Der Einkommenden Zeitungen, il primo “quotidiano” come lo intendiamo noi moderni, con i suoi bollettini e le sue “rubriche”, debuttò a Lipsia il 1° luglio 1650. L’editore si chiamava Timotheus Ritzsch.
I- È opinione dei più che il giornalismo venne fondato dal romano Giulio Cesare, non come scrittore dallo stile asciutto, ma come autorità governativa committente. Durante il suo consolato, nell’anno 59 prima dell’Era Volgare, Cesare stabilì che a beneficio del popolo venissero pubblicati gli “Acta Diurna”: resoconti scritti di quanto di memorabile accadeva quotidianamente a Roma. Nulla purtroppo ci è pervenuto di queste cronache, diventate poi verbali a uso e consumo solo dei potenti, e stilati almeno fino al 330.
Le date però diventano più incerte, se si tiene conto, prima ancora che dell’importanza e dello sviluppo dei “mezzi” di comunicazione, del fatto che il giornalismo è una predisposizione dello spirito, e il giornalista stesso altro non è che un’ancestrale “maschera umana”. Quella “Giornalistica” è una visione del Mondo. Una visione, sia pure, “periferica”. È un’invenzione, un modo, una misura particolare d’approcciare e raccontare le vicende umane che poco ha a che fare con la “Verità Storica”. Non si può dubitare allora che l’atto di nascita del fenomeno vada retrodato, probabilmente di millenni.
II- Non ha neppure senso separare il “giornalismo autentico” dal Sensazionalismo. Quello che “fa davvero notizia” è quello che si sa per la prima volta, quello che non è mai accaduto prima, quel che fa più “clamore”. Lo “Scoop” consiste non solo nel fare emergere fatti eclatanti e sconosciuti, ma anche nel far parlare qualcuno che non ha mai detto niente a nessuno o intervistare quelli che l’opinione pubblica immagina in possesso di chissà quali segreti, anche intimi, anche amorosi. Non importa se quanto si apprende poi dall’intervista abbia molto meno valore e significato del silenzio che l’ha preceduta.
Legge perenne dell’editoria periodica è quella stabilita una volta per tutte da Gordon Bennet, reporter americano: “un uomo morso dal cane non é notizia, ma un cane morso da un uomo sì”.
“Renna spara ad un uomo”, si intitola un ritaglio di quotidiano, gelosamente conservato nei suoi diari da Elias Canetti. Un titolo che è il sogno d’ogni giornalista cresciuto nel culto della notizia a sensazione. “Una renna di nome Rudolf, che tirava la slitta di tre cacciatori”, spiega il testo, “ha sparato alle gambe di uno di loro. Rudolf si è impigliato le corna in un fucile e così ha premuto il grilletto”. Rudolph, per la precisione, è anche il cervide attualmente più famoso tra quelli, volanti, che trasportano Babbo Natale. Il che rincara la dose.
Canetti legge in cronache come queste – rare, se si vuole – i sintomi, le avvisaglie delle prime ribellioni delle bestie contro l’Umanità che le schiavizza, oppure le uccide e le estingue infettando la Natura. E commenta, speranzoso: “quando tutti gli animali impareranno a sparare?”.
Sinceramente non vorrei che nessuno sparasse, né dall’una né dall’altra parte. C’è da rabbrividire quando si apprende, grazie alla stampa, ai media, ai giornalisti, che negli Stati Uniti le armi da fuoco eccedono il numero degli abitanti: gli americani-medi, non i criminali, hanno in casa, o dietro, in macchina, sotto l’ascella o nei pantaloni, almeno 400 milioni di bocche da fuoco, tutte cariche e pronte all’uso.
Poi non c’è da stupirsi, solo da raccapricciarsi, se un bambino di due anni spara e uccide la madre con quel “giocattolo assassino” che trova sopra un cassetto.
III- Lo “Scoop” più fantastico di cui io abbia notizia, è un’Intervista Impossibile, ma vera. È antica di una ventina di secoli. L’ha trascritta il cronista Filostrato.
Apollonio di Tiana, giunto nei pressi di Ilio, trova la tomba di Achille e ivi incontra l’Eroe, che, come Spettro, infesta ancora la Troade, mostrandosi agli abitanti “con terribile aspetto”.
Come se avesse altro, di più importante, da fare, Achille frettolosamente concede al Sapiente solo cinque domande.
Noi, amiamo credere che quando i morti si svegliano dal loro sonno senza fine, a loro vada chiesto il senso della vita, della morte, dell’Aldilà, i costumi dell’Inferno, del Paradiso, se Dio si mostra a loro, il Giudizio Universale, ecc. ecc: insomma che sia quella un’occasione irripetibile per avere accesso alla Verità, e ottenere un responso definitivo ai Grandi Quesiti della Storia, l’Universo, e tutto quanto.
Apollonio invece, chiede ad Achille: 1, se “ottenne sepoltura”; 2, se “Polissena fosse stata uccisa sulla sua tomba”; 3, se “Elena venne a Troia, oppure fu Omero a inventare questa storia”; 4, se davvero la Grecia abbia prodotto ai suoi tempi una generazione di Eroi come quella cantata da Omero; 5, per quale motivo Omero ignora o tace che Palamede combatté e morì alle porte di Troia.
Da quest’ultima domanda, il grande aedo cieco esce a pezzi. Infatti di Palamede, l’inventore della scrittura – quindi l’Eroe a cui lui, Omero!, deve tutto, arte, fama e memoria – non c’è traccia nell’Iliade, non c’è ombra nell’Odissea. Forse il poeta ne omise il nome per invidia, forse non ne scrisse per proteggere la fama di Odisseo, che aveva fatto in modo che Palamede morisse. Quest’ultima è, appunto, la documentata opinione di Achille. Così, per nascondere un misfatto di Ulisse, Omero ci ha privato del ritratto di un fondatore della nostra Civiltà.
Il dialogo di Apollonio con l’orrido spettro dell’Eroe iracondo, è un’intervista “giornalisticamente” perfetta, se fosse stata carpita a un testimonio reduce, di fresco, dall’Impresa di Troia. Ma a uno che è cadavere da più di dodici secoli, sia pur tornato in vita? Son queste le Grandi Domande che vanno formulate?
Dal punto di vista “sensazionalistico”, ce n’è però una che si salva, che ha una valenza, anche attuale. La risposta alla terza domanda dell’intervista, è quella più interessante, per il pubblico d’oggi come quello d’allora (I secolo era volgare), perché gli adulti, uomini e donne, che acquistano i giornali, pretendono, bramano notizie “piccanti”. Specie se riguardano i Divi. E la Diva più iconica e ammirata dell’Antichità fu sicuramente la bellissima e concupitissima Elena, nata da Zeus.
A questo punto Apollonio ottiene il vero “scoop”: roba da bloccare le rotative (ce ne fossero state), smontare la prima pagina, mandare subito in strada sciami di strilloni.
Achille, testimone diretto e quindi inconfutabile, spiega al filosofo-giornalista che Elena di Troia non è mai stata “di Troia”.
La guerra immortalata da Omero fu scatenata da un abbaglio. I Greci combatterono per restituire Elena al legittimo consorte, Menelao, ma l’avvenente dama non si trovava affatto – né consenziente, né dissenziente – nella rocca di Ilio. Mentre gli Eroi, e i guerrieri più valorosi d’ambo le parti, cadevano in suo nome uno sull’altro, falciati dalla Moira e dall’orribile “morte di porpora”, Elena invece, di tutto ignara, era in Egitto, trattenuta presso Proteo, vecchio semidio marino.
Già Euripide aveva detto che Elena cioè giunse, sì, a Troia, ma come simulacro, ossia in forma di “Nuvoletta”. Ma sembrava l’invenzione di un poeta. Un modo garbato per evitare che si desse del cocu a Menelao. Erodoto accennò alla stessa storia, ma pareva una favola. Invece questo tragico equivoco viene confermato senza possibilità di smentite dallo Spettro di Achille: “Restammo ingannati” – ammette il morto, intervistato da Apollonio – però “dopo che il fatto si venne a sapere, continuammo a combattere per conquistare Troia stessa, al fine di non ritornare disonorati”. Lui certo non fu disonorato, ma non tornò nemmeno indietro, assassinato proprio da quello scapestrato Paride, che secondo Euripide doveva avere, allora, la testa tra le Nuvole.
Alla luce di queste rivelazioni giornalistiche, diventa davvero incomprensibile il comportamento del re di Troia Priamo, e di suo figlio, il presunto “rapitore”, che durante la guerra decennale che li condannava alla rovina, non smentirono mai la presenza di Elena in città, Lo fecero, anche loro – come Achille e i suoi commilitoni – per non rimanere svergognati? Oppure Paride nascose ai Greci e ai compatrioti che non era riuscito a mantenere presso di sé quella bellezza favolosa, e che era stato abbandonato, forse, dopo una notte sola? Certo il principe troiano non volle dar adito a pettegolezzi, per evitare che la sua disfatta di amatore – invece che occultata nei Poemi che danno lustro all’Umanità – finisse nelle stornellate da taverna.
IV- Benché mi consideri un giornalista non pentito, ma dissociato, mi è capitato anche d’essere invitato a tenere qualche “lezione” sul Giornalismo.
In quei casi, ho provato a riassumere brevemente quanto mi hanno insegnato i miei Maestri. Quelli con i quali ho lavorato per anni: Enzo Biagi, su tutti, ma anche Sergio Zavoli e Piero Angela. Da loro non ho appreso solo la deontologia del mestiere (per cui, è sempre essenziale “verificare le fonti”), ma anche alcune altre regole basilari, valide sia nell’epoca analogica e atomica, che in quella digitale; sia per la tv o la radiofonia, sia per la carta stampata o l’on line. Per esempio: “pensare in grande”, “alzare l’asticella” – e: “disturbare il manovratore”, senza timori o autocensure.
Oppure, se fai un’inchiesta, e hai delle scadenze da rispettare, devi sapere che “il meglio è nemico del bene”. Non inseguire lo scoop a ogni costo, quando rischi di perdere tutto. Però, anche se stai vincendo, tieni sempre in serbo il colpo del KO, pensaci, non dimenticartelo al momento opportuno.
Quello che soprattutto Biagi mi ha insegnato (sono stato suo collaboratore per dieci anni, per rubriche in prima e in seconda serata) è: come vanno lette le fonti, agenzie-internet-giornali di provincia-quotidiani nazionali. Vanno letti con un evidenziatore. E fuori da ogni routine. Ci sono sempre storie, personaggi, evocati solo di sfuggita, che invece meritano un’inchiesta, un’intervista. Che rivelano tendenze, delle quali devi essere pronto a carpire lo sviluppo e gli indirizzi. Il giornalista migliore è sempre quello che ha il migliore “indirizzario”, la rubrica più fornita (dal che si deduce la tragedia che è stata, per tutti noi, la scomparsa degli elenchi del telefono).
Ma soprattutto ritengo fondamentale questa regola: non potrai mai capire cosa può veramente interessare la gente, se non capisci cosa interessa a te. Tu devi essere il tuo primo lettore. Non propinare mai agli altri quello che tu non vorresti mai leggere o sentire, o quello a cui ti avvicineresti con noia. Questo è il segreto per “appassionarsi” al mestiere.
Non bisogna mai darsi per vinti, o pensare: il tizio, la caia, non mi darà mai un’intervista, non mi permetteranno mai di avvicinarli. Senza trasformarsi in stalker, bisogna comunque provarci. Anche davanti ai rifiuti, non si deve far marcia indietro. Non bisogna mai prenderli come offese (se non lo sono).
C’è un “servizio” di Buzzati, un racconto “vero”, che dimostra quanto la Fantasia possa essere utile in certi frangenti; insieme all’esperienza, certamente. Buzzati è stato un grandissimo giornalista, come lo furono anche Hemingway e Garcia Marquez, tra gli scrittori, e Fellini, Dreyer e Billy Wilder, tra i cineasti. Una volta, mentre seguiva la sua inchiesta sui “Misteri d’Italia”, volle incontrare una prodigiosa veggente e guaritrice, della quale gli aveva parlato Fellini. La donna era famosa soprattutto per questo: al tempo in cui gli strumenti di diagnostica erano tecnologicamente arretrati o troppo costosi, riusciva a diagnosticare esattamente l’origine dei mali dei suoi pazienti. Come se, solo osservandoli, parlando, e concentrandosi su di loro, li sottoponesse a tac e raggi x in tutto il corpo.
La sensitiva si rifiutò di farsi intervistare. Buzzati allora le propose di permettergli di assistere a una delle sue sedute, durante le quali riceveva persone che accusavano ogni tipo di malanni. La donna non accettò. Bisognava “portare a casa” il servizio, e lo scrittore, seduta stante improvvisò e trovò la soluzione.
“Allora visitatemi”, disse. “Ho anch’io i miei problemi di salute”.
Certe volte, per il bene del pezzo, bisogna dimenticarsi d’essere solo testimoni neutrali, bisogna mettersi in gioco in prima persona.