I- In senso puramente etimologico, il Riso esibisce già elementi negativi; divertire significherebbe: distogliere dalla retta via.
Sostiene sant’Antonino da Firenze, che coloro che ci fanno ridere sono come dei ladri, “in ciò che rubano e fanno perdere il tempo: il quale è la più preziosa cosa, e la più necessaria che sia […]; sicché, chi perde il tempo, perde se stesso”.
Sara moglie d’Abramo (Genesi, 18, 15), raggiunti i novant’anni – e fino a quel giorno, sterile – nascosta agli sguardi altrui, sentì un Angelo dire al marito che sarebbe rimasta incinta di lì a poco. Allora, fu colta da una crisi di ilarità, e sghignazzò.
Ma poi fu presa da un tale terrore – e aveva riso solo “tra sé”, addirittura dietro l’uscio –, che, immediatamente interpellata dalla voce dell’Onnipresente Iddio, negò di aver trovato buffa quella prospettiva; cosicché spergiurò: «“Io non ho riso”, poiché ebbe paura; ma Quegli le disse: “No, tu hai riso!” ».
Ne venne fuori un battibecco indefinibile eccelso, per entrambi.
Certo è che della sua risata fece le spese Isacco, il figlio poi nato dalla coppia anziana, perché gli rimase, per sempre, incollata al nome: Isacco appunto in ebraico significa “possa [Dio] ridere [di lui]”.
Agostino si interrogò se la bugia della centenaria Sara non fosse sufficiente a negarle la Vita Futura. Dante, alcuni secoli dopo, la pose senza esitazioni in Paradiso. Ella, dunque, fu salvata dalla propria vergogna.
Il riso, Sara lo dimostra, è inconscio ed incosciente, involontariamente rivela i pensieri più reconditi dell’animo umano. Perciò suscita sospetto, inquietudine durevole.
Fu mal tollerata, la risata, nelle scuole filosofiche dell’antichità, e poi bandita dalle Chiese più severe.
In Attica, sostiene Eliano, “nell’Accademia, non era permesso neppure ridere”.
Per Filostrato, autore della Vita di Apollonio, quando si ride per cose che a nessun altro muovono il riso, anche se non lo si sa, si è “posseduti“.
Lo testimonia in qualche modo Misone filosofo democriteo, che pure era uno dei sette savi: «quando gli fu domandato di che ridesse da solo: “Proprio del fatto di ridere da solo“, rispose» [cito da Montaigne, Saggi].
San Giovanni Crisostomo, nella sesta delle sue Omelie sul Vangelo di San Matteo, deduce dalla lettura del Nuovo Testamento che Gesù era incapace di ridere, e che nessuno lo vide mai, neppure, sorridere.
I protestanti, almeno gli irriducibili tra loro, erano talmente convinti che il Cristo fosse privo del senso dell’umorismo, che, su questa base, giungevano persino a negare l’investitura di Pietro e l’autorità dei papi suoi successori. Lo afferma Voltaire: «Un famoso luterano tedesco (era, penso, Melantone), stentava a digerire che Gesù avesse detto a Simone figlio di Giona, Cefa o Cephas: “Sei Pietro, e su questa pietra costruirò la mia assemblea, la mia Chiesa”. Non poteva concepire che Dio si fosse abbassato a usare un simile gioco di parole, un’arguzia così d’effetto, e che la potenza del papa fosse fondata su una facezia».
Il “riso smodato”, sonoro, è sempre stato considerato un peccato dalla Chiesa, magari veniale, ma sufficiente per essere bruciati, post-mortem, dal fuoco Purgatorio. Tale era in proposito l’autorevole opinione di Gregorio Magno.
Sant’ Ignazio di Loyola negli Esercizi spirituali ammaestra: “Non ridere e non dire cose che sieno motivo di risa”. Avverte Zolla: “Sant’Ignazio, essendo assai tentato, si vinse con la disciplina, dandosi la notte tante sferzate quante volte avesse ridacchiato il dì”.
II- Secondo Van Helmont “soltanto l’uomo fra gli animali ride”; Umberto Eco (che ha dedicato allo spinoso tema della “risata in Aristotele” il suo In nome della Rosa), concorda con l’anatomista, ma aggiunge: l’Uomo é l’unica specie capace di ridere, “poiché sono esclusi da questa sorte gli animali e gli angeli“.
In effetti, nel Paradiso di Dante, popolato di santi e di presenze angeliche, si gioisce, ma non si ride.
Beatrice, nel Canto XXI (versi 4-6), minaccia il poeta con un’arma insospettabile: “… S’io ridessi,\ Mi cominciò, – tu ti faresti quale \ Fu Semelè quando di cener fessi”. Per questo Alberto Savinio parla di “terribilità del riso di Beatrice” e dei suoi effetti non esilaranti, ma “ustionanti”. E trova normale che i Beati trattengano il loro sense of humour, come fosse un soffio di Drago: “i personaggi paradisiaci non ridono, perché il riso è legato al Peccato”.
Anche per Baudelaire, c’è un legame diretto tra Riso e perdita dell’Innocenza, tra risata e conoscenza del bene e del male: “il riso”, argomentò, “è un elemento diabolico, che non esisteva nel Paradiso Terrestre”, e che noi abbiamo appreso con il peccato originale, essendo “un des nombreux pepins contenus dans la pomme symbolique”– “uno dei molti semi (o grane) contenuti nella simbolica mela”.
Detto con le parole di Marc Twain, e con il mirabile castigliano di Bioy Casares: “El humour proviene de la amargura. En el Paraíso no hay humorismo”. Non c’è umorismo, che non celi una punta d’amarezza, in fondo. Di nostalgia per qualcosa di perduto.
Non per questo il godimento dei beati in Cielo si può definire incompleto, anche se a noi mortali può apparire a prima vista insoddisfacente. Come nelle battaglie d’amore, risate e sorrisi tra i partner si arrestano, non appena i sensi impongono altre leggi per il raggiungimento del piacere.
III- Una metafora indiana, citata da Borges, ci rivela: “L’Himalaya è il riso di Shiva”.
Zoroastro, che con gli Dei aveva massima dimestichezza, appena fu partorito, non pianse affatto, com’è norma tra i neonati, ma proruppe in una gran risata. È, secondo Plinio, “il sol uomo che abbia riso il giorno della propria nascita”.
Licurgo eresse, a Sparta, una statua al Riso, considerato come Dio.
Se ne può dedurre: la risata è un “dono”, una scheggia di divino.
Durante un dialogo fino allora banale, il giovane Arkadij, protagonista dell’Adolescente di Dostoevskij, fu colpito dalla “profondità” di questa affermazione: “Chi è allegro non può essere ateo“.
E: “Se sarai sempre allegro, non conoscerai mai l’Inferno” – è una massima, come sempre “controcorrente”, del santo ebreo Nachman di Breslau.
La risata, è dono divino perché, suppongo, partecipa della natura della Carità: è un’offerta, e, spesso, uno spettacolo per sé e per gli altri, che cela una morale.
Reb Henok, discepolo di Reb Mendl, «amava raccontare delle storielle piccanti. Coloro che non lo conoscevano bene, scoppiavano a ridere. Reb Jiechiel Meyer di Gostinin osservava tuttavia: “Henok sta lamentando la distruzione di Gerusalemme, ed essi ridono”».
Persino il rigoroso Ignazio da Loyola, il quale, per se stesso, rifiutava ogni divertimento, si rese conto di quale “dono” potesse lui elargire facendo ridere gli altri:
«Il Padre Maffeo, nella Vita, che scrive del nostro Santo Padre Ignazio, racconta, che andando una volta il nostro Padre in una peregrinazione da Venezia a Padova insieme col Padre Diego Lainez, con certi vestiti molto vecchi e rappezzati, vedendogli, un pastorello s’avvicinò loro, e cominciò a ridersi e burlarsi di essi. Fermossi il Padre con molta allegrezza e domandandogli il compagno perché non camminava e lasciava quel putto, rispose: perché non abbiamo noi da privar questo fanciullo di questo gusto e allegrezza, che gli è venuta? E così se ne stette fermo, acciocché il putto si saziasse di guardarlo, e di ridersi, e burlarsi di lui, ricevendo egli maggior gusto da questo dispregio, che non ricevono quei dal Mondo degli onori e dalla stima» [Alfonso Rodriguez, Esercizio di Perfezione, III].
Gesù testimonia, nel dimenticato e apocrifo Vangelo di Filippo: “Alcuni sono entrati nel regno dei cieli ridendo e sono usciti (ridendo da questo mondo)…”.
Sarà dunque lo spirito (inteso come humour), che permetterà ai poveri di spirito di guadagnarsi il Regno dei Cieli?
[CONTINUA il 18 maggio]