Ho conosciuto Enrico Ghezzi nel 1975, e siamo diventati amici. Abbiamo vinto un concorso Rai alla fine degli anni 70 (se posso dirlo: entrambi senza raccomandazioni) e, come era nostro comune desiderio, ci siamo ritrovati a lavorare nella stessa sede di Genova, lui come autore e regista, io come giornalista. È stato un vero spasso, ogni giorno.
All’epoca “il manifesto”, col quale collaboravo da tempo, aveva bisogno d’un innesto di giovani che rivoluzionassero la critica cinematografica del quotidiano, sporadica e appesantita dai retaggi delle vecchie politiche culturali. Ascoltarono anche il mio parere e diedero spazio sul giornale a Enrico (che aveva da poco pubblicato il “Castoro” su Stanley Kubrick) e altri bravissimi amici. Poco dopo irruppero sulle pagine culturali anche i favolosi e rigorosissimi Roberto Silvestri e Mariuccia Ciotta (che erano già in redazione), e la rivoluzione che auspicavamo tutti, con loro, con Gianni Riotta e Severino Cesari, fu compiuta.
Ci si rese conto molto presto che Enrico Ghezzi era (è) un genio. Dire che è un critico cinematografico è talmente riduttivo che si rischia seriamente di offenderlo, tanto ha contribuito lui stesso a estendere il nostro comune concetto di Cinema. Il Cinema in quanto “arte” e persino in quanto “tecnica” separata, per lui non esiste, non lo interessa; ma ne ritrova l’essenza nei giorni e nei fatti della vita, e riesce a amarlo, smisuratamente, solo in quanto “palcoscenico”: dentro o dinanzi il quale protagonisti e pubblico dipanano esistenze paritarie.
Io lo ricordo, al principio, come filosofo, come “situazionista”, cultore e studioso del “duello indiano”, e formidabile giocatore di “scopone”. In Rai ha fondato il palinsesto della Terza Rete, che è come dire aver fondato (con Angelo Guglielmi) il successo di una rete che ancora, dalla fine degli anni 80 a oggi, vive di quella rendita, di quel riflesso. Fino dai tempi di Genova Enrico ha dimostrato di possedere una idea nuova della “visione televisiva”, e in generale della “visibilità”. Non vorrei usare altre parole per definire quel tipo di “sguardo” su cui ha costruito la sua estetica (se è tale); le parole giuste le ha dette lui e si trovano nel libro: L’acquario di quello che manca uscito l’anno scorso con la “Nave di Teseo”, curato e introdotto dalla figlia Aura.
Ciò che Enrico Ghezzi ha fatto con i palinsesti TV si basa sugli stessi principi che l’hanno spinto a inventare “Schegge”, “Blob” “Eveline” e “Fuori Orario”. L’attenzione maniacale per i materiali più “eterogenei” e non “contaminati” da nessuna coercizione ideologica, e il loro accostamento guidato e calamitato da una saldissima idea teorica, della quale dominava tutti gli strumenti. Operazioni critiche “giocose” e insieme raffinatissime, ma anche, come si è dimostrato, di forte “presa sul pubblico”. Ed è assolutamente conseguente che questa idea teorica Ghezzi non la divulgasse se non attraverso spirali avvolgenti di discorso, quasi sempre “fuori sincrono”: vortici senza apparente centro o fine che sono la cifra originale della sua presenza-assenza sullo schermo tv.
Questa lucidità teorica è profusa nel film “di montaggio”. che finalmente è riuscito a realizzare: Gli Ultimi giorni dell’Umanità. Premiato dai critici a Venezia, da qualche tempo è “visibile” anche nelle sale.
Un film straordinario e fondamentalmente bellissimo che rappresenta la summa (non esaustiva) di ciò che Enrico Ghezzi pensa delle possibilità dello “sguardo” e della “visione” umana. Al di là del mezzo col quale ci raggiungono questi materiali. Al di là dell’intenzione con la quale sono stati girati o catturati. Perciò i filmini famigliari ottengono lo stesso spazio e rilievo dei classici di Hollywood e del “grande cinema” mondiale; Lee J Cobb o James Coburn ricevono lo stesso trattamento riservato alle figlie di Enrico Aura o Martina, o alla moglie, la sempre stupenda e paziente Nennella Buonaiuto; e la metamorfosi dello sguardo di Ray Milland in L’uomo con gli occhi a raggi X di Roger Corman diventa altrettanto autobiografica dei video otto o dei vhs girati in prima persona e in casa.
Un procedimento orientato a conferire un “senso” diverso al flusso di immagini da cui siamo bombardati, e a quelle che noi stessi siamo condannati adesso a produrre con i cellulari; quindi, non una omologazione, che sfocerebbe in un appiattimento, e neanche una vicinanza per analogia o per contrasto, tipica forma scolastica di “montaggio”.
Si potrebbe dire piuttosto che nel film vediamo all’opera, controLuce, come in un planetario, una costellazione stellare di sequenze che si compattano o si sfiorano per “attrazione gravitazionale”. Ma è essenziale che questa operazione non vada considerata neppure gratuita o surrealista: le immagini “elementali” del film entrano “orbitando” nel nostro quadro visivo o “sguardo” solo in quanto intercettate e organizzate da una cabina di regia centrale, teoricamente e direi anche “eticamente” corazzata a sopportarne gli aspetti eccessivi oltremisura e “eccedenti” in modo intollerabile. Una Regìa simile all’Overlook (kubrikiano) o, ancora più esplicitamente, al “Grande Fratello”; ma un “Grande Fratello”, di genere nuovo, “super-autorale”, e questa volta moralmente irreprensibile. Su questo terreno però non mi inoltro e non mi addentro, perché potrei essere frainteso.
Gli Ultimi giorni dell’Umanità è talmente ricco di suggestioni e stratificato di “visioni”, che suscita nello spettatore una infinita serie di interrogativi.
Mi è sembrato giusto allora porne qualcuno al coautore del film, il regista siciliano Alessandro Gagliardo.
A Z: “Ogni momento è troppo presto troppo tardi”, ha scritto Enrico Ghezzi ne L’acquario di quello che manca. E pure al centro del vostro film, come idea costitutiva, mi pare ci sia il problema del Tempo e dei suoi “momenti”. Si rilancia la questione filosofica del Tempo, che anche qui non è dissociabile da quella dello Spazio: e entrambi, Tempo e Spazio, vengono intesi in termini sia “filmici” che “umani”, ossia come categorie che si commisurano alla nostra vita, persino a quella di tutti i giorni.
Ufficialmente, del Tempo adesso si occupano solo i fisici. Dello Spazio, la Nasa e pochi altri enti governativi e europei.
Tra le immagini indimenticabili de Gli ultimi giorni dell’Umanità ci sono sicuramente quelle che mostrano come in un filmino domestico qualunque, gli astronauti che migliaia e migliaia di chilometri sopra le nostre teste giocano con una bolla d’acqua incontrollabile, soggetta all’assenza di gravità, o quelle della capsula o modulo spaziale che scende scende cade precipita plana e non atterra mai sulla Terra, nonostante venga seguita per interminabili minuti, e che forse si va a schiantare con inaudita lentezza sul pianeta, come nel romanzo Noi di Zamjatin…
GAGLIARDO: Abbiamo avuto in regalo da una cineasta romena 300 ore di immagini girate nello spazio; quelle a cui ti riferisci sono le riprese fatte da un astronauta francese. Quando si vede la navicella spaziale che va verso chissà dove, verso il mistero, sentiamo un brano da Straub/Huillet: la voce di Demetra nei Dialoghi con Leucò che parla degli Uomini e dice, “Tutto quello che toccano diventa tempo. Diventa azione. Attesa e speranza. Anche il loro morire è qualcosa”. È molto bella questa visione dell’essere umano che trasforma in tempo e in esperienza qualsiasi cosa con cui si relaziona; per cui anche il morire è qualcosa, non è una caduta muta. Infine questo affaccendarsi degli Uomini forse ha un senso.
A Z: Questo ci introduce a un altro problema, che è in realtà lo stesso. Il film dura 196 minuti e ingloba sequenze a camera fissa, commentate solo da pochi effetti sonori, che sconfinano oltre i 9 minuti. Certamente uno dei concetti-chiave su cui Ghezzi – che è filosofo, nasce come filosofo – ha lavorato di più, anche in televisione, nelle notti infinite di “Fuori Orario” o di “Magnifica ossessione”, è quello della “Durata”. Pensiero bergsoniano e poi “esistenzialista” che finisce per collimare o collidere con quell’altro concetto inconcepibile che chiamiamo “morte”. Ne Gli ultimi giorni dell’Umanità dobbiamo fare i conti con la “durata delle immagini”, col Tempo della loro “permanenza” sullo schermo, ma l’ambito teorico è evidentemente lo stesso. Questo vostro film, se ne raccontiamo la ragion d’essere, non dovrebbe terminare mai. Quando è che invece avete deciso: “Qui, si taglia: Cut!”. E qual è il limite della Durata?
GAGLIARDO: Fino da subito Enrico ci ha “allenato” al concetto della Durata. A Napoli, dove siamo stati 4 mesi vedendoci ogni giorno dalle 7 e 30 alle 10 di sera, nella prima riunione collettiva dove arrivarono tutti quelli che lavoravano al film, c‘era una tensione nell’aria, perché alcuni di noi cercavano di stabilire quale fosse la “durata del film”. Un giorno Enrico – e le occasioni in cui lo faceva erano davvero rare – puntualizzò con decisione: “Io non sono qui per fare un film di 90 minuti, altrimenti non lo farei. Possiamo fare qualcosa che superi le 14 o 15 ore”.
Il riflesso di solito è quasi pavloviano: no, che noia, non è possibile. In questo rifiuto scontiamo nei fatti una forma preconcetta che complica la disponibilità di chi guarda e anche di chi crea.
Io sapevo perfettamente chi avevo davanti, una persona che stimavo, e ero sicuro che quello che ci diceva non era un “giochetto” fatto apposta per noi, per cui la questione non era di aprire una dialettica con lui ma di capire dove voleva portarci. Quindi per 6 mesi sviluppiamo l’ipotesi delle 14 o 15 ore, restando all’interno di questo “gioco”. Ma alla fine di questo periodo mi rendo conto che Enrico aveva determinato una cosa molto importante. Aveva completamente ampliato il “campo di gioco”: ci aveva tolto l’idea di “durata” e con ciò ci aveva permesso di esplorare in una maniera molto più libera tutti i materiali, perché altrimenti la “durata” sarebbe diventata una gabbia all’interno della quale dovevamo andare a sistemare un numero limitato di “pezzetti”, di frammenti.
Dopo la fase di Napoli uscì un primo montaggio, che si chiamava l’Enorme. L’Enorme in effetti durava 14 ore. Io mi sono sempre rifiutato di proiettarlo, e quando qualcuno me lo chiedeva, dicevo: guardatelo sul mio computer, che è sempre acceso. Per me era importantissimo evitare una visione “lineare” del film, che avrebbe tenuto lo spettatore bloccato, seduto su una poltrona, a vivere il trauma di un “obbligo”.
A Z: Che è successo poi all’Enorme?
GAGLIARDO: È molto bello l’epilogo di questa vicenda. Dopo Napoli ci siamo trasferiti in Toscana con Enrico per tre mesi e abbiamo lavorato lì, io lui e basta, su questo montato di 14 ore. Una vita monacale: con noi c’era solo l’assistente di Enrico. E riduciamo queste 14 ore a 6, e ce le proiettiamo poi a Roma, nel dicembre 2020. Enrico le vede e dice no, potrebbero essere anche 5. E il giorno dopo: potrebbero essere anche 4 o tre e 40. Era come se lui, dopo aver tolto la prima gabbia ne stesse mettendo un’altra. Allora gli faccio una promessa: “Io e te non parleremo mai più di durata. Non importa quanto dura il film, lo vedremo, solo quando saremo pronti”. Un giorno (siamo nel giugno 2021), dopo che non avevamo mai più affrontato l’argomento, abbiamo avuto entrambi la sensazione che il lavoro fosse finito. “C’è tutto”, mi dice Enrico. Quella notte la passo senza dormire e comincio a pensare: “ma se c’è tutto, che cos’è che manca? Ah: Ophuls!”, e provo a fare degli esperimenti l’indomani, con lui. Allora Enrico si alza e dà un pugno sul tavolo – molto gentile e delicato, ma un pugno. “Enrico ma che succede?” “Stai continuando a aggiungere cose!”. Quello era il segno che avevamo finito per davvero. La sera siamo tornati a casa sua. Senza che ci fossimo organizzati, Nennella ha portato una bottiglia e abbiamo fatto un brindisi al film. Soltanto io e Enrico sapevamo che avevamo finito, eppure, c’era qualcosa nell’aria. Una di quelle cose magiche che succedono una sola volta nella vita. Allora Enrico mi chiede: “Quali sono i numeri?”. Vuole sapere la durata. E io gli rispondo: “Non ci casco, non te lo dico!”.
A Z: A parte la discordanza di opinioni, anzi, proprio per quella, mi sembra molto bello che al principio della vostra impresa vi siate incontrati in 10 o anche in 12 per discutere per sei mesi di Cinema. È già in qualche modo la fluida foto-ricordo, shininghiana, che ipostatizza l’intera operazione de Gli Ultimi giorni dell’Umanità.
Tu hai sempre dato molta importanza alla dimensione “collettiva”, o comunque “plurale” che c’è dietro la creazione di un film: che, dici, è un’occasione di crescita anche dal punto di vista “umano”. Allora mi sembra evidente che per te e Enrico Ghezzi questa Umanità che è arrivata agli ultimi giorni non è la somma numerica degli esseri della nostra specie che vivono o sopravvivono sul pianeta, e che adesso sono minacciati da una catastrofe, ma proprio l’umanità degli Umani, ossia il “sentimento di solidarietà, di comprensione e di indulgenza verso gli altri Uomini”, come lo definisce la Treccani: il senso di condivisione della nostra condizione umana; il senso di “comunanza”, mutuo o muto soccorso di anime e di intelligenze. In quest’ottica il film di Enrico Ghezzi e tuo è prima ancora che apocalittico, anche e più “etico”. Una specie di imperativo categorico kantiano, disarticolato, reso in forma filmica e “narrativa” e privato d’ogni connotazione coercitiva.
GAGLIARDO: Io vengo da una formazione filosofica “selvaggia”. Io credo sia importante come si sta assieme, come ci si rispetta, come ci si ascolta. È fondamentale tentare di verificare costantemente se c’è la possibilità di un incontro umano in tutte le sue dimensioni.
C’è una frase bellissima di Claudio Torre, che è scomparso 9 anni fa, e che dice: “quello di cui non ci accorgiamo è che stiamo morendo insieme”.
L’Umanità è una qualità dell’essere umano. Da cosa è dettata? Lo dissi a Enrico una volta, arrivati a un certo punto della lavorazione: questa umanità probabilmente esiste quando si ha la capacità di provare dei sentimenti e nello stesso momento anche quando si ha la capacità di esprimere una libera volontà.
A ZZ: E lui che cosa ti ha risposto?
GAGLIARDO: Non mi ha contraddetto (ride).
A Z: Parlando di Cinema e di Sentimenti: mi sembra che ne Gli ultimi giorni dell’Umanità sia sistemato in posizione cruciale, in evidenza, come a sottolinearne l’importanza capitale, l’incontro che vide protagonisti Jean Marie Straub e Danièle Huillet all’Università di Torino. A parte le straordinarie considerazioni dei due cineasti su cosa significa leggere o vedere un film, nella parte finale un giovane studente siciliano chiede a Straub: quand’è che è scattata la scintilla? quand’è che lei ha capito che potevate cominciare un cammino insieme, con la signora Huillet? “Nel 54″, risponde lui, “io ero innamorato pazzo e lei si chiede ancora se è innamorata o no”. Il ragazzo insiste: vuole sapere cosa ha permesso questa “unione”. Straub gli replica: “Ma non c’è unione tra di noi, c’è grande divisione” – indugiando sull’ambiguità di questo ultimo termine. “Come?”, si accanisce l’intervistatore, e Straub allora risponde senza durezza ma con rassegnato sarcasmo: “Mah, non so: si chiama amore!”
GAGLIARDO: Io e Enrico abbiamo difeso molto questa parte dell’intervista. Alle prime visioni del premontaggio diversi amici, lo zoccolo duro degli straubisti, non riuscivano a capire perché non l’avessimo tagliata: a loro sembrava una caduta di stile questa domanda “sdolcinata” sui sentimenti. Io dicevo: ma come, è bellissimo che poi alla fine dica “si chiama amore”! L’abbiamo lasciata, proprio perché anche in quel caso decostruiva l’edificio se vuoi da sagrestia, da chiesa, che circonda e ingabbia certi monumenti del Cinema. Io non possiedo una cultura cinematografica sacrale, ho sempre avuto un approccio alle immagini più che al Cinema. e mi interessa anche far vedere le caratteristiche umane di questi due personaggi, che sono due lottatori, che sono due combattenti, e allora ho proposto a Enrico una lunghissima dissolvenza su Straub perché quello è un capitolo della storia del Cinema che si è chiuso con loro, e il nostro desiderio, la nostra volontà era segnarlo.
A Z: A proposito dell’approccio “sacrale”: in questa costruzione, mi ha colpito l’assoluta coerenza con la quale i filmini famigliari defluivano accanto o dentro i frammenti di film che hanno fatto la storia del Cinema. I 600 film che dovevate assolutamente citare, perché quelli i cinefili si aspettavano da Ghezzi, non sono agitati come santini per riscuotere l’approvazione generale dei Fedeli, ma trascinati nello stesso flusso e invitati a “parlarci” anche adesso, da pari a pari con le nostre “visioni” più intime e personali.
GAGLIARDO: Nella mia personalissima idea questi film “classici” possono continuare a parlarci solo nel momento in cui tu li “liberi” dall’edificio che li imprigiona. Al tempo stesso dobbiamo preservare la stima che meritano. Non dobbiamo prendere un’immagine da loro e avviare su di essa un “processo di piega”, piegandola al costrutto che vogliamo imporre. Dobbiamo liberarla, ma lasciandola nella sua materialità. Un uomo che corre è un uomo che corre, un uomo che piange è un uomo che piange, un uomo che non vede più è un uomo che non vede più, un bambino che sta giocando è un bambino che sta giocando. Le immagini dimostrano esattamente quello che hanno catturato, quello che sono.
Enrico Ghezzi e Nennella Buonaiuto ci hanno consegnato il loro archivio e ci hanno messo davanti questo patrimonio di immagini. Ci hanno fatto riflettere sulla loro importanza. Nel mio approccio, un po’ selvaggio, ho cercato sempre delle manifestazioni “umane” dentro queste immagini. Quando ne ero colpito, ho cercato di proporle nel film e a Enrico, seguendo nel loro montaggio una regola che non era di appropriazione, e neppure di confutazione, ma un principio di “liberazione” di queste immagini all’interno di una nuova scrittura.
A Z: Nel vostro progetto mi ha assolutamente convinto la scelta di presentare ogni materiale non nascondendo mai la fonte “visiva”, ma dichiarandola. Il che significa collazionare e tenere insieme in un unico tessuto i formati video-fotografici più eterogenei. Lo schermo panoramico del grande Cinema continuamente si rimpicciolisce, e dopo il digitale odierno, pieno di luce, si alternano riprese che provengono da ombrosi filmini domestici, beta o u-matic preistorici, video-otto riversati, con la messa a fuoco ritardata e manuale, e poi il “girato” in vhs, spuntinato, con la strisciolina che sfrigola sotto e scintilla. Si va a fisarmonica avanti e indietro. I puristi potrebbero dire: potevate scegliere un taglio delle inquadrature e dare uniformità al tutto, ma sarebbe stato sbagliato, perché così hai proprio l’impressione della cattura, nello Spazio e nel Tempo, di queste schegge di immagini, frantumazioni di specchio o di lente di telescopio spaziale che non sono e non possono essere tutte uguali.
GAGLIARDO: Questo fa parte di una delle tante fortune che abbiamo avuto. A Napoli abbiamo incontrato Renato Berta, che è il più grande direttore della fotografia vivente, sul set di Martone. Con Enrico avevamo lavorato fino allora su un telaio uniformato che era un quadrato; se vuoi, per comodità, per andare avanti nel montaggio non ci eravamo proprio posti la questione dei formati. Mi è venuta l’idea di coinvolgere Berta per traghettare le nostre immagini dentro il film in una maniera delicata e rispettosa. Gli ho proposto di dare un’occhiata a quanto avevamo fatto, e lui ha accettato. Alla fine della proiezione si è alzato e se ne è andato. Penso: c…, è andata male. Invece Renato torna e dice: scusami mi ero commosso. Aveva recepito immediatamente la potenza del film. Poi lo rivide più volte, pose questioni importantissime sulla lettura del film e sul senso dell’operazione che gli proponevamo e un giorno mi disse: “Alessandro, dobbiamo liberare i formati, dobbiamo far vedere che è uno diverso dall’altro, a fisarmonica, continuamente”
[Renato Berta, che è stato direttore della fotografia per Godard, Straub/Huillet, Malle, e di tutta la Nouvelle Vague svizzera, ecc., verrà intervistato prossimamente su questo sito]
A Z: Parlaci, se puoi, se vuoi, del secondo film che avete intenzione di realizzare insieme, tu e Enrico Ghezzi.
GAGLIARDO: Non solo io e Enrico, ma anche Gabriele Monaco, produttore de Gli ultimi giorni dell’Umanità, e tutte quelle altre persone che bisognerebbe assolutamente citare per la loro protezione, gioia, fantasia, coraggio, amicizia. Da due mesi siamo in piena farneticazione. Abbiamo preso come punto di riferimento una frase di Straub. Quando cita Cézanne, che ha impiegato venti anni a completare la sua serie di immagini del Monte Sainte-Victoire, e alla fine ha detto: “Guardate questa montagna. Una volta era fuoco”. È diventata un’indicazione della strada da seguire nella ricerca. L’immagine che “una volta era fuoco” o “a fuoco” è ancora ricca di creazioni e di significati.
C’è un fondo di archivio di Enrico, che non è stato mai utilizzato. Durante i due mesi di prova prima della messa in scena di Infinities, Ghezzi ha avuto la genialata di far attaccare un microfono a Luca Ronconi. Esiste un audio meraviglioso (stiamo parlando di più di cento ore di registrazioni) nel quale Ronconi dirige le prove con una voce che pare provenga dall’oltrespazio.
Poi vogliamo dare luogo a un’altra campagna di acquisizione di nuovi archivi e ingaggiare nuove relazioni con altri soggetti. Come ha detto Enrico, noi in un certo senso siamo “vertoviani”, ci avviciniamo alla visione della ripresa e del montaggio di Vertov. Dobbiamo creare uno spazio di costruzione filmica all’interno del quale l’uomo vertoviano che è Enrico si possa incontrare con altri esseri umani vertoviani, che ci raccontino altre storie, anche famigliari. Stiamo ragionando, per questo nuovo film, su un rilancio: una durata di 20 ore. Sarà un altro film-palinsesto, che è anche l’unico modo per definire Gli Ultimi giorni dell’Umanità. Non è un documentario, né un film sperimentale, appartiene al genere “palinsesto”. Questo è il modo di precedere tipico di Enrico Ghezzi. La “rottura del palinsesto” (con La Magnifica Ossessione, Fuori orario, Blob) secondo me è la cosa più interessante e in assoluto più rivoluzionaria di Enrico: leggere il palinsesto come una tessitura nella quale si possono inserire determinati strappi.
A Z: Il tuo incontro con Enrico risale a 5 anni fa, e mi sembra che nel frattempo siano cambiate molte cose, anche per il suo stato di salute. Vedo lo sforzo che fa, adesso, per articolare poche parole. Per fortuna è circondato dall’affetto della famiglia, e “vive in simbiosi” con un eccezionale e devoto assistente, Lucian Bancila. Ma per quanto riguarda la vostra collaborazione, ci dev’essere evidentemente una grande sintonia tra voi se riuscite in queste condizioni ancora a pensare a nuovi progetti. Che forma di comunicazione riesci a istaurare con lui, che non sia solo telepatia?
GAGLIARDO: Anche prima di adesso, certe volte con Enrico abbiamo passato 5 ore in silenzio, 4 ore in silenzio, al giorno. Pochissime parole. Quando ti relazioni con la storia di una persona, e di altre persone, che sono la sua famiglia, c’è bisogno di una delicatezza che fa parte di un atteggiamento antipredatorio, che non vuole appropriarsi di niente. Per questo dico che ci vuole Umanità, la capacità di provare sentimenti e nello stesso momento di non essere soggiogato da vicende che tu non hai vissuto.
Sono stato e sono attento a ogni suo sibilo, perché in quei sibili c’è sempre una logica. E poi lui comunica anche con le espressioni facciali.
Abbiamo montato due ore di una notte di Fuori Orario che è andata in onda il 13 maggio. Io avevo dei dubbi e gli ho chiesto: Enrico secondo te questa è una fase della ricerca che dobbiamo rendere pubblica? E lui mi ha risposto: “No”. Gli ho girato il mio dubbio non per avere un’opinione, ma cercando da lui un’indicazione netta.
Più recentemente gli ho chiesto: “Enrico, pensi che valga la pena continuare a mettere fiato su questa faccenda della venti ore di “Una Volta era a fuoco?” – La sua risposta è stata: “si, sicuramente”.
Quando stiamo lavorando con Enrico e lui nota qualche cosa di complesso, di non fluido, o che non lo convince, spesso si agita. Allora faccio appello a tutto il bagaglio delle cose che ci siamo detti nel tempo e seziono ogni singola cosa che stiamo vedendo o che ci stiamo dicendo. Provo a stanare le debolezze possibili del ragionamento o del montaggio per trovare il punto. Ci penso e pongo delle domande che hanno in sé, che hanno già elaborato, il possibile errore o soluzione, e allora basta confermarsi il dubbio o la traiettoria. Abbiamo allenato insieme questa capacità basata principalmente sull’ascolto e l’attesa ma anche sulla destrutturazione del discorso, o della dialettica, per lasciarlo libero, diretto e privo di clamori o urgenze. Enrico mi ha risposto a certe mie domande dopo quattro giorni. Così è nato per esempio il titolo del film Gli Ultimi giorni dell’Umanità.
Enrico non ha mai rinunciato un momento a essere Enrico. È una forza difficilissima da trovare in altre persone. Nella sua forma attuale di comunicazione ci sono dei passaggi di un’ironia, di una capacità di ribaltamento delle situazioni, di acutezza e intelligenza, che potresti non aspettarti, e che per fortuna invece sono lampanti. Però bisogna creare le condizioni, per innescare quel gioco-lavoro di cui lui ha sempre parlato e che per noi che ci sentiamo di appartenere a questa Scuola Indisciplinata è un invito a nozze. Abbiamo ancora molto da esplorare, a partire dalla sua “logica del palinsesto” di cui parlavamo prima, che non ha molti eguali nel resto del mondo, che è lo “specifico” di Enrico Ghezzi: una visione filosofica dell’immagine (filmica o no) innestata all’interno del vissuto.
Gli ultimi giorni dell’Umanità non è una specie di testamento; ma, come direbbe Enrico, dato che un “film è il trailer di una vita”, è anche il trailer di quello che, da questo film, verrà fuori in futuro.