I– Il cesto di papiro
Perché Mosè mantiene il suo nome egiziano, anche quando è tornato tra il suo popolo? Non si trovò nessuno che ricordasse il nome che aveva, prima che la madre lo abbandonasse? Non lo sapeva Aronne, suo fratello?
Mosè è il più grande dei profeti, tra gli Ebrei: nessun altro ha fatto tanti miracoli e prodigi. Nessun altro si è prodigato alla stessa maniera per il popolo di Israele. Da cosa dipende questo suo primato? Come dimostra il suo nome, che ha solo un’assonanza con l’ebraico, Mosè era un Egiziano, perché era cresciuto tra loro come uno di loro. Mosè fu un traditore degli Egiziani. Espugnò dall’interno, come sostiene Buber, la roccaforte del nemico. Il suo cavallo di Troia fu la cesta di papiro in cui fu abbandonato, neonato, sul Nilo.
Anche se pare che questo particolare della cesta sia stato inventato successivamente, come plagio della storia assai più antica di un re semita, Sargon di Akkad).
Ciò che rende assolutamente grande e unico Mosè è, comunque, la capacità di tradire chi gli ha dato ospitalità, ricchezza e fama.
Come “Traditore” doveva incontrare il plauso e il successo tra gli Ebrei: è forse per questo, che il suo nome da Egiziano è stato mantenuto?
II– I “due” Decaloghi
In una tradizione raccolta da uno scriba alessandrino del V secolo dell’era volgare, e che ci è giunta in frammenti sotto il titolo di Teosofia, leggiamo che Mosè scrisse due decaloghi. Solo il secondo è identico al Decalogo che ben conosciamo, e che è illustrato in Esodo (20, 2-17). La prima, e più remota, lista divina di Ingiunzioni, si limiterebbe a dire “Atterrerete i loro altari, spezzerete le loro stele, abbatterete i legni a loro consacrati, etc.”, e queste stesse formule compaiono in effetti successivamente nel libro dell’Esodo (34, 13-26). Un passo, commenta Martin Buber, “dal quale in verità solo a fatica si riescono a tirare fuori dieci comandamenti”.
Anche Goethe era convinto che il Decalogo che ci è giunto non contenesse per nulla le leggi del patto originale tra l’Altissimo e gli Israeliti.
Al di fuori delle congetture, qualsiasi lettore sprovveduto della Bibbia sa che fin dal principio le Leggi di Dio furono duplici, e noi infrangiamo, o osserviamo, solo le seconde.
Le tavole di pietra originarie Mosè le sbriciolò contro il vitello d’oro. È lecito chiedersi allora se il primo e il secondo Decalogo scolpiti da Dio contenessero esattamente le stesse Prescrizioni.
Infatti: perché moltiplicare le tavole? Perché un Dio Onnisciente avrebbe fatto la fatica di ripetersi, per ottenere ciò che andava imposto una volta sola? I dubbi sono ammissibili.
Come prevenendo l’obiezione (e assecondando un paradigma ricorrente nella lettura della Legge da parte dei più dotti tra i rabbini), il Signore stesso tranquillizza Mosè dicendogli: “Tagliati due tavole di pietra simili alle prime: su queste tavole io scriverò le parole che erano sulle prime che tu hai spezzato” (Esodo, 34,1). Ma Iddio non afferma mai che si accingeva a replicare tutto quello che era trascritto sulle pietre originali. Forse, c’era di più.
È possibile (ma lo suggerisco con cautela) che, in calce, i primi Comandamenti riportassero una formula “magica” che avrebbe reso le tavole esplosive, al contatto con l’idolo abietto? E non somiglia a una formula magica, rivolta alle pietre stesse, e non agli Israeliti, quell’ “Abbatterete i loro altari, spezzerete le loro stele, abbatterete i legni a loro consacrati, etc.”, che la Teosofia scambia per il vero Decalogo?
È verosimile insomma che, nella lungimiranza divina, le prime tavole fossero state scritte proprio in funzione della loro prevista, e prossima, distruzione: di modo che i Comandamenti originali coincidessero inesorabilmente, grazie a Mosè, con l’atterramento dell’altare diabolico, la polverizzazione della stele idolatra, e la rovina dell’impalcatura lignea che sorreggeva la scultura del Vitello d’Oro. In questo caso, il potere “magico” delle prime Tavole sarebbe evidente e storico, perché esse hanno ottenuto l’effetto desiderato.
III- Mosè come “Freak”
“O credenti!”, dice il Corano (XXXIII, 69), “non siate come coloro che molestarono Mosè: già Allah lo scagionò da quello che avevano detto”. Il passo si riferisce a una tradizione poco nota. Mosè era solito fare il bagno coprendosi le vergogne con un panno, contrariamente a tutti i suoi correligionari. Corse allora voce tra gli Ebrei che volesse nascondere in tal modo la sua deformità. Allah fece in modo però, che i suoi consanguinei lo vedessero, almeno una volta , completamente ignudo. Secondo gli interpreti più benevoli, lo scandalo cessò immediatamente. Un’altra versione della stessa leggenda, riportata da George Sale nelle sue annotazioni al Corano, precisa che mentre il legislatore degli Ebrei si bagnava a parte in un fiume, completamente spogliato, e aveva posato i vestiti su una pietra, allora, per l’intervento di Dio, la pietra corse via per i campi, trascinando con sé anche i suoi abiti; Mosè prese a inseguirla finché, nudo com’era, fu visto da tutti. Cessarono quindi i pettegolezzi degli Israeliti – alcuni dei quali pensavano che Mosè fosse ermafrodito.
Mosè non era un Freak ma almeno un handicap lo aveva: era balbuziente. Legislatore e profeta senza uguali, Mosè risultava incomprensibile agli Ebrei. Era cacaglio, bleso nel palato, claudicante nell’eloquio. Come sottolinea Buber, “è un balbettamento che porta la voce di Dio sulla terra”.
Non so se questa menomazione abbia preceduto la sua fuga nel deserto, ma quando tornò in Egitto per incontrare il Faraone, gli parlò, lo minacciò, sempre zagagliando. Farfugliava anche presso il suo popolo e i suoi amici e sodali più stretti, al punto da descrivere se stesso in questo modo: “Io sono incirconciso di labbra” (Esodo, 6, 12 e 30).
“Incirconciso di labbra”, è una bella immagine – chirurgica, però, più che poetica.
La Voce di Dio, che dall’interno gli dettava le parole da dire, metteva a dura prova le sue corde vocali: ne usciva un bofonchiare intermittente, una zeppola che impastava i suoni in un borbottio difficilmente distinguibile. Il profeta balbuziente sortisce, secondo Buber, un effetto ancora più devastante sulla corte del re d’Egitto: “il suo goffo modo di parlare con cui un Dio straniero gli fa muovere la bocca balbettando serve solo ad accrescere il terrore” delle piaghe che promette.
IV- Fino all’ultimo respiro: Mosè come Cronista della propria morte
Il marrano Isaac de La Peyrére (nel 1656) era dell’opinione che, visto che il Pentateuco narra con dovizia di particolari la morte di Mosè, la circostanza fosse sufficiente a indicare che il Liberatore degli Ebrei non era affatto l’autore dei primi Libri della Bibbia. Un rabbino del primo secolo avrebbe trovato blasfema e ridicola questa obiezione. Mosè infatti era un Profeta. In più, ciò che tramandava non era opera sua: era Scrittura ispirata direttamente dall’Altissimo. Quindi Mosè, anche se imbambolato e in estasi per quella ispirazione, poté conoscere il proprio destino e quello della sua gente, e saggiamente non fece nulla per modificarlo.
Forse Iddio per servirsi di lui ragionò come Benjamin Disraeli – premier britannico, che diceva: quando voglio intrattenermi con un buon libro, me lo scrivo da solo. Ma questa è un’altra Storia.
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[in copertina: Mosè e sua moglie, l’etiope Zipporah, di Jacob Jordaens]