I- Guy de Maupassant fu protagonista d’uno “scambio di persona” che si rivelò irrimediabilmente tragico, e non solo per lui. A 39 anni, si fece promotore dell’internamento del fratello, Hervé, a cui tese una trappola: lo condusse a Lione in una clinica specializzata in malattie nervose spacciando quella visita per una simpatica passeggiata nei giardini di una villa. Poi consegnò il fratello ignaro agli infermieri, che lo agguantarono, all’improvviso.
Hervé, mentre la porta d’ acciaio della sua cella si chiudeva inesorabilmente e per sempre, gli urlò contro: “Guy!…Miserabile! Mi fai rinchiudere in manicomio!… Ma il pazzo sei tu, mi ascolti? Sei tu il pazzo della famiglia!”.
Non aveva affatto torto, il poveretto, come si sarebbe inoppugnabilmente dimostrato di lì a poco.
Hervé morì dopo quattro mesi di manicomio, mentre la ragione dello scrittore già da tempo aveva cominciato a smarrirsi e a vacillare, giorno dopo giorno.
A questo suo crescendo di inarrestabile follia, Alberto Savinio ha dedicato molte pagine memorabili, in uno “studio” esemplare, intitolato Maupassant e l’Altro.
Tratti da queste, menziono qui solo gli episodi che mi appaiono, insieme, più vistosi, e più penosi.
Apprendiamo per esempio che il grande novelliere negli ultimi anni “oscurati dalla pazzia, si sentiva pieno di gioielli, e non voleva andar di corpo per non perderli”.
Oppure che, come il protagonista di un celebre racconto di H. G. Wells, era convinto d’esser dotato di “vista telescopica”. Senza spostarsi dalla propria camera descriveva “paesaggi bellissimi della Russia e dell’Africa”, e affermava di osservarli in quel momento.
Coltivava anche progetti faraonici in campo sociale, come una Riforma generale, al tempo stesso igienica e architettonica, dei Cimiteri del futuro. Motivo per cui scrive, lo ricorda Savinio, “a Leone XIII, suggerendogli la costruzione di tombe di lusso entro le quali una corrente di acqua ora calda ora fredda laverà e conserverà i corpi. Una finestrella aperta al sommo del mausoleo consentirà di conversare col defunto”.
Maupassant ostentò sempre un certo disprezzo per il matrimonio. Non si sposò mai, non ebbe figli. Preferiva frequentare meretrici, e da loro contrasse la sifilide, malattia che tracimò nella follia. Forse però, in extremis, sentì la mancanza d’una famiglia. Già internato nella casa di cura in cui a soli 42 anni avrebbe trovato la morte, interrò nel giardino un arboscello, e confidò a chi l’accompagnava: “Piantiamo questo ramicello, e l’anno prossimo troveremo tanti piccoli Maupassant”.
II- Una notte del 1892, lo scrittore, solo, nella sua stanza, si spara alla testa. La detonazione rimbomba nella casa.
Il suo fedele servitore Trassart apre precipitosamente la porta.
Maupassant è in piedi, davanti al proprio letto, e sembra raggiare di felicità.
«”Sono invulnerabile!” grida Maupassant, e nella sua voce trapela la profonda gioia di uno che scopre d’un tratto che è immortale. “Mi sono tirato poco fa un colpo di rivoltella alla tempia, e sono incolume. Non ci credi? Tò, guarda!”. Maupassant poggia novamente la canna alla tempia e preme il grilletto: detonazione da rovesciare i muri, ma l’immortale Maupassant continua a starsene ritto davanti al letto e sorridente».
La storia non finisce qui. Fiducioso nella propria invulnerabilità, lo scrittore afferra allora un tagliacarte affilato come un pugnale e sghignazzando, prima che il servo Trassart possa fermarlo, si infligge un terribile colpo alla gola: “ma l’esperimento lo smentisce”, dice Savinio, e “il sangue schizza fuori a getto”. Ci volle poi la forza erculea di due marinai per acciuffare il suicida deluso e consegnarlo a un chirurgo, che riuscì suturare la ferita appena in tempo.
L’ episodio non nasconde misteri o miracoli: il fedele Trassart, presentendo il peggio, aveva caricato a salve la pistola di Maupassant. Il maggiordomo non aveva però considerato che, pur essendo pazzo, lo scrittore aveva mantenuto una certa Logica, un certo raziocinio, e aveva indotto dalla sua ignoranza di quell’artificio pietoso la propria immortalità: un “dono” che chiunque di noi, al posto suo, avrebbe subito messo alla prova.
Non trascurerei però neanche un’altra chiave di lettura del suo gesto, che potrebbe rivelarci qualcosa di più sulle “normali” motivazioni che spingono uomini e donne a uccidersi. Non è escluso che l’aspirante suicida giunga al passo supremo per collaudare, o – in alternativa – per mettere a repentaglio la propria Immortalità. Stadio vitale che può essere considerato, in certe occasioni, troppo tedioso e anche umanamente insopportabile.
III- A questa serie di prodezze pazzoidi, ci si può pure rassegnare, assuefare. Il matto certe volte si rintana in un cantuccio e aspetta più o meno serenamente di perdere anche l’ultimo barlume di Ragione. Diverso è quando la follia sfocia nell’Orrore. E l’Orrore entrò nella vita di Maupassant per esperienza diretta, personale.
Una sera del 1889 – ricorda Savinio – «mentre sta seduto al suo tavolo di lavoro, Maupassant sente aprirsi l’uscio dello studio. Come mai? Francesco Trassart, il cameriere “fedele” ha ordine di non lasciar entrare nessuno mentre il padrone lavora. Maupassant si volta e vede la sua propria persona entrare nello studio, la vede venire a sedersi al tavolo di fronte a lui, poggiare la testa alla mano e mettersi a dettare quello che lui scrive».
Da quel momento il suo “alter ego” – presenza niente affatto benevola – non smise mai di interferire con la sua produzione letteraria. Il racconto fantastico Qui Sait?, spendido e misterioso, appartiene a quel periodo.
Il suo Doppio, che egli presto e sinteticamente chiamò “il diavolo”, dapprima alloggiò chez lui: non era raro che Guy, rincasando, lo trovasse tranquillamente “seduto sul suo divano”. Poi si istallò direttamente dentro di lui, infiltrandosi nella sua mente nei momenti più bizzarri, inattesi, e guarda caso, nei pochi suoi momenti di vita sociale, mondana. A capodanno, davanti a amici e parenti, Maupassant raccontò un aneddoto che doveva secondo lui interessare e conquistare il pubblico ma, commentandolo, disse «”È uno degli avvenimenti più importanti della mia vita, ma non mi riuscì inaspettato, perché fui avvertito da una pillola“». Una pillola! Avrebbe subito potuto, Maupassant, correggere il lapsus, farne motivo di riso comune: invece no, “chinò la testa sul piatto e il pasto continuò a stento, in silenzio”. Era il suo Doppio che lo irrideva, lo corrodeva dall’interno, come un tarlo.
La totale capitolazione di fronte all’Altro, di fronte al proprio “Sosia” allucinatorio, avvenne per lo scrittore il 18 febbraio 1893. Quel giorno, in manicomio, annunciò solennemente: “Maupassant è morto”. Cessò per lui, per quel poco di Vita che ancora gli restava (meno di cinque mesi), ogni Duplicità, ogni Ambiguità. Prevalse, tra i suoi due Io, il Doppio che genera Terrore. Il Doppio che decretò la fortuna letteraria di E. T. A. Hoffmann e Edgar Allan Poe.
La vicenda personale di Maupassant è prodiga di tesori e scoperte per chi intenda indagare le imprese dei Doppi. Probabilmente tutti (o quasi), noi Uomini moderni nutriamo, senza averne sentore, “intelligenze parassite” che ci vivono a fianco finché una crepa della nostra coscienza consente loro di entrare nel nostro mondo senza impedimenti. Per questo, il Doppio quando ci visita arriva come uno di casa; non è detto per niente che si annunci con scricchiolii e presagi sinistri.
Un’ultima considerazione: il tema dello Sdoppiamento della Personalità – o “Condition Seconde” nella felice terminologia di Breuer, che ha ispirato grandi opere in prosa (dalle Confessioni di Hogg, al Sosia di Dostoevskij, al Jekyll di Stevenson, a La vita privata di Henry James, a Freud, fino allo Studente di Praga di Ewers), sembra oggi caduto in disgrazia, in letteratura, come in filosofia. Il motivo è semplice: da molto tempo, è in disgrazia l’Uno. Per essere perseguitati da un duplicato bisogna esser sicuri che ci sia un Originale. Le povere anime attuali pare non si possano permettere né l’uno né l’altro.
[in copertina: Vincent Van Gogh, Natura morta con statuetta di gesso, una rosa, e due romanzi, tra i quali “Bel Ami” di Guy de Maupassant]