I- Il Cannibalismo, che ancora oggi incombe su di noi da regioni polari della Storia, o come nostro geografico contemporaneo, ci procura uno choc eminentemente fantastico in quanto ci ricorda, con una scossa che non vorremmo mai sperimentare, che siamo fatti interamente di sostanza commestibile: di carne, soprattutto – e quanto pesi, quanto valga, e quanto possa essere “appetibile” questa carne.
Il cartesiano “cogito ergo sum” (penso, dunque “sono”) nasconde il fatto indiscutibile che io penso con un cervello che si può, indifferentemente, ammirare o mangiare, studiare o trangugiare, criticare o masticare.
Così è estremamente naturale che il cannibalismo, a rigor di logica, sia l’unico atto che garantisce all’allievo d’aver “appreso” tutto del maestro, e all’innamorata d’unirsi “per sempre” al suo amato, o viceversa.
“Non credo che troverò mai cibo migliore” disse la signora di Couchy quando il marito tradito la costrinse a pasteggiare con il cuore dell’amante. Poi si gettò dalla finestra.
II- Il cannibalismo era a suo modo “evoluzionista”: provava che l’uomo non si distingueva dall’animale; come appunto dimostravano i suoi organi interni e i suoi appetiti. Altrettanto cannibali dovevano essere apparsi (o erano) i primi anatomisti.
III- Uno sguardo sul cannibalismo non può che essere una veduta en abîme.
Ogni cannibale – è probabile – nel corso della sua vita può aver mangiato altri cento cannibali, e ognuno dei suoi “pranzi” poteva aver pasteggiato, a sua volta, con altri cento cannibali. Un antropofago può in linea teorica e pratica aver degustato un nemico che, a sua volta, ha mangiato i suoi genitori, o i suoi figli.
Montaigne narra la storia vera d’un prigioniero dei cannibali, cannibale a sua volta, che sa che sta per essere divorato, e con superbia sbeffeggia i propri vincitori: “che vengano pure arditamente tutti quanti e si radunino per mangiarlo, mangeranno, così, al tempo stesso, i loro padri e i loro avi, che hanno servito di alimento e di nutrimento al suo corpo”. La sua stessa sostanza, si vanta, è fatta delle membra degli antenati di chi ora l’ha sconfitto. Assaporate bene i miei muscoli, dice la canzonatura del prigioniero, “vi troverete il sapore della vostra stessa carne”. Commenta ammirato Montaigne: “idea questa che non ha niente di barbarico“.
IV- Il Cannibalismo è, secondo Walter Benjamin, “l’Ultima Thule dell’alimentazione”. Raggiunto questo limite estremo, immediatamente si sciolgono le file, si rompono patti, coscrizioni, si torna indietro avvolti d’orrore sacro. Emblematico è quanto accadde ai favolosi miliziani di Cambise, in marcia (o in rotta?) verso l’Etiopia:
“I soldati, finché poterono trarre qualcosa dalla terra, sopravvivevano, nutrendosi di erbe, ma quando giunsero in terreni sabbiosi, alcuni arrivarono a compiere un atto orribile: tirarono a sorte alcuni di loro, uno su dieci, e se li divorarono. Cambise, messo al corrente e spaventato di questo cannibalismo reciproco, abbandonò l’impresa”.
Quanto avvenne, secoli dopo, sulla “Zattera della Medusa” insegna la stesso raccapriccio. Quando si diventa cannibali per sorteggio, significa che è arrivata la Modernità, con le sue poco appetibili leggi economiche.
Infatti, benché ci piaccia credere il contrario, non è tra i barbari, né tra i primitivi, che s’indulge all’antropofagia come rimedio alla scarsità di cibo, all’indigenza. I cosiddetti popoli civili sono in genere ben più propensi dei “selvaggi” a questa pratica. Subendo gli squassanti effetti di una carestia, ad esempio, cannibali si diventa per una scelta che è giusto definire razionale. Dalla Bibbia, passando per il Medioevo, fino e oltre l’assedio nazista di Leningrado, gli esempi di tali atrocità non mancano.
Il Cannibale raramente mangia per fame un suo consimile. Questa aberrazione si può considerare una forma di decadenza dalla purezza del mandato primitivo: una “secolarizzazione”, o laicizzazione di un costume antico, di cui si è perso il significato originario.
I nostri antenati non ambivano certo assaggiare La specialità della casa (il menù di carne umana dei ristoranti moderni più esclusivi, secondo Stanley Ellin): mai atto cannibalico fu gratuito e inutile nell’antichità. L’ antropofagia per “curiosità”, o per noia, per ghiottoneria o per killeraggio seriale, è una scoperta recente.
Lungi dall’essere un perfetto materialista, il cannibale autentico è una creatura spirituale. Trangugia carni umane, è vero, ma allo scopo principale di assimilare “anime”, “qualità” e “virtù” dei suoi confratelli.
In effetti l’Utopia Cannibalica primitiva prevede che in cucina o in tavola, si sgranocchi innanzitutto il nemico valoroso, da cui c’è molto da apprendere o da “assimilare”, oppure la vittima fumante del Sacrificio Umano, consumato per tutt’altri motivi che quelli gastronomici.
Con maggiore coerenza – avverte Frazer –, le schizzinose popolazioni del Golfo di Carentaria, “dopo una battaglia, mangiano i loro amici uccisi ma non i loro nemici”.
“Alcune tribù del Victoria”, prosegue lo studioso, “uccidono i loro neonati, li mangiano, e ne danno da mangiare ai loro figli più vecchi, credendo che questi ultimi possiedano così la forza dei neonati, oltre alla propria”.
Visto che il neonato, per antonomasia, è una delle creature più deboli e minacciabili dell’Universo, è chiaro che nel Menù compare il suo Spirito, di forza pari o persino superiore a quella dell’adulto.
Tra tutti i cannibali, i Dieri dell’ Australia del Sud sono quelli dotati forse delle più rigide regole alimentari, e delle più complicate: “la madre mangia i propri figli e i figli mangiano la madre; ma il padre non mangia la propria progenie, né i figli mangiano il padre”.
Quello che a tutta prima sembra atto profondo di rispetto e devozione per l’autorità paterna, nasce invece da un malcelato snobismo. Nei tempi più antichi, tra i Dieri vigeva il matriarcato e per questo il padre, che veniva da un’altra tribù, e poco valeva nella scala sociale e familiare, non aveva il diritto di mangiare i propri figli. Né i figli, magari, si fidavano che quello fosse proprio il loro genitore. Anche questa pratica a prima vista astrusa, serve comunque, alle tribù cannibali, per assicurare la continuità e la purezza spirituale della propria comunità.
V- La Fede religiosa ha sempre stuzzicato l’appetito del Cannibale.
Nel Deuteronomio, Dio stesso ha maledetto chi non gli ubbidisce, e ha prescritto per l’empio un destino da cannibale. Come vaticina il versetto 28, 53: “mangerai il frutto delle tue viscere, e le carni dei tuoi figli e delle tue figlie che il Signore, Iddio tuo, ti avrà dato”.
Tra gli Antropofagi si considera il contrario: empio, è chi non si nutre del corpo umano altrui.
Secondo Mircea Eliade, Ewald Volhard ha chiarito una volta per sempre, che «il cannibalismo non è un comportamento “naturale” dell’uomo “primitivo” (d’altronde esso non è sul piano dei più arcaici livelli culturali) ma è un comportamento culturale basato su una visione religiosa della vita». Il cannibale, la cannibale, pii di natura, superiori e nobili, assumono in questo quadro una cosmica “responsabilità”.
L’antropofagia è un Rito, che ripristina l’Universo nel suo ciclo vitale: se non banchetti con le carni di un tuo simile, tutto il creato è in pericolo. Senza quel sangue, senza quel pasto, non nascerebbe più neanche una pianta. In certi luoghi della Terra, il cannibale va a caccia di teste, non per gola o cupidigia, ma perché esse sono simboli di “tuberi” e “noci di cocco”. “L’uomo deve uccidere e venire ucciso per la sopravvivenza del regno vegetale; inoltre deve arrivare fino ai limiti dell’orgia”.
Di qui, la rilevanza dell’assaggio delle carni crude, ossia: contemporanee alla morte; al punto che l’uccisione insaporiva l’antipasto umano, e la vittima veniva divorata, in certo senso, mentre moriva. Carni fresche, non passate al setaccio, al vaglio della Consunzione.
Ne deriva, sostiene ancora Mircea Eliade, che nel cannibalismo rituale di stampo devoto e religioso “la grande preoccupazione del cannibale sembra essere proprio essenzialmente metafisica: egli non deve dimenticare ciò che è accaduto in illo tempore“. In un contesto fortemente mitizzato, l’antropofago sembra usare le carni altrui come ricostituente per la propria memoria.
Sono tempi, quelli dei primordi, in cui non si sa scrivere, e si parla poco: a gesti, a calci, a singulti o a spintoni. Intorno all’Uomo o alla Donna in pentola o arrosto si affaccenda il compendio di tutta una Cultura: con il pasto antropofagico l’invasata comunità cannibale ripassa la mitologia, il manuale d’agraria, l’atlante di Storia, il breviario di preghiere. Dopo una lauta cena a base di carne e visceri umani si restava distesi, supini, a pancia in su, a rimirare il firmamento stellato, luminoso. La lentezza della digestione, favorì i primi studi sulle mappe celesti. Così che la Gastronomia diventò, anche, Astronomia.
[in copertina: Saturno divora il figlio, di Goya]