Nel 1630, fu eretta in Milano la “colonna infame”, “a ignominia di un barbiere e di un commissario di sanità condannati al taglio della mano, ad essere squarciati a brani con tenaglie roventi, rotti sulla ruota e sgozzati dopo sei ore di agonia”. Erano accusati d’essere “untori” e di aver volontariamente propagato la peste che imperversava in quel momento nella città. Il primo agosto di quell’anno, furono giustiziati nel previsto e atroce modo Gian Giacomo Mora e Guglielmo Piazza. Il primo era un barbiere quarantatreenne che aveva prodotto fino allora, col beneplacito delle autorità, un “unguento” protettivo contro il contagio. L’altro, che l’aveva denunciato, era un suo cliente, un commissario governativo al quale lui aveva venduto l’impiastro. Sia Piazza che Mora confessarono dopo giorni di estenuanti torture d’aver sparso l’epidemia e, per soddisfare il sadismo delle autorità, inventarono i nomi dei loro “complici”. Erano tutti innocenti. Ciononostante morirono in tredici. Altri oscuri personaggi milanesi, negli stessi giorni, furono uccisi sommariamente – colla formula istantanea del processo plebeo –, dalle folle inferocite. Si erano prodigati, secondo la superstiziosa voce popolare, a “ungere” di veleni le case e le porte dei palazzi, soprattutto allo scopo di depredare poi le vittime del contagio.
Sdegnati da tanta barbarie, contro l’orribile “colonna infame” si espressero, tra gli altri, Addison, Foscolo (dal suo Gazzettino del bel mondo ho tratto la citazione iniziale), Verri, Manzoni e Sciascia.
Se si scorre l’elenco dei caduti (o degli scampati) di questi pogrom irreligiosi, si noterà che, tra i pretesi responsabili delle pandemie, ci sono sempre solerti funzionari e Amministratori dello Stato. Piazza era uno di questi. E fu il primo che venne arrestato, perché si aggirava con “fare sospetto” intorno alle case degli appestati. D’altronde, era quello che doveva fare per mestiere, essendo addetto alla Pubblica Sanità. Forse anche lui, come gli altri agenti di polizia o governativi travolti dal furore popolare, fu vittima di una forma estrema di lotta di classe e di ribellione contro il potere; forse, invece, c’è dell’altro.
Nel 1832, in Francia si diffuse il colera, che giunse a uccidere anche mille persone al giorno. Tra il 3 e il 4 aprile di quell’anno, nella civilissima Parigi, sei passanti furono massacrati dalla folla, che li accusava d’essere “avvelenatori”. Giravano con bottiglie sotto il braccio nei presi delle fontane, oppure si comportavano “in modo sospetto”. Il che, per la calca, che è sempre sospettosa, notoriamente non vuol dire niente.
Nel 1837 il colera, dopo aver flagellato l’Africa e mezza Europa, arrivò anche a Palermo.
La Sicilia avversava i Borboni, e si sparse la voce che il contagio fosse stato diffuso a bella posta dal re Ferdinando, per una malvagia forma di ritorsione.
I Siciliani chiamavano il morbo “il veleno”: ci furono rivolte in tutta l’isola, alla ricerca degli ignoti avvelenatori, i sicari del monarca.
A Siracusa arrivò in quei giorni con tutta la sua famiglia un ambulante tedesco, George Schwentzer, che allestì in un padiglione cittadino un Cosmorama: una camera ottica che riproduceva in rilievo paesaggi famosi di lontane oppure esotiche nazioni.
Il tedesco, che aveva strumenti da stregone, fu presto considerato dal popolo minuto un untore. Le sue proiezioni, le sue lampade fantasmatiche parvero avere qualche misteriosa attinenza con il contagio. Il Cosmorama – racconta a questo punto Harold Acton – fu sequestrato e sbriciolato dalla folla; un servo del girovago e due suoi amici furono linciati lì, sul posto.
Intervenne la polizia, che salvò Schwentzer mettendolo in carcere; ma un commissario che si era prodigato in questa pietosa restrizione fu subito trucidato a bastonate, a cui si aggiunsero fendenti di pugnale e colpi di pistola. Altri pretesi cospiratori e “complici” dell’untore – un ispettore di polizia, il figlio, e un intendente che fu prelevato dal fondo di una miniera in cui cercava scampo – vennero percossi e lapidati con mezzi artigianali.
Il sindaco nominò una commissione che in poche sedute decretò: che il tedesco era reo confesso e il complotto aveva avuto origine nel suo paese; che tutte le vittime del furore popolare, erano colpevoli di possesso di sostanze nocive, utilizzate per spandere l’epidemia; che i siracusani nell’occasione si erano comportati rettamente e con giustizia; che il morbo del colera, grazie all’intervento della plebe, poteva dirsi debellato.
Non era vero, la piaga continuava, e mieté vittime tanto tra il popolino, quanto tra gli aristocratici, e in ultimo anche nei ranghi di chi doveva reprimere la rivolta: i militari spediti dal Borbone, a ristabilire l’ordine in Sicilia.
Passarono pochi giorni e la folla, che mai dimentica, esacerbata dai nuovi e numerosi lutti dovuti al colera, assalì la prigione dov’era detenuto Schwentzer, ne estrasse lui, la moglie, più altri quattordici derelitti, e ne fece pubblico scempio. Della famiglia dell’ambulante tedesco si salvò solo la figlioletta, che fu adottata da una donna del popolo.
È interessante, per noi, annotare non l’atrocità compiuta, ma il modo di ragionare dei “linciatori”.
I siracusani erano convinti che, come aveva portato il “veleno” in città, l’Uomo del Cosmorama poteva farlo sparire. Come? Con un antidoto. Schwentzer non si era mai infettato: e ciò provava, nella mentalità dei superstiziosi, che ne possedeva sicuramente uno. Perciò, fino a un attimo prima del linciaggio, l’assediarono nel carcere, ordinandogli di spartire quella panacea con loro. Il poveretto, reagiva alle minacce vergando ricette a caso, prescrivendo a tutti pozioni dall’aspetto “magico”, ma di scarso effetto. Non glielo perdonarono. Era troppo “sano”.
Schwentzer fu la vittima designata di un’antica forma di Giudizio, tipica non solo del buonsenso, la quale afferma: chi conosce l’antidoto, conosce anche il veleno. E viceversa: chi propaga veleno, sa come salvarsene.
Per cui chi scampa a un’epidemia, e ci lucra sopra, è probabile che sia informato sul rimedio giusto per contrastarla; e se ne è al corrente, non è per scienza medica, ma perché qualcuno, uno addentro alle “segrete Cose”, – un’Autorità, presumibilmente– lo ha avvertito, e munito del farmaco più adatto. In questo modo, il Sano facilmente è sospettato di partecipare ad un complotto.
Così nascono gli “Untori”: per morire, presto, di linciaggio.
In Italia – lo riferisce Sciascia – si radicò invece la convinzione che il colera del 1885-86 e la “spagnola” che imperversò dopo la Grande Guerra, non fossero altro che “provvedimenti, per così dire, malthusiani”: nel senso che le epidemie erano pilotate dai governi, preoccupati per le “eccedenze della popolazione”. Addirittura per la spagnola – che fece grandissima strage, anche tra i figli dei potenti – si pensava che l’Autorità Statale fosse segretamente intervenuta favorendo il contagio, “essendo la guerra, per errato calcolo, finita un po’ prima di quanto doveva”. Come non bastasse il milione di morti che aveva fatto. “La convinzione – scrive Sciascia – che la mortalità fosse voluta e programmata dal governo era talmente radicata che ad opporvi il fatto che anche alti funzionari governativi ne morivano, la risposta era che avevano sbagliato bottiglia: che avevano attinto al veleno invece che al controveleno” – provvedendo evidentemente lo Stato a rifornire i suoi prefetti, e i suoi protetti, di segreti “antidoti” al contagio.
Il sospetto che l’umanità sia vittima di “complotti sanitari” perdura anche ai nostri giorni. La Pandemia del Covid ne è l’esempio.
Ma quel che appare più assurdo a chi cerca di giudicare gli eventi con una dose anche minima di razionalità, è che “credere” all’esistenza di questo tipo interplanetario di congiure sia diventato una specie di dogma religioso, e che addirittura si decida il futuro politico delle nazioni sulla base di ciò che in questo campo si “crede” o “non si crede” sia stato perpetrato sulla pelle della gente.
È voce popolare, anche consistente, che il Covid stesso non sia mai esistito. Piuttosto che aderire a questa forma di paranoia collettiva, non sarebbe più giusto esigere e poi attendere che un’indagine trasparente e scientificamente ineccepibile metta la parola fine a certe, untorie, “dicerie”? E poi: non c’è da rabbrividire se, nella ricerca della verità, ci si trova schierati dalla parte dei moderni “linciatori” o dei solerti scalpellinatori di una nuova “colonna infame”?
[in copertina: La Peste, di Arnold Böcklin]