I- Il 15 luglio 1940 morì ventiduenne, a Manistee, negli Stati Uniti, Robert Pershing Wadlow, l’Uomo più alto d’ogni tempo. Misurava 2 metri e 72. Era smilzo, ben proporzionato, ma pesava 200 chilogrammi. Solo per fare qualche confronto: Sultan Kösen, il più alto tra i nostri contemporanei, è stato fermato dai chirurghi a quota 2 e 51; Suleiman Ali Nashnush, ciclopico giocatore di basket egiziano, morto nel 1991, era alto 2,45; e i cestisti che detengono il record di altezza tra tutti quelli che hanno militato nella NBA americana non hanno mai superato i 2 e 31.
Naturalmente Robert Pershing Wadlow non finì solo nel Guinness dei Primati, ma anche nel circo dei fratelli Ringling, come freak.
A tre anni era già alto un metro e 50, pesava 40 chili. A nove, sfiorava l’1 e 90 di statura, e portava in braccio suo padre, seduto su una sedia, su per le scale di casa fino al secondo piano. Il suo sviluppo impressionante era dovuto purtroppo a una malattia congenita: l’iperplasia della ghiandola pituitaria, che i medici gli avevano già diagnosticato nella più tenera età.
Cresceva di 10 centimetri l’anno e chissà dove sarebbe arrivato, se non l’avesse ucciso un’infezione, una specie di cancrena alla caviglia che non aveva nulla a che vedere col suo male.
Le sue scarpe, numero 78, sono finite in un museo.
La fortuna di Wadlow, se può dirsi tale, è stata quella di nascere nel 1928 nella (abbastanza) civilizzata provincia americana. Fosse nato appena un secolo prima, la sua tomba – che tutti possono visitare a Alton, nell’Illinois – con tutta probabilità sarebbe vuota. Clinici e chirurghi del Sette e dell’Ottocento facevano infatti a gara per accaparrarsi i resti mortali dei Giganti, per sezionarli con calma nei loro gabinetti e carpire il segreto della loro crescita straordinaria. Di questi medici parlo nella Fantaenciclopedia; li ho soprannominati: “gli Achab dei Cadaveri”.
II- Il corpo abnorme di Cornelius McGrath, altissimo irlandese, fu rubato come per ischerzo durante la veglia funebre da tre studenti di medicina. Quando gli insegnanti dei ragazzi vennero a saperlo, imposero che fosse loro consegnato, e – invece di restituirlo ai parenti – lo fecero a pezzi, senza scrupoli.
Un altro “gigante d’Irlanda”, Patrick Cotter – debole e malfermo, come tutti gli uomini di statura troppo elevata –, paventando la stessa fine di McGrath, per testamento dispose d’esser “seppellito in una bara di piombo in una fossa scavata a tre metri e mezzo di profondità nella solida roccia”. La tomba, narra Leslie Fiedler in Freaks, doveva essere “protetta da sbarre di ferro e da un solido arco di mattoni”. Precauzioni, queste, che non sempre servivano allo scopo.
Il mastodontico James Byrne, contadino, alcolizzato, morì a ventidue anni, esattamente come Wadlow. Mentre agonizzava, la sua casa era assediata da becchini improvvisati, anatomisti già in carriera e ciarlatani che agognavano le sue spoglie. Tra loro c’era persino un noto sessuologo, voglioso di reperti. Il più spietato di questi “cacciatori” di cadaveri era sicuramente il dottor John Hunter (1728-1793), un’autorità in campo clinico, considerato già all’epoca “il padre della chirurgia britannica”.
Hunter assisteva come un necroforo frustrato a tutte le esibizioni “dal vivo” di James Byrne. Per sfuggirgli, il gigante – che era etilista sì, ma sufficientemente furbo –, aveva dettato nelle sue ultime volontà un piano perfetto. Appena morto, i suoi amici più fedeli dovevano introdurlo in una bara di piombo e sigillarlo lì dentro. Quindi dovevano condurre il feretro col corpaccione su una barca, a largo, e scaricarlo dove il mare era più profondo. Le sue ultime volontà circolarono però prima del decesso. Si seppe, addirittura, che gli studenti di medicina del luogo stavano “preparando una campana subacquea” per recuperarlo.
Ma non ce ne fu bisogno. Come un diabolico Achab, John Hunter arpionò il “mostro” del quale, da anni, pregustava l’autopsia. Il celebre chirurgo, racconta ancora Fiedler, “subornò i connazionali di Byrne, i quali immersero la bara con dentro soltanto i vestiti del gigante e portarono il suo corpo nudo nel laboratorio del dottore. Nel giro di pochi minuti, Hunter lo tagliò a pezzi staccando la carne dalle ossa e facendole bollire nella sua famigerata marmitta”. Marmitta e ossa sono ancora esposti in un museo.
III- Con il nazismo, l’ipertrofia muscolare e il gigantismo ottennero il loro trionfo. Il führer – se ne disgusta Kraus – si circondò “di una scorta composta di tipi alti un metro e novantacinque”, mentre i giornali si riempirono di foto di svettanti ragazze dotate di corporatura walkiriesca e con “le trecce lunghe due metri”.
Ma ancora prima, presago di dottrine “razziali” e vergognose propugnate poi dal nazionalsocialismo, già Federico I re di Prussia ordinava ai suoi sgherri di rapire e precettare tutti gli uomini e le donne di statura superiore ai due metri, perché poi, indotti ad accoppiarsi tra loro, potessero generare una nuova razza di giganti devota alla patria e alle conquiste militari. Il pezzo pregiato del suo serraglio, era uno scozzese alto due e quarantasette.
Un giorno sua maestà venne informata che in un certo borgo prussiano prosperava senza alcun clamore uno di questi portenti, un certo Zimmermann, falegname che superava di dieci centimetri i due metri. Per arruolarlo nella sua guardia scelta, il sovrano ricorse a un sotterfugio antico quanto il mondo.
A Zimmermann fu commissionata una bara gigantesca. Il messo che si presentò da lui gli spiegò che serviva per un soldato appena deceduto, di dimensioni tali che nessuna cassa normale poteva contenerlo.
A lavoro terminato, il cliente dubitò (per finta) che la bara fosse lunga a sufficienza e pregò il falegname di sdraiarcisi dentro, per provarla. Racconta Fiedler: “una volta che la sua vittima, non molto sveglia, vi ebbe preso posto, il reclutatore inchiodò il coperchio e spedì il tutto su una carrozza a Postdam, dove il poveraccio arrivò morto per asfissia”. Federico I si consolò ugualmente per questa perdita. Lo scheletro del falegname Zimmermann finì appeso in uno degli armadi del suo museo personale.
Quest’ultima crudele astuzia somiglia terribilmente all’espediente escogitato nella notte dei tempi da Set (per i Greci, Typhon) allo scopo d’uccidere suo fratello, il dio egizio Osiride. Dopo aver appreso segretamente le misure della vittima “Typhon fabbricò e decorò riccamente un cofano della stessa dimensione, e […] promise di regalarlo per celia a colui cui fosse andato a misura. Tutti lo provarono uno dietro l’altro, ma non era adatto per nessun di loro. Osiride v’entrò per ultimo e vi si coricò. Allora accorsero i cospiratori, chiusero precipitosamente il coperchio, […] lo saldarono con del piombo fuso e gettarono il cofano nel Nilo”.
Si può rintracciare questo racconto mitologico – ma a quanto pare, per nulla inverosimile – nelle pagine del prodigioso Ramo d’Oro di James Frazer.