Anche Bugs Bunny, come Porky Pig, preesisteva a Tex Avery (26 febbraio 1908 – 26 agosto 1980). Nei primi, incerti, cartoni della Warner, era un coniglio sgraziato, molto simile a Max Hare, la “lepre” disneyana che finisce battuta dalla tartaruga in una celebre Silly Symphony. Tex, appena gli fu affidato il personaggio, forgiò gli aspetti determinanti di Bunny: il carattere, la recitazione, il vocabolario. “Tutti si accorgono” ha detto il Genio dell’Animazione a Joe Adamson (l’intervista è comparsa in Tex Avery, Kings of Cartoon) “che da A Wild Hare (1940) la personalità che ho dato al coniglio non è più cambiata, col passare degli anni”.
La battuta più celebrata di Bunny, “What’s Up, Doc?” – che mal si può rendere con “Che succede, dottore?” – era una tipica inflessione di Tex. E deriva da un’intuizione di Avery anche la flemma, l’imperturbabile superiorità con cui il coniglio poggia il petto sulla canna del fucile, sgranocchiando una carota.
In A Wild Hare Bunny si fa sparare dritto al cuore da Elmer Fudd (che dalle nostre parti fu chiamato anche “Taddeo”). Il cacciatore naturalmente, pur essendo a pochissimi metri di distanza, lo manca. Ma l’astuto coniglio stramazza a terra e simula gli spasimi dell’agonia: “Sento che sto per mancare… i miei occhi… non lasciarmi… È tutto buio! Addio… Addio…”. Bugs si affloscia senza vita, la lingua, ben in vista, penzoloni. Elmer rompe in un pianto dirotto convinto di averlo ucciso: un sonoro calcio nel posteriore avverte lui e il pubblico che le cose stanno altrimenti.
Questo ed altri exploit recitativi di Bunny lo rendono un personaggio isolato nel bestiario averyano. Non era proprio necessario, secondo Tex, che i suoi protagonisti “sapessero” anche recitare; la “rapidità” supersonica e la successione martellante delle gag comiche, dovevano per forza limitare le capacità interpretative, in senso classico, teatrale, di Daffy, di Droopy, del Lupo, di Screwy Squirrel o del cane Spike. Non c’era proprio il tempo di compiacere il pubblico, di accattivarselo, di cercare una complicità, di toccarne i sentimenti. Dovevano essere maschere, dal corpo fungibile, snodabile fino all’inverosimile.
D’altra parte, farsa, mimica e pantomima interessavano Avery solo se poteva stravolgerne il senso comunicativo “normale”: nel suo folle universo contava solo ciò che è spropositato, sproporzionato, smodato, ipertrofico, bombastico.
Quello che il pubblico soprattutto ricorda delle espressioni facciali dei suoi personaggi, è la smisuratezza: il Lupo eccitato dalla vista (anche solo fotografica) della spogliarellista Red, istantaneamente strabuzza gli occhi dilatandoli oltre il metro e mezzo d’altezza.
Anche rivedendo oggi A Wild Hare, capiamo subito che Tex non pensò mai ai bambini, come suo pubblico ideale. “Fin dai tempi di Bunny”, ha confidato a Adamson sul finire della sua carriera, “ho sempre cercato di fare qualcosa che avrebbe fatto ridere me, piuttosto che torturarmi chiedendomi: ‘Questo farà ridere un bambino di 10 anni?’ In quel campo non potevamo far meglio di Disney!” Avery fu quindi un pioniere del disegno animato per adulti, nel quale introdusse certi bagliori peccaminosi e certi eccessi inequivocabili che inquietarono i suoi produttori (soprattutto alla M.G.M, negli anni ’40 e ’50) e richiamarono l’attenzione della censura sui suoi “corti”.
Non è memorabile purtroppo il secondo incontro di Tex con il coniglio: Tortoise Beats Hare (1941), anche se il corto ha un esordio “metafilmico” notevole: Bunny passeggia furibondo davanti al titolo del cartone, e lo legge lui stesso, storpiando i nomi di tutto lo staff della produzione, e anche quello del regista Avery. Subito dopo, sfida Cecil la tartaruga a una gara di velocità scommettendo dieci dollari sulla propria vittoria. Cecil, per battere la lepre mobilita tutti i suoi sosia-parenti seminandoli sul percorso. Per cui ogni volta che Bugs supera con agio la tartaruga, se ne ritrova una identica davanti. Nonostante le premesse la favola procede lentamente e come parodia soccombe al confronto con l’originale disneyano. Bunny poi, nei panni della vittima, è un po’ fuori parte.
Decisamente migliore è The Heckling Hare, sempre del 1941 (titoli italiani: Il lepre vendicativo, oppure: Volo a caduta libera), dove Tex inscena una variante della famosa gag dello specchio infranto ne La guerra lampo dei fratelli Marx (Duck Soup, 1933). Nel cartone, Bunny e il cane Willoughby prendono il posto di Chico e Groucho, e spetta al coniglio ripetere ogni gesto del rivale: ma il confronto avviene faccia a faccia, smorfia contro smorfia, la somiglianza tra i due è inesistente, e non c’è mai stato uno specchio a dividerli, neanche per un momento. La scena ancora più geniale è quella posta alla fine: il coniglio e il cane perdono l’equilibrio e il contatto con la terra e precipitano in un burrone, del quale si vede lontanissima la fine. Non hanno scampo e gridano a squarciagola, si dimenano disperati alla ricerca d’appigli e di aiuti inesistenti, e volano giù nell’abisso, sempre più in basso, sempre più in basso: la caduta inarrestabile, realistica, tiene gli spettatori col fiato sospeso, e dura quasi un minuto.
Ma un attimo prima di schiantarsi i due nemici mutano l’atteggiamento e decidono d’atterrare con una dolcissima frenata, che lascia il pubblico interdetto. “Ve l’abbiamo fatta stavolta, eh?”, è il commento finale del coniglio.
Dispiace che, adesso, alcuni cartoni di Avery siano invisi, se non invisibili, per il modo disinvolto e databile con il quale il regista-artefice ha trattato le questioni razziali. Tra questi c’è un altro Bunny, il quarto e ultimo di Tex in ordine d’uscita, ancora del 1941: All This and the Rabbit Stew (A caccia di stufato). L’antagonista di Bugs è un ragazzino afroamericano che parla strascicando le parole e non brilla per nessuna qualità. Non era tra le sue migliori creazioni, è vero; ma farlo sparire non aiuta sicuramente la causa dell’integrazione, né a far capire allo spettatore la “storia” che c’è dietro certe conquiste.