A ottantaquattro anni compiuti, ogni giorno, al risveglio, era riconoscente, giulivo, “perché al mattino uno tocca con mano che gli è dato di vivere un giorno di più”. L’Epilogo l’avrà sorpreso, ancora una volta, stupefatto del mondo. Lo stupore infantile e fantastico che fosse davvero finita, che quel “patto con chiunque, fuorché con il diavolo”, ch’era ansioso di siglare per procurarsi l’immortalità, quel contratto che avrebbe sottoscritto dovunque, “senza leggere neanche le clausole”, nessuno, gliel’avesse mostrato e fatto firmare.
Adolfo Bioy Casares ci ha lasciato l’8 marzo 1999, per poco non ha visto il secolo nuovo. Era nato il 15 settembre 1914.
Bioy non civettava con la morte come l’amico Borges, uno che, come certi personaggi dei propri racconti, si sarebbe ucciso per un avverbio o per continuare in pace, nell’aldilà, una discussione o una lettura interrotta dal chiasso dei contemporanei. Per la vecchiaia Adolfo aveva, sì, parteggiato, ma solo quando ne era prudentemente lontano, ai tempi del Diario della Guerra al Maiale (1967), cronaca profetica di un futuribile sterminio di tutti gli anziani. Provava repulsione e fastidio per i medici, le medicine, gli ospedali: si sentiva, in questo, fratello di Buzzati e dei suoi racconti.
Fino agli ultimi anni, fu consapevole del suo fascino. Diceva di sé d’aver avuto “discreta fortuna con le donne”. Un’amica argentina, Sara Gallardo, mi raccontò la leggenda secondo la quale in quasi tutte le migliori famiglie di Buenos Aires vi sarebbero stati almeno i segni, se non i frutti illegittimi, del suo passaggio “amorevole”.
In gioventù, era stato un buon attaccante di football, un buon trequartista di rugby, un ottimo “singolarista di tennis”. “Allora le piace mettersi in mostra, è un individualista?”, azzardò una volta con lui un intervistatore. “Non sempre, in amore per esempio preferisco il misto“, rispose. Ma era nato per fare il letterato, e una vita nata per la letteratura la si sfoglia tra un epilogo e un prologo.
Prologo si chiamava il suo primo romanzo. Aveva diciassette anni, allora. Era un titolo – rievocandolo ne provava vergogna – che ostentava un programma: doveva introdurre alla sua opera futura. Questo primo libro comparve, come d’incanto, nella collana più ambita dalle giovani promesse della letteratura argentina. Solo quarant’anni più tardi il padre gli confessò di avere pagato l’editore per farlo pubblicare. Ma a quell’epoca Bioy Casares aveva già disconosciuto sia Prologo, sia i cinque libri successivi: “i peggiori della letteratura mondiale”. Il resto non è oltraggio, né “iperbole” annoverarlo oggi tra “il meglio” di quella Letteratura: L’Invenzione di Morel, Piano di evasione, Il sogno degli eroi, Dormire al sole.
E poi, non dimentichiamo i Racconti, una forma narrativa di cui fu indiscusso Maestro: su tutti, quelli della raccolta La Trama Celeste, o gli altri che compaiono nelle sue Storie fantastiche e le Storie d’Amore.
Perfino le sillogi compilate da solo, o con gli amici, sarebbero sufficienti – come Opere Autonome – a garantirgli una solida, meritata e postuma fama: l’Antologia della letteratura fantastica (scritta con sua moglie Silvina Ocampo e con Borges), Il Libro del Cielo e dell’Inferno, e De Jardines ajenos, pubblicato nel 1997, il vero testamento, il lascito estremo. Più che un libro di memorie, quest’ultimo, la “Memoria di Tutti i Libri”. Lo descrisse così, sul sito del Clarin: “durante tutta la vita ho annotato in un copioso quaderno le frasi, i brevi poemi che mi sembravano belli, strani e persino ridicoli. Questi testi riuniti insieme formano il libro De Jardines ajenos“.
“Hermosos, extranos, y aun ridiculos”: sembra di sentire, risaliti alla sua fonte segreta, il gorgoglio del Fantastico autentico – miscuglio perturbante di insolito, sublime e risibile.
Adolfo Bioy Casares sta alla letteratura fantastica, forse, come Felix Mendelssohn Bartholdy alla musica. Un genio, cui nessuna vetta è preclusa, adorato e trascurato insieme: perché raramente all’artista critici e pubblico perdonano che non esibisca sudore, pianto e fatica, nell’invenzione dell’opera propria; che non si compianga e lamenti, che non soffra e si “impegni”, che tutto gli riesca facile e semplice giù dalla penna, inanellando, una dopo l’altra, gemme perfette.
“Perfezione” è la parola chiave per comprendere Bioy. E infatti, dopo L’invenzione di Morel (1940), lo accompagnò sempre il giudizio, che insieme fu condanna e profezia, del suo amico Jorge Luis Borges: Bioy Casares è stato ed è un “ideatore di trame perfette”.
Se un’immaginaria “Scuola di Buenos Aires”, come la “Scuola di Atene”, ci rappresentasse in un unico affresco il miracolo della letteratura argentina, progenitrice del “fantastico” della fine del secolo scorso, è probabile che vedremmo ritratti così i suoi fondatori: Borges terrebbe l’indice puntato in alto come Platone, Julio Cortázar, sulla terra, come Aristotele. Bioy indicherebbe, sorridendo, tutti gli altri Universi, gli infiniti universi che restano. La perfezione non è di questo mondo, ma neanche dell’Altro. Però forse Bioy non sarebbe neanche lì, in quel quadro. Sarebbe direttamente nel Parnaso.
Non per niente Borges lo nominava “Maestro”. Ancora prima di firmare insieme con pseudonimo improbabile (“Bustos Domecq”) le spiazzanti e geniali “parodie gialle” di don Isidro Parodi, Borges gli attribuì il merito di averlo “iniziato” alla pratica della Letteratura Fantastica. Quindici anni li dividevano, e prima del loro incontro entrambi non avevano scritto nulla di interessante. “Ci eravamo conosciuti nel 1930 o 1931 – ha raccontato Borges in un Abbozzo di autobiografia – quando lui aveva circa 17 anni e io avevo appena passato la trentina. In questi casi si dà sempre per scontato che il più vecchio sia il maestro e il più giovane il discepolo. Questo può essere stato vero in principio, ma diversi anni dopo, quando cominciammo a lavorare insieme, fu Bioy che segretamente divenne il vero maestro, opponendosi al mio gusto per il patetico, il sentenzioso e il barocco. Bioy mi fece capire che la quiete e la misura sono più desiderabili. Se mi si permette una affermazione un po’ assolutista, Bioy mi portò gradatamente verso il classicismo”.
Un’altra frase di Borges, sepolta in un racconto di Finzioni, rivela l’ambizione taciuta di Adolfo: scrivere libri il cui vero significato e la cui trama reale sarebbero stati alla portata di pochissimi lettori. Con gli Dei del Fantastico, nel suo Parnaso, Bioy come Apollo parlava una lingua segreta: per gli altri restava lo scintillìo della perfezione, la prosa tersa e precisa come il balenìo di un colpo di fioretto. Come se Adolfo Bioy Casares fosse l’acronimo, l’A.B.C. del fantastico.
Il ricorso a questo abbecedario non sembri un artificio retorico: ci piace ricordare che Bioy si è formato, come letterato fantastico, su quell’altro “abbecedario” del genere che è il Pinocchio di Collodi.
Da allora, dal se stesso bambino avido lettore di Collodi e dei suoi epigoni spagnoli, Bioy Casares ha attivato e alimentato dentro di sé una “macchina fantastica”, una “macchina per raccontare storie”. Si svegliava, e mentre si rassettava, lo visitavano, lo inquietavano storie. Di cui doveva liberarsi. Il che, nel campo della narrazione fantastica, significa: complicarle con varianti e combinazioni infinite, finché la Fantasia, da imperfetta, non fosse diventata “Esatta”.
Adolfo Bioy Casares scriveva di fantastico in modo smaliziato in un’epoca che considerava “disincantata”. E lo era davvero, l’epoca post-Atomica, molto più della nostra, quella attuale. Studioso del genere, delle sue tecniche e delle sue regole, non ignorava che il lettore o la lettrice di Fantastico, oggi come nel XX secolo, si pone davanti al testo con precise aspettative, da intenditore,
Come teorico Bioy è stato altrettanto apollineo, altrettanto diretto e tagliente, altrettanto terso e perfetto che come scrittore. Secondo lui il carattere insopprimibile, il segreto dell’ “effetto fantastico” è la Sorpresa.
In un’intervista rilasciata al principio degli anni ’70, Bioy Casares parlò di un romanzo che avrebbe voluto scrivere, ma che non vide mai la luce.
C’era, in questa storia, un uomo che si lasciava andare completamente al suo mondo di Sogni, che viveva di notte, a suo agio, dentro i propri Sogni. Al punto di trascurare la famiglia e abbandonare il lavoro. I vicini e gli amici gli aizzavano contro la moglie e lo pungolavano di continuo perché si cercasse una nuova occupazione, e si scuotesse una volta per tutte dalle sue notturne Fantasticherie.
Finché, un giorno, i personaggi che popolano i suoi Sogni si irritano, irrompono nella Realtà, “agguantano moglie e amici, li processano e li giustiziano”.
Ecco il modo col quale il Fantastico trova la soluzione “esatta”. Inaspettata e “sorprendente” a ciò che narra o finge di narrare.
Per suscitare la Sorpresa sono necessari alcuni ingredienti che possono sembrare semplici solo ai dilettanti: rivolgersi al lettore con un testo tranquillo, realista e – quando si è abituato al tono della narrazione, alla “familiarità” degli eventi – di colpo, introdurre il “fatto” o l’effetto “fantastico”. Ma la Sorpresa non si arresta qui: il “lavoro” dei lettori e, insieme, dell’autore, sull’inatteso, sul sorprendente, è altrettanto necessario al Fantastico quanto l’introduzione di un effetto perturbante. Di fronte a questo compito (che non teme di essere scambiato per Gioco, e schiva ogni accusa di “superficialità” o di “invito all’evasione”), di fronte a questo scatenarsi di forze libere e combinatorie, si capisce perché Bioy abbia sempre ignorato, nonostante le apparenze e persino le “nostalgie” degli ultimi anni, la “forma” del romanzo borghese e del racconto realista.
Sarebbe utile, in questo senso, rileggere “Un pomeriggio di Ramon Bonavena”, un racconto delle Cronache di Bustos Domecq scritte con Borges, per comprendere fino in fondo cosa Bioy pensasse veramente del suo avversario, il Realismo.
Ramon Bonavena, letterato realista coerente, spende tutta la vita a descrivere il “vero” ambiente in cui vive: la morte lo coglie quando, dopo interminabili e prolissi volumi, ha appena (e solo) finito di descrivere l'”angolo nord-nord ovest della propria stanza”.
Noi, invece, siamo riconoscenti a Bioy Casares proprio per il contrario: per averci narrato, fino alla fine dei suoi giorni, con dovizia e concisione, altri Universi, altri Labirinti, Altre Storie: in cui può capitare – deo gratias – che un nostro contemporaneo inciampi e scivoli nel XVII secolo invece che sul pavimento del proprio sgabuzzino. Un altro Tempo, un tempo in più: proprio di questo avevamo bisogno.
[il 19 settembre, sul sito: “Schopenhauer in Guyana”, un saggio di Marco Bascetta e Franco Porcarelli su Piano di Evasione, romanzo di Adolfo Bioy Casares]