II- Se sezioniamo il monologo di Amleto, il più famoso nella storia del Teatro, “a Testo aperto”, come fosse poggiato sul lettino dell’anatomista, ci scuote, nell’analisi dei tessuti interni del discorso, davvero più di una sorpresa.
Il pallido Prence di Danimarca riflette ancora, come al principio del dramma, e come se nel frattempo non fosse accaduto niente, se sia il caso, o no, di suicidarsi.
Ma c’è qualcosa che l’individuo non controlla, ove propendesse per questa scelta – si fa per dire – “coraggiosa”: la questione, incerta, irresoluta, se esista, o meno, un Aldilà. Infatti leggiamo nel monologo:
“[…] E chi vorrebbe
sopportare i malanni e le frustate
dei tempi, l’oppressione dei tiranni, […]
chi vorrebbe sudare e bestemmiare
spossato, sotto il peso della vita,
se non fosse l’angoscia del paese
dopo la morte, da cui mai nessuno
è tornato, a confonderci il volere
ed a farci indurire ai mali d’oggi
piuttosto che volare a mali ignoti?
La coscienza, così, fa tutti vili […]”.
Non solo c’è del “metodo” in questa “pazzia”, ma il discorso fila via liscio, razionale e per nulla misterioso. Se non ci fosse una Vita Eterna, nulla ci impedirebbe di ucciderci, per saltare a piè pari le tristezze di questa Vita Terrena. In altre parole, e guardando a tutta la Tragedia: perché mai Amleto dovrebbe dannarsi a fingersi pazzo, a lambiccarsi su come eliminare un re usurpatore e assassino, oppure a rattristare e cacciare via dal trono una madre sì incestuosa, ma con altri, poi impadronirsi del potere in un Paese agitato da rivolte, sedurre ottuse Ofelie e ammazzare un suocero noioso – perché? – se con un abile colpo di stilo, al cuore, al gozzo, potrebbe mutare in meglio la sua sorte?
Insomma, cos’è che propriamente ci vieta il suicidio?
Solo perché ignoriamo cosa ci attende dopo la Morte, noi ci tratteniamo. Questa è la risposta.
Ogni tipo d’omicidio, compreso il proprio, lo vieta, certamente, anche la Fede religiosa. E per questo, più tardi, Amleto, un diabolico Amleto, non assassinerà lo zio, per non dargli la soddisfazione, morendo pregando o pregando morendo, di finire in Paradiso. Su questo Amleto “satanico”, perché fraintendibile come un bigotto, ho l’impressione che la critica troppo spesso sorvoli, glissi. Come se, inoltrandosi giù per questo sentiero, il dramma scespiriano perdesse di modernità e tornasse al medioevo oscuro esaltato dalle Gesta dei Re e degli Eroi danesi, narrate da Sassone Grammatico nel secolo undicesimo, libro nel quale la storia d’Amleth, un principe che astutamente si fingeva pazzo, era già nota e raccontata come “vera”.
Ora, che l’Amleto di Shakespeare sia pieno di dubbi sul suicidio, passi, che tentenni sull’abbracciar l’azione, che si senta un vigliacco, passi pure: quello che il lettore, il goditore, della tragedia non capisce, è come possa dubitare, come dice nel monologo, che dal “paese della morte” qualcuno sia “mai tornato”. Da dove gli viene questa spocchia miscredente, questo malsano controsenso, o cecità, se ha appena visto, e gli ha persino parlato, lo Spettro di suo Padre, tornato appunto da quel Paese? E il re ucciso gli ha testimoniato non solo che c’è Vita, dopo la Morte, ma persino gli ha dato conto del Luogo preciso dove si trova:
“Io sono lo spettro di tuo padre,
condannato a passeggiare di notte
e a digiunare in mezzo al fuoco, di giorno,
finché non saranno purgati e bruciati
i delitti compiuti nei miei giorni terrestri.
Se non mi fosse vietato di raccontare
i segreti della mia prigione, potrei dirti
cose di cui la più lieve
ti strazierebbe l’anima, gelerebbe
il tuo giovane sangue, ti farebbe scattar le pupille
come astri dal vuoto delle occhiaie,
dividerebbe in due le folte ciocche
della tua testa e ti farebbe rizzare i capelli
come gli aghi del porcospino. Ma il racconto
di queste cose infernali non è per orecchi
di carne e sangue […]”.
A parte le esagerazioni (che di riflesso iscrivono i cartoni animati di Tex Avery nel giusto alveo dei classici elisabettiani), non può esserci dubbio che Amleto senior padre di Amleto junior sia un’anima in pena nel fuoco purgatorio. Che altro si può desiderare, come certificato di una Vita Futura e, nel caso, come verbale di una Punizione Eterna nell’Aldilà?
Sarebbe però falso e fuorviante rimproverare Shakespeare di questa incongruenza. Il Bardo ne ha tenuto conto, eccome.
La verità è che Amleto ha il terrore d’esser stato raggirato, da quello Spettro dotato di sorprendente parlantina. Egli ha il sospetto, fondato, d’esser stato vittima d’una Rappresentazione, d’un “Teatro”, nel quale il Soprannaturale gli è davvero apparso, ma mistificato. Di qui l’altra idea, sua, felicissima, e pazzesca, di mettere in piedi un nuovo Teatro tutto suo, un Teatro in Maschera che smascheri suo zio, o, se non è così, smascheri lo Spettro.
Leggiamo dall’atto II, scena II:
“[…] Lo spirito che ho visto
potrebb’essere un diavolo che assuma
un aspetto gradevole, e che forse
suggestioni la mia malinconia,
col potere ch’egli ha su siffatti animi,
per dannarmi.
Mi occorre un fondamento
concreto: uno spettacolo; e al sovrano
ghermirò a volo la coscienza […]”.
Trovo Fantastico che per Shakespeare il “fondamento concreto” di una vendetta storica che di fatto è un colpo di Stato si basi sull’allestimento d’uno Spettacolo, una Rappresentazione smaccatamente illusoria.
La tragedia è andata in scena per la prima volta l’anno 1600, o al massimo, nel 1601; Amleto conosce dunque fatti che sono avvenuti nel 1538: l’assassinio di Francesco Maria della Rovere, duca d’Urbino, che lui chiama “Gonzago“, e il cui vigliacco omicidio è in tutto simile a quello che ha tolto la vita a suo padre, almeno a giudicare da quanto ha saputo dal suo Spettro:
“Io debbo
far recitare a questi attori, innanzi
a mio zio, qualche cosa che somigli
all’uccisione di mio padre. E starmene
a osservarlo, sorprenderne sul vivo
il contegno: se appena egli ha un sussulto,
so il dover mio“.
Questo luogo della tragedia – un piano che si rivelerà assolutamente non risolutivo perché mai si rovescerà in “azione” –, questo cuore macchinoso del “plot” di Shakespeare, è quello che rende il principe della marcia Danimarca “figura” eccezionale d’ogni Teatro, e di ogni “Teatro sul Teatro o nel Teatro”, compreso quello che nella Fantaenciclopedia ho chiamato “Teatro della Menzogna”.
Da questa Scena in poi si assiste a una caduta in abisso di rimandi e di allusioni, spiate, sotterfugi, lapsus, atti mancati, associazioni libere che diventano altrettanti versi “liberi”. Un formidabile “Gioco del Rovescio” tra Realtà e Finzione, il quale, sotto i nostri occhi di spettatori, diventa quinta di Teatro. Al “rovescio”, perché, Amleto l’ha annunciato:
“The time is out of joint. O cursed spite,
That ever I was born to set it right“.
“Il mondo è fuori squadra: che maledetta noia,
esser nato per rimetterlo in sesto”.
Fino all’incontro col Fantasma, le parole del principe alitano di fiele. Rimugina, come zolfo nero che ribolle e soffia in un alambicco. Un torpore maligno lo possiede. Gli psicanalisti che hanno sezionato la tragedia, dicono: è perché un altro, non lui, ne ha preso il posto, ha ucciso suo padre e è entrato nel letto della madre. Qualcuno – suo zio Claudio – ha disarmato, sovrapponendosi a lui, il suo Edipo, l’ha reso, d’ora in avanti, una “parodia”. Questa stravolta condizione è la premessa per la quale uno Spettro giunge a calcare la terra. Allora, tutto si sposta, e il Tempo finisce “fuori controllo“, perché tutto marcia al contrario. Amleto si finge (forse) pazzo, e rende pazza davvero Ofelia. Amleto tentenna nella sua vendetta, anche se sa bene chi gli ha ucciso il padre: ed ecco spuntare un suo Doppio, Laerte, che solleva il popolo contro il re (come doveva fare il principe) e che lui sì, davvero, vuole vendicare suo padre, il ciambellano Polonio. Amleto, malinconico, cova il suicidio: e Ofelia si uccide al suo posto, si lascia annegare cantando. La “prova concreta” del fratricidio dello zio la cerca, il principe, nel luogo meno reale e più fantastico: in Teatro. Ne risente l’intera costruzione della tragedia: Amleto fa recitare sulla scena un fatto vero, un vero e recente tirannicidio, mentre lui è un attore che recita sulla scena una tragedia inventata che ha per tema un falso regicidio.
Ma Amleto con la sua rappresentazione “teatrale” anela soprattutto mettere alla prova le parole dello Spettro. Vuole sapere se sono veritiere o no. Di dove nasce questa sua diffidenza quasi sacrilega? È frutto d’intellettualismo esasperato? È puro espediente di teatro?
Certo, no. Il principe sa bene che con un altro Principe il peccatore, o il malinconico, si confronta sempre: il Principe delle Tenebre, che è pur sempre Principe dell’Impostura.
Perciò quando si ritrova nella stanza da letto di sua madre Gertrude, lo sopraffà il terrore che la Vendetta che gli è stato imposto d’operare sia frutto d’una diabolica macchinazione. Il Fantasma del padre gli appare all’improvviso “in veste da notte”. E il principe, vedendolo nel suo vero aspetto, senza armatura, chiede subito aiuto agli “angeli celesti”, li implora di salvarlo e proteggerlo con le loro ali. I suoi capelli – “come soldati desti dall’allarme” – la madre li vede drizzarsi e irrigidirsi, “like life in excrements” (verso che Montale, pudicamente, non traduce). La regina però non scorge lo Spettro, che è proprio davanti a lei, oscenamente drappeggiato dalla camicia che indossa. “Eccolo, è là, presso la porta!”, protesta Amleto. E la madre: ” È un frutto della tua fantasia, Amleto, / del delirio che crea queste immagini senza corpo”. La regina rovescia il piano del Fantasma, che così si ritorce contro Amleto: è lui il debole, preda di fantasticherie e immaginazioni malate, deliri da pazzo. Lo Spettro che nel Prologo è stato visto da tutti adesso lascia Amleto solo, come uno scolaretto sorpreso a toccarsi sotto gli occhi della Madre. Da quel momento il principe, abbandonato dallo Spirito, lo abbandona pure lui al suo destino. Non vediamo più il Fantasma sulla scena, neanche nel momento in cui avrebbe dovuto assaporare il suo trionfo, cioè quando il figlio trapassa con la spada avvelenata suo fratello, il regicida. Segno che, ancor più che la Vendetta, l’ha avuta vinta, alla fine, una sacrosanta Diffidenza.
Non credo dunque di trasgredirne lo spirito, se affermo che Amleto, nelle sue linee più pure e generali vada considerata la Tragedia dello “Smascheramento dello Spettro”.
Quindi, puro teatro “Fantastico”: uno dei primi esempi, nella Modernità. Se si elimina da Amleto questo “Giallo Fantastico” – che ruota intorno ai Sogni, alle allucinazioni singolari e collettive, e all’esistenza o meno del medievale Diavolo –, se si toglie al personaggio il senso della sua “ricerca della Verità”, si distrugge la tragedia.
Il programma o “metodo” di Amleto è fin dal principio manifesto.
Il significato della più celebre battuta del dramma – ormai superiore, per popolarità, anche allo stesso monologo “Essere o non Essere” –, va totalmente compreso in questa direzione: è un monito, appunto, a usare Dubbio e Diffidenza come strumenti interpretativi della Verità. “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”: vuol dire esattamente l’opposto di ciò, per cui, viene citato troppo spesso. Non è una difesa, o una rivendicazione, dell’Invisibile di fronte alle pretese onnivore del Visibile. È Orazio, che crede nei Fantasmi, e per questo motivo chiama il principe amico sugli spalti del castello. Mentre Amleto tituba, non sa decidersi se crederci o no. Subito, infatti, reagisce in questo modo:
“My father’s spirit in arms! All is not well.
I doubt some foul play”.
“Lo Spettro di mio padre in armi? Brutto affare!
Qui sotto c’é una trappola…”
Perciò giura fedeltà all’Ectoplasma logorroico, e poi se ne vergogna, o scantona, negli Atti successivi.
Il Dubbio ha contaminato la sua intera visione del Mondo, e la Diffidenza l’ha reso ancor più malinconico e indeciso. Ma è proprio questo oscillare che rende il suo personaggio l’emblema della Modernità. Fatto è che Amleto entra in crisi proprio perché non ha una sua filosofia nuova, cui appellarsi, per capire cosa gli sta accadendo intorno.
Dal punto di vista filosofico, di lì a pochi anni (1637) il Dubbio Assoluto verrà posto da Cartesio a fondamento del suo “metodo”.
Per Cartesio, pensare vuol dire dubitare e, viceversa, l’atto stesso di dubitare implica che l’Essere Umano pensi. E chi pensa, ha un corpo sensibile, quindi “è”. Un Genio maligno (o Spettro?) che si divertisse ad ingannarci su ciò che è vero o falso, si dileguerebbe, appena noi cominciamo a dubitare della sua esistenza. Le “Regole” che scaturiscono da questo postulato (“cogito, ergo sum“), ci mettono in grado, secondo lui, di edificare una nuova scienza che possa trasferire su ogni aspetto del reale le certezze della matematica. Un setaccio “pitagorico”, un “Sì o un No” ci permetterà allora di accertare se un dato, un fenomeno, un evento, un teorema, sono “veri o falsi”.
Amleto cerca istintivamente questa certezza dal punto di vista esistenziale. Anche il suo “Essere o non Essere” non è altro che un “Sì o un No alla vita”. Come se avesse presagito che quel Dubbio Assoluto, lo stesso di Cartesio, una volta accolto come presupposto per la conoscenza, si sarebbe esteso anche al senso della Condizione Umana.
Altrettanto profetica, mi sembra l’incisione “Malinconia I” di Dürer (1514), che ci mostra una creatura (rappresentante, forse, l’Anima umana), preda della depressione, inutilmente alata, il capo inclinato su una mano, mentre subisce il contraccolpo del quadrato magico, pitagorico, che ha alle spalle. È in arrivo una nuova era, che non si contenterà più di Paracelso, né di Ermete né dei prodigi dell’Alchimia.
Dal punto di vista “politico”, il principe danese sembra invece debitore d’un altro Principe, quello di Machiavelli, grande e riconosciuto antesignano della Modernità.
Ma come tutto il resto della storia, anche questa sua lettura procede all’incontrario. È in realtà Claudio, l’usurpatore, e non Amleto, il vero detentore del Potere. Al giovane pretendente (o a Shakespeare) non resta che rileggere il trattato tra le righe, e capire, con un’inversione, come potrebbe riprendersi il trono che è stato tolto al suo predecessore con l’inganno, col tradimento, e col veleno.
Anche la “svolta teatrale” che Amleto vuole imprimere alla sua vendetta, facendo recitare l’assassinio di suo padre a una compagnia di guitti, potrebbe essere intesa, allora, come un puro espediente “machiavellico”.
Secondo i gesuiti del tardo Cinquecento, Niccolò Machiavelli era il prototipo d’ogni figura, presente o futura, d’Ateista. E c’è almeno una scena nella quale Amleto si comporta come se fosse un suo “degno” allievo. Quella del Cimitero. Chi crede fino in fondo negli Spettri e nell’Aldilà, non può prendersela, come fa lui, con i resti mortali di chi non c’è più: teschi e tibie che vengono dileggiati non appena riaffiorano da terra, sospinti fuori dalla vanga del becchino. Ce n’è, come bersagli di sarcasmo, un po’ per tutti: per Yorick, il buffone del re, per i cortigiani, gli avvocati, i politicanti, e pure per Cesare e per Alessandro. “Ecco una bella rivoluzione, se noi sapessimo capirla”: tanta fatica a fabbricarle, queste ossa, e ora non servono neppure “a giocare alle bocce!”.
Sono ragionamenti da pessimista e da materialista integrale. Come, appunto, fu ritenuto il “Segretario Fiorentino”.
Machiavelli, nei suoi Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, ricorda (Libro III, capitolo II) l’astuto espediente di Lucio Giunio Bruto, l’antico e nobile Romano che si finse pazzo, anche lui, per sopravvivere al dispotismo dello zio, il re Tarquinio. “Brutus”, in latino, significa come sappiamo “privo di intelligenza”, o “sciocco”. Lo stesso significato ha nelle antiche lingue nordiche d’Europa il nome Amleto: che vuol dire “sempliciotto”, oppure “stupido come può esserlo una bestia”.
[SEGUE]