Nel 326 o 327, Sant’Elena, ottuagenaria madre di Costantino il Grande, andò pellegrina in Terra Santa.
Sant’Ambrogio, San Paolino, Eusebio, Rufino, e Sozomeno, assicurano che l’imperatrice fu ispirata da Dio per questo viaggio, e che si prefisse di ricercare la Vera Croce del Cristo sul Golgota. Eusebio la descrive come: “ammonita da divine visioni”. San Paolino: “ispirata da Divino consiglio”; e Sant’Ambrogio precisa che lo stimolo le pervenne “per l’influenza dello Spirito Santo”. Secondo Iacopo da Varazze, invece, fu Costantino che ricevé quel monito celeste: si convertì allora al cristianesimo, e spedì sua madre in Palestina.
Era costume, dicono gli storici ecclesiastici, di seppellire accanto al sepolcro dei criminali giustiziati (e tale era Gesù, per i Romani) gli strumenti di tortura usati per procurar loro la morte. Si riteneva, in genere, che quest’ultimi fossero “oggetti orripilanti”, e che dovessero presto scomparire a ogni vista. Questa doveva esser anche la sorte toccata alla Croce del Cristo: ma non si sapeva bene dove e come fosse stata sotterrata. Cosicché Elena giunse nelle vicinanze del Calvario guidata solo dalla sua visione.
Il Santo Sepolcro era all’epoca invisibile ai fedeli, perché i pagani ne avevano occultato l’esistenza costruendovi sopra un Tempio a Venere, al quale si accedeva recando omaggio a una grande statua di Giove. L’imperatrice – almeno così sostiene Socrate Scolastico – ordinò subito che si radessero al suolo quelle vestigia deturpanti.
Quindi, scavando nel luogo da lei indicato, affiorarono i segni sperati, che testimoniarono la riuscita dell’impresa: accanto a tre croci sepolte, comparve un cartello con l’iscrizione “INRI” (acronimo di “Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum”, ossia “Gesù Nazareno Re dei Giudei”»”), lo stesso che fu posto per ordine di Pilato sulla croce del Salvatore.
Quattro “Hroenir”, li chiamerebbe il Borges di Finzioni – oggetti puri del Desiderio, creati in certo senso dal Desiderio, in quanto “impossibili” da recuperare.
Ora, il problema che si poneva all’imperatrice Elena e al suo seguito, era: come distinguere tra le tre croci ritrovate quella sulla quale fu davvero inchiodato Gesù Cristo?
Il “titolo”, cioè l’iscrizione, non era sufficiente, perché nel corso dei tre secoli che separavano la spedizione d’Elena dalla Passione del Messia cristiano, il cartello si era staccato dalla croce giusta. C’era dunque il rischio concreto d’adorare come reliquia, o peggio come simbolo universale d’un Credo che aspirava a dominare il mondo, lo strumento di tortura al quale era stato attaccato uno dei ladroni che furono compagni del Cristo durante l’agonia. E neppure si sarebbe mai saputo se quella portata da allora e dopo – in guerra, in pace – in processione, o conservata come il più ambito dei tesori, fosse la croce del ladrone buono (Disma, che fu con Gesù in paradiso la notte stessa del Venerdì santo), e non piuttosto o invece quella del ladrone cattivo, il malfattore che aveva dileggiato il Redentore, invitandolo con scherno a schiodarsi dal suo legno.
C’erano dunque tre croci e una sola era quella “Vera”. Erano uguali, evidentemente, e le probabilità di fare la scelta giusta non erano alte: appena il 33 per cento.
Eppure la Croce di Gesù fu scoperta: ci fu la sua “Invenzione”, per dirla con un termine antico ma perpetuato dal canone cristiano.
Ma: come fu trovata questa “prova”? O, viceversa, come fu “provato” questo “ritrovamento”?
Ci si arrivò, prima ancora che per esperimento, per “ragionamento”.
Leggendo il racconto di Socrate Scolastico si hanno pochi dubbi. La “Vera Croce” fu rinvenuta grazie a una forma d’inferenza che si chiama “Abduzione” (o Retroduzione) e che sarebbe stata messa a punto, come metodo euristico, solo nel tardo Ottocento, ai tempi (fittizi) del detective Sherlock Holmes e a quelli (reali) del filosofo Charles S. Peirce.
Che cos’è l’Abduzione?
Si tratta d’una figura logica che Peirce ha esemplificato ricorrendo alla “Botanica”: precisamente servendosi d’un sacchetto di Fagioli.
In una stanza, dice Peirce, c’è un sacchetto che contiene fagioli. Qualcuno l’ha rovesciato, e ha constatato che tutti i fagioli sono bianchi; stabilito questo (come “regola”), posso rimettere i fagioli nella bisaccia. Se poi, più tardi, ne riprendo una manciata, posso lasciarmi andare a una semplice “deduzione”, che non temerà smentita:
DEDUZIONE:
Regola: Tutti i fagioli di questo sacco sono bianchi;
Caso: Questi fagioli provengono da questo sacco;
Risultato: Questi fagioli sono bianchi.
Persino un ipovedente che non abbia alcuna cognizione dei colori, concorderà con l’ultima affermazione, valida sempre e comunque.
Diverso è il caso in cui mi trovo di fronte a una sacca di cui ignoro il contenuto, e comincio a controllarlo. Estraggo un fagiolo dopo l’altro e constato che sono tutti bianchi. Questo procedimento è tipico dell’”Induzione”, una forma di “inferenza” che si può sintetizzare così:
INDUZIONE:
Caso: Questi fagioli provengono da questo sacco;
Risultato: Questi fagioli sono bianchi.
Regola: Tutti i fagioli di questo sacco sono bianchi;
I percorsi sono opposti: nel primo conosco già la Regola; nel secondo la produco, o contando i fagioli, o inferendola per calcolo delle probabilità.
Adesso, basta un solo sguardo a queste formule per intuire che c’è almeno una terza possibilità di combinare questi fattori. Peirce la battezza: “Ipotesi”, e, più tardi, “Abduzione” (o “Retroduzione” – termine, quest’ultimo, un po’ infelice).
“Supponete” – scrive il filosofo – “che io entri in una stanza e qui trovi tanti sacchi pieni di diversi tipi di fagioli. Sul tavolo c’è una manciata di fagioli bianchi. Dopo aver cercato un po’, scopro che uno dei sacchi della stanza contiene soltanto fagioli bianchi. Ne inferisco subito che è assai probabile che la manciata di fagioli bianchi sia stata tratta proprio da quel sacco. Ricorrere a questo tipo di inferenza si chiama fare un’Ipotesi”. Cioè, un’Abduzione:
ABDUZIONE:
Regola: Tutti i fagioli di questo sacco sono bianchi;
Risultato: Questi fagioli sono bianchi;
Caso: Questi fagioli provengono da questo sacco.
Abdurre è: congetturare, e, se dice bene, indovinare. Se non abducessimo, però, di continuo, non sapremmo come affrontare la realtà, e la nostra specie sarebbe stata già spazzata via nella lotta per la sopravvivenza. Tutte le volte che vogliamo risalire da un sintomo (o da una traccia, un’impronta) alla sua causa, noi “abduciamo”. E ciò vale sia per il cacciatore preistorico in cerca della sua preda, sia per il clinico o il fisico moderno che sperimentano nei loro laboratori superattrezzati, sia, ancora, per il poliziotto metropolitano, che col suo “fiuto investigativo” setaccia una strada o perquisisce una stanza in cerca di “invisibili” indizi.
Il Dupin di Edgar Allan Poe, e lo Sherlock Holmes di Conan Doyle, persino loro, i più celebrati detective del mondo, mentre erano sicuri di “dedurre” infallibilmente le loro conclusioni, in realtà le abducevano.
Per Peirce, l’Abduzione è la scintilla della Conoscenza. Io l’ho chiamata, nella Fantaenciclopedia, l’applicazione di una “Fantasia Esatta”.
Per provare, al di là d’ogni dubbio, quale fosse la “Vera Croce di Cristo”, tra le tre sepolte insieme sul Golgota, fu applicata la medesima figura logica: Abduzione. Ma, trattandosi di materia e di capitoli di Fede, tutto avvenne naturalmente fuor d’ogni Logica e di ogni pratica Razionale. Tuttavia, come vedremo, il procedimento fu lo stesso.
Il ruolo dello Sherlock Holmes “ante litteram” lo impersonò il vescovo di Gerusalemme, Macario. Costui, dopo aver a lungo pregato Iddio che l’aiutasse, ebbe un’illuminazione (tale è la forma con la quale si presenta, di solito, l’Abduzione, soprattutto nei romanzi “gialli”), assolutamente risolutiva per ottenere “un segno col quale si potesse discernere la Croce di Gesucristo da quella de’ due Ladroni”. Procedé “per esclusione”.
Lo specifica san Francesco di Sales: “Ora, trovandosi quivi una Donna da lungo tempo inferma d’incurabile malattia, le furono applicate le Croci dei due Ladroni: ma in vano perché la morte non le teme nulla. Subito che fu toccata dal Legno della Santa Croce, la morte se ne ritirò prestamente ben di lontano, non potendo sopportare la forza della Croce. Così quella Donna si levò in un istante risanata camminando, e lodando il Crocifisso. Oltre che San Paolino, Sulpizio, e Sozomeno raccontano, che risuscitasse anche un uomo morto al tocco di questo Santo Legno”.
Volendo riassumere, ecco il modello secondo il quale ha “ragionato” il vescovo Macario, quando ha costretto una povera donna già sull’orlo della tomba, a distendersi su un vecchio strumento di tortura putrefatto:
ABDUZIONE della “VERA CROCE”:
Regola: La Croce di Cristo, se è di Cristo, “fa miracoli”.
Risultato: Questa Croce ha operato un miracolo su una donna inferma.
Caso: Questa Croce, dunque, è quella di Cristo.
E vorrei sottolineare, come encomio, che non era affatto facile trovare quella soluzione, che solo a causa del lavoro ottusivo degli agiografi ci sembra oggi assolutamente “scontata”.
Venticinque anni dopo l’Invenzione di sant’Elena (e soprattutto di Macario), secondo la testimonianza di san Cirillo di Gerusalemme il legno della Vera Croce, tagliato in fettucce sottili, era già sparso per tutta la Terra. “Se ne staccarono alcune volte dei pezzetti, i quali davansi alle persone pie senza però che il sacro legno ne venisse a scemarsi“; e questo prodigio fu a ragione paragonato “a quello che operò Gesù Cristo quando nutrì miracolosamente cinquemila uomini nel deserto”.
Nel Settecento, Voltaire calcolò che raccogliendo tutti i frammenti della “Vera Croce di Gesù” detenuti nelle chiese o nei tesori dei potenti di tutto il mondo, si sarebbero potuti “costruire due o tre vascelli da cento cannoni”. Ma quello di “figliare” è, in generale, il destino di tutte le “Reliquie”.