano l’anno nuovo –, esprime un desiderio: coprirsi contro il freddo, sfamarsi, essere in qualche modo felice anche lei.
È mezzanotte. L’orfanella guarda ansiosa il cielo e…: viene esaudita. Dalle nuvole, precipita giù, ai suoi piedi, una torta di mirtilli. “Mentre era intenta a raccogliere la torta venne giù una pagnottina con vitello che quasi le portò via un orecchio”; poi arrivò una pagnotta intera, e un prosciutto enorme le “cascò dritto dritto sulle dita dei piedi”. “Quindi ci fu una tregua – non venne giù nient’altro, salvo che pesce secco, budini freddi e biancheria di flanella”; ma poi, ecco che un “quarto sano di bue piombò in un momento terrificante sulla testolina della piccola orfana”. Questa pioggia miracolosa continua senza pietà. “Lenzuola e coperte, scarpe, barilotti di burro, forme monumentali di formaggio, cordate intere di cipolle, quantità inverosimili di marmellata sfusa, fusti di ostriche, pollame titanico, casse e casse di terraglia, stufe e fornelli d’ogni sorta e tonnellate di carbone piovvero in ampie cateratte da un cielo uberrimo, andandosi quindi ad accumulare sull’infante per una profondità di sei o sette metri. Ci vollero più di due ore prima che tornasse il sereno ed erano già le tre e mezzo antimeridiane quando un quintale di zucchero andò a colpire l’angolo tra Clay e Kranney Street con una tale veemenza che tutta la penisola venne scossa come da un terremoto e tutti gli orologi della città si fermarono”.
Alla fine i resti miseri dell’orfanella vengono portati all’obitorio, e il coroner, appena li vede, si spazientisce con il necroforo: “Oh, senta, se ne vada, per favore, c’è stato qui uno ben tre volte ieri che ha cercato di vendermi una carta geografica precisa a questa” [da: Racconti Neri].
I Doni richiesti dalla preghiera accorata dell’orfanella vengono giù dal cielo distrattamente, e fastosamente, tanto “generosa” (come può esserlo un parvenu che sfoggia le sue ricchezze) è la divina Provvidenza. Ma, anche, tanto cieca da comportarsi da sventata e da assassina.
Lo stesso sfarzo, e le stesse fatali conseguenze, contrassegnavano spesso le orge dell’abominato, dalla Storia, l’imperatore romano Eliogabalo.
Durante i suoi festini, questo dissoluto tiranno di Roma, volendo superare per splendore ogni altro monarca del passato, faceva cadere sui suoi invitati, dalla volta della sua sala faraonica, a pioggia, a grandine, una tale quantità di fiori interi o quintali di petali e altre profumate regalie che gli ospiti spesso rimanevano stecchiti sotto quella coltre, impediti nel respiro e soffocati da tanta munificenza.
Siamo già nel regno del “Cartone Animato”: e infatti Tex Avery, emulo ignaro di Eliogabalo e Ambrose Bierce, ricorrerà anche lui a un’irrefrenabile pioggia d’oggetti (sempre più grandi, dal mattone fino al cacciatorpediniere) per concludere il formidabile Bad Luck Blackie (1949), un cartoon venerato dai Surrealisti.
II- “Carità”: è parola spinosa, entrata nel novero di quelle da evitare. Si potrebbe utilizzare al posto suo un termine del quale meno ci si vergogna. Per esempio: “distribuzione equa, individuale o comunitaria, delle risorse economiche”; o qualcosa del genere. Però la terminologia non riuscirà mai a nascondere l’ambiguità di fondo di questo tema, che riguarda quelli che una volta si sarebbero chiamati i “rapporti tra le classi sociali” (una congerie che la modernità sta attualmente spazzando via e quindi difficilmente rilevabile nell’età dei social).
A questo proposito vorrei aggiungere un racconto che sembra uscito da una cronaca veritiera del XX secolo, e che trovo nel libro Tracce del filosofo Ernst Bloch: sperando che qualcuno – io non ci sono riuscito – ne tragga poi la “morale” giusta. Si intitola: “Diavolo Povero e Diavolo Ricco”, e lo trascrivo integralmente.
«È curioso che chi ha denaro a sufficienza talvolta diventi buono, e contento che anche il suo prossimo abbia qualcosa e si figuri per lui qualcosa di bello.
Ai ricchi piace giocare, e mettono in gioco i poveri. Come quell’americano che bandì un concorso molto singolare. Si richiedeva un giovane, preferibilmente un minatore, in buona salute e disponibile. Tra centomila concorrenti ne fu scelto uno; il giovane si presentò. Un bel ragazzo, non doveva fare nient’altro che soddisfare le altre condizioni: avere delle buone maniere a tavola, vestirsi con eleganza, saper stare tra la gente.
Un precettore gli insegnò la mondanità, l’equitazione, il golf, l’arte della conversazione colta con le signore e tutto quanto è necessario a un gentleman americano. Tutto questo con il denaro del suo protettore; finito il periodo di dirozzamento, il fortunato intraprese un viaggio di tre anni intorno al mondo, lettere di credito in tasca che gli permettevano di soddisfare qualunque desiderio, fosse anche esotico. Non restava più che una piccola condizione: dopo il viaggio, il giovane sarebbe dovuto tornare in una miniera, come se nulla fosse stato. Ci sarebbe dovuto restare almeno per 10 anni, minatore come prima.
L’uomo nato con la camicia aveva sottoscritto anche questo, accontentandosi della vita che gli si offriva nell’immediato; iniziò l’epoca della gioventù dorata. Viaggiò attraverso gli splendori da teatro d’opera d’Europa, ebbe fortuna con le donne, rivelandosi dotato, andò a caccia della tigre indiana e a pranzo con il viceré; insomma, condusse una vita principesca, con in più il contrasto con la vita precedente. Fino al giorno in cui tornò a casa, quasi sazio di piaceri e ringraziò il suo benefattore come si prende congedo da un ospite. Infilò di nuovo i vecchi vestiti, ridiscese in miniera, ritrovò il carbone, i cavalli ciechi, i compagni che gli erano divenuti estranei e che lo disprezzavano.
Ridiscese in miniera – difficile immaginare primi giorni, i primi mesi, il riflesso del passato e il contrasto del presente, la discesa le prime luci dell’alba, il carico sulle spalle, il sudore, la tosse, la polvere negli occhi, la porcheria di cibo, il letto a tre. Certo il giovane avrebbe potuto rompere il patto; con le buone, cercando un altro posto, o da rivoluzionario, diventando dirigente operaio.
Invece si mise in sciopero, andò a New York, si recò presso il suo benefattore, e lo uccise.
Il tribunale mostrò post festum comprensione per l’operaio: fu assolto».
[in copertina: un fotogramma di Bad Luck Blackie, di Tex Avery (1949)]