Abdul-Hamid II, l’efferato sultano che regnò sull’Impero turco dal 1876 al 1909, non dormiva mai due notti di seguito nella stessa stanza.
Anatole France lo definì: “il Despota folle di spavento”.
Sospettoso d’ogni forma di critica o di ribellione, viveva nel perenne timore d’essere destituito o assassinato. Era un paranoico, ma le sue ansie non erano del tutto infondate: fu oggetto d’un attentato dinamitardo al quale sfuggì miracolosamente, ma al suo posto morirono 30 persone. Le sue paure lo trattennero dal viaggiare nel suo enorme impero – si limitò quindi a collezionare fotografie dei territori che dominava.
Eccezionalmente dedito al delitto, Abdul-Hamid II godeva nel condannare a morte e sterminare i sudditi più turbolenti .
Benché ignorante, e quasi analfabeta, “la notte prima di addormentarsi” – racconta in confidenza uno dei suoi ciambellani, George Dorys – il despota “vuole che qualcuno lo intrattenga leggendo; i suoi libri preferiti non sono pieni d’altro che di resoconti d’assassinii o di esecuzioni capitali. I crimini, finché ne viene descritta la preparazione, lo eccitano oltre misura e gl’impediscono di addormentarsi; ma non appena si arriva ad un passaggio dove finalmente c’è un grande spargimento di sangue, subito si calma e si fa vincere dal sonno”.
Secondo il ponderato giudizio di Pierre Quillard, “nessun uccisore d’uomini eguaglierà mai Abdul-Hamid”.
Il sultano fu effettivamente deposto il 27 aprile del 1909, dopo una sollevazione militare capitanata dai “giovani Turchi”. Appena un anno prima, aveva acquistato per 400 mila dollari il famoso “diamante blu Hope”, considerato il più potente portasfortuna del Pianeta. Gli subentrò il fratello, Mehmet V, il quale per non essergli da meno massacrò presto decine di migliaia di cristiani armeni, già decimati in precedenza dalla dura repressione di Abdul-Amid II. Detronizzato, il sultano venne esiliato a Salonicco, e poi trattenuto sotto sorveglianza a Istambul, Dove ebbe agio e tempo di impazzire del tutto.
[in copertina: Abdul-Hamid, disegno di Jean Veber da “Le Rire” del 29 maggio 1897]