I- Ne Il ramo d’oro James George Frazer ricorda a noi, colonizzatori, che sono sempre esistiti sulla faccia della Terra popoli anonimi la cui Storia non è stata raccontata neppure dai loro conquistadores. Perché? Per inesistenza di parole. Perché i nomi dei protagonisti delle storie locali erano labili, fragili, ondivaghi, facilmente traslocabili nel nulla. Innominati e Innominabili.
Mentre i Tabù proibiscono solo che certi Nomi vengano detti esplicitamente, parodiati o allusi, la Morte fa di più: la Morte se li porta via.
I nativi americani Klamath, per esempio – racconta lo studioso –, non possedevano tradizioni storiche, perché gli eroi non mitologici di cui valeva la pena tramandare le gesta, erano morti, chi da più, chi da meno tempo: e per loro come per moltissimi altri popoli cosiddetti “primitivi”, il nome di un Morto è impronunciabile. In California e in Oregon chi contravveniva a questa rigida legge veniva condannato a morte dalla comunità. E la memoria di lui scompariva, come se non fosse mai esistito. Tra i Lengua, dopo un decesso, tutti gli abitanti del villaggio cambiavano simultaneamente Nome.
La mortalità incide così drasticamente sul Vocabolario, che scompaiono, nel giro di poche generazioni, intere lingue codificate. Gli idiomi cambiano di continuo, e all’improvviso. “Certe tribù mettono ai bambini dei nomi di oggetti naturali e quando la persona così chiamata muore, la parola non si pronuncia mai più”. Frazer esemplifica parlandoci «d’un uomo il cui nome era Karla che vuol dire “fuoco”; quando Karla morì si dové introdurre un nuovo nome pel fuoco». Nei sette anni che il missionario Dobrizhoffer passò tra gli Apiboni del Paraguay, “la parola indigena per giaguaro fu cambiata tre volte, e quelle per coccodrillo, spina, e uccisione di bestiame ebbero quasi altrettante vicende».
Proibiti i necrologi, una grande potenza inventiva si impadroniva del Lessico, e infiniti nuovi termini, sconosciuti ai vicini, rendevano babelici i villaggi degli aborigeni d’America e d’Australia. Quando una parola veniva abolita a causa d’una recente dipartita, non tornava più, e subito faceva fortuna una nuova. Tra i già citati indios Apiboni “la Zecca della parole era in mano alle vecchie della tribù e qualunque parola esse approvassero e mettessero in circolazione veniva immediatamente accettata”.
Rammarica però, che non si conoscano più particolari su questa “fucina di neologismi”: i missionari dovevano studiar meglio la nascita delle nuove parole. È una fortuna non da poco assistere alla genesi dei processi linguistici, andando alla fonte delle Etimologie.
Resta comunque misterioso come mai i presunti popoli “selvaggi” d’America e d’Australia si ostinassero a denominare con lo stesso termine le persone e i solidi, i vegetali e gli animali più diffusi sulle loro terre. In Occidente, forse per aggirare gli stessi tabù, sono più rari i nomi che, oltre a indicare luoghi d’origine, santi, e festività, collimino con entità specifiche o con espressioni diventate d’uso comune.
II- Il Nome è il nostro “doppio” più indifeso: chi lo conosce può gettare su di noi un incantesimo maligno. Quindi, la ridda di divieti e premunizioni di cui abbiamo parlato fino adesso ha uno scopo preciso: impedire che del nome si impadroniscano gli spiriti.
Per questa ragione sono sempre state numerose le popolazioni dove i tabù riguardano, oltre che i Morti, anche i Vivi – e in particolare, tra loro, i parenti o i congiunti più stretti: mariti, padri, madri, figli, suoceri. Ne scaturiscono tribolazioni che amareggiano non poco la vita famigliare.
“Tra i Cafri” africani – avverte Frazer – “una donna non può pronunciare pubblicamente il nome di nascita di suo marito e dei fratelli di lui, né usare la parola interdetta nel suo significato ordinario”. Ciò significa, trasponendo il tabù in italiano, che se il marito fa nome Armando, le sarà proibito il gerundio del verbo “armare”; oppure, se il suo sposo si chiama, supponiamo, Leone, non potrà gettare l’allarme quando sarà assalita dalla bestia omonima.
“Presso parecchie popolazioni bantu”, aggiunge il filosofo Cassirer, “le donne non possono pronunciare il nome del marito e del padre di lui”. La conseguenza di queste proibizioni è inevitabile: ne risulta un ménage matrimoniale particolarmente babelico e movimentato, condotto al principio soprattutto a gesti. Ma dura poco. Le bantu “sono quindi costrette, poiché non è loro permesso nemmeno di usare i corrispondenti appellativi, alla coniazione di nuove parole”. Nei villaggi dei bantu Cafri, assicura ancora Frazer, questa tradizionale coercizione ha prodotto “un linguaggio quasi distinto”, che viene chiamato “lingua delle donne”. Ugualmente, “tra i Caribi la lingua parlata dagli uomini differiva in certa misura da quella parlata dalle donne”.
L’Onnipotente della Bibbia, scagliando la sua maledizione sulla Torre, avrebbe mai immaginato che la Babele delle Lingue sarebbe diventata, prima o poi, così “sessista”? E che si sarebbe diffusa e intrufolata casa per casa a dividere marito, moglie, e altri famigliari, fino a questo punto?
Le turbe peggiori indotte da una tale instabilità terminologica Frazer le rilevava nelle isole Banks, in Melanesia. Laggiù, “due persone i cui figli si siano sposati fra loro non possono pronunziare i nomi l’uno dell’altro” senza attirare su di sé l’attenzione dei dèmoni e, quasi sempre, la morte. I consuoceri, o anche certi individuabili congiunti, nemmeno «devono pronunciare le parole comuni che siano per caso identiche con quei nomi o abbiano sillabe in comune con essi. Così sappiamo di un indigeno di quelle isole che non poteva dire le parole comuni “porco” e “morire” perché queste parole si trovavano nel nome polisillabico di suo genero, e d’un altro disgraziato sappiamo che non poteva pronunciare le parole comuni “mano” e “caldo”’ a causa del nome del fratello della moglie, e che non poteva neppure dire la parola “uno” perché questa faceva parte del nome del cugino di sua moglie».
Immaginiamo le difficoltà d’un Baudelaire, d’un Leopardi, se fossero stati Melanesiani invece che europei. È probabile che l’Infinito non sarebbe stato mai scritto, a causa di due cognati, un suocero e quattro cugini.
[in copertina: Il Principe Nero, di Paul Klee]