I- La Prima Casa
Adamo era la misura di tutte le cose: egli non imitava il mondo, o la natura, ma era una creatura perfetta e autosufficiente, e quindi poteva farne a meno.
Filarete, nel suo Trattato sull’Architettura, volle dimostrare che la prima “casa” di Adamo, cioè il primo “tetto” che gli diede un po’ di riparo e di sollievo dopo la Cacciata, – e di conseguenza la prima abitazione mai comparsa sulla terra – furono le mani stesse del nostro Progenitore, intrecciate a grondaia sulla testa, per proteggersi dalla pioggia.
La buona riuscita di questo espediente, solo in apparenza semplice, suggerì, ad Adamo, l’ ispirazione a realizzarsi una casa vera, ma anch’ essa debitrice della forma delle sue Mani: intuizione che non gli avevano suscitato, né la vista di una grotta , né il ricorso a un altro riparo naturale, come le fronde degli alberi.
Come sostiene appunto Filarete: “subito che Adamo fu cacciato del Paradiso et piovendo et non avendo altro più presto ricovero, si misse le mani in capo per difendersi dall’acqua […] et é da credere che Adamo, fattosi tetto con le mani, considerato il bisogno per lo suo vivere si pensò et ingegnossi di farsi qualche habitatione per difendersi da queste piogge et anche dal caldo del sole”.
Insomma, Filarete (come del resto, anche Vitruvio), pensava vi fosse un rapporto diretto tra architettura e corpo umano, non nel senso ovvio che questa dovesse esser fatta a misura, utilitaria, di quello, ma nel senso contrario: che il disegno di ciò che si aveva il fine di costruire andava “modellato” anatomicamente sull’uomo e sulla donna.
Poiché Adamo era il frutto diretto di Dio, quella era la garanzia della bontà e della divinità di tutta l’Architettura.
Secondo una tradizione islamica riportata da Zolla, però, Adamo, per trovare un’abitazione, non ebbe bisogno né di essere architetto, né di ispirarsi alle proprie mani. La casa di Adamo era la Kaaba della Mecca, una casa di rubino scintillante donatagli dagli angeli, per consolarlo della perdita del Paradiso.
II- La Cittá-Carpa e il Tempio-Tartaruga
Da Frazer (Il Ramo d’Oro) traggo questo racconto insolito e curioso:
“Un’altra applicazione della massima che il simile produce il simile si riscontra nella credenza cinese che le fortune di una città siano profondamente influenzate dalla sua forma […]. Cosí si racconta che molto tempo fa la città di Tsuen-cheu-fu, il cui contorno somiglia a una carpa, cadde spesso in preda ai saccheggi della vicina città di Yung-chun, che ha la forma di una rete da pesca, finché gli abitanti della prima città concepirono il piano di erigere nel mezzo di essa due alte pagode.
Queste pagode, che ancora torreggiano sulla città di Tsuen-cheu-fu, hanno da allora esercitato la piú felice influenza sui suoi destini, intercettando l’immaginaria rete prima che potesse discendere e avvolgere nelle sue maglie l’immaginaria carpa.
Una quarantina d’anni fa i saggi di Shangai dovettero penar molto a scoprire la causa d’una ribellione locale. Dopo accurata inchiesta acquistarono la certezza che la ribellione era dovuta all’aspetto di un nuovo e grande tempio, che era stato, assai sfortunatamente, costruito in forma di tartaruga, un animale dal peggior carattere che si possa immaginare”.
III- Il Palazzo che fu costruito a partire dal Tetto
Ogni giapponese devoto all’imperatore è tenuto a visitare il grande santuario scintoista di Ise almeno una volta nella vita.
L’edificio contiene, tra l’altro, lo Yata no Kagami, lo specchio originale che fu di Amaterasu-Omikami, la dea del Sole. Costei, un giorno remoto, per protesta si ritirò in una grotta, precipitando l’Universo intero nell’oscurità. Per convincerla a uscire, gli altri dèi astutamente lasciarono fuori del suo rifugio uno specchio. Amaterasu, gettato lo sguardo in un piccolo spiraglio, fu attirata dal proprio riflesso luminoso; tanto ne rimase stupefatta, che venne quindi “pescata” come certi pesci curiosi, e agguantata da una robusta divinità. Da allora la Luce è tornata a splendere sul mondo, e i giapponesi sono molto riconoscenti, perciò, a questo specchio di bronzo, uno dei tre sacri tesori che fanno parte delle insegne dell’Impertore del Giappone.
Del sacrario di Ise si hanno notizie certe a partire dall’anno 690. Al visitatore d’oggi, il complesso appare nuovo, fiammante. Ma sbaglia chi pensa che sia ben conservato. In verità, i padiglioni principali sono stati distrutti e ritualmente ricostruiti, sempre, ogni venti anni, dal 692 fino al 2013. Neanche sulle stesse fondamenta, ma nelle adiacenze dell’edificio precedente.
Il Tempio è così descritto da Ryckwert: “l’aspetto più singolare è costituito dal fatto che il tetto non è sostenuto dalle pareti”.
Sembra una stravaganza; ma lo storico dell’architettura spiega l’arcano. La trave di colmo, che regge e percorre lo scheletro del tetto, poggia su due grandi colonne infisse profondamente nel terreno. Come se il tetto fosse un parapioggia, o un parasole, intendo, e l’edificio vi fosse stato costruito, dopo, all’interno e tutto intorno.
“Cominciare un palazzo dal tetto”, per definizione non si può: ma il Tempio di Ise dimostra il contrario. Per questo, per il suo specchio magico (del quale non esistono foto o disegni), e per le frenetiche e misteriose distruzioni e ricostruzioni, mi pare uno dei luoghi più fantastici della terra.
IV- Il Carcere Infernale di Ashoka
In modo perennemente imperfetto, uomini folli o superbi hanno provato a copiare Cielo e Inferno, a rifondarli sulla Terra.
Cito da Borges e Bioy Casares (Libro del Cielo y de l’Inferno): “Imperscrutabile azzardo della Provvidenza! Un despota [il Vecchio della Montagna, nel racconto di Marco Polo] macchinò un Paradiso; un Sovrano, sapiente e santo, cadde nella tentazione inversa di ordire un Inferno.
Tre secoli avanti l’era cristiana, Asoca, Imperatore dell’India, ordinò ai suoi architetti e muratori l’erezione di un inferno terreno, ricco di montagne di coltelli e pile di olio bollente. Un monaco buddista […] fu il penultimo dei suoi ospiti; i gendarmi lo scagliarono in una delle terribili pignatte, il cui olio, al contatto del corpo venerabile, si convertì in acqua tiepida, fiorita di loti. Asoca non fu sordo a questo avvertimento e ordinò la demolizione del recinto”.
Borges e Bioy Casares attribuiscono il brano citato a un certo P. Zaleski, autore di Mémoires d’un bouquiniste de la Seine; ma si tratta d’un falso evidente, in omaggio al protagonista di alcuni racconti di Matthew Phipps Shiel.
L’Inferno di Ashoka (o Asoca) – però – non è una fantasia analogica e compensativa del Paradiso di Hassan Ibn Sabbah o di Sinan, Vecchi della Montagna, o una delle “simmetrie” letterarie tanto amate da Borges e Bioy Casares. È esistito veramente. Due viaggiatori cinesi, Fa-Hsien e Yuan Chwuang (Hsuan-Tsang), in secoli diversi, ne videro le rovine. L’Inferno-in-Terra era il Carcere Reale, costruito su espresso desiderio di quel feroce sovrano indiano, assassino di sei suoi fratelli. Esso abbondava di strumenti di tortura. Si racconta che Ashoka avesse ordinato che nessuno, di quelli che entravano nella prigione, ne potesse uscire vivo, almeno finché non fossero stati uccisi lì dentro diecimila detenuti. La camera delle torture era nascosta dietro le mura d’un palazzo di piacevole aspetto. Un monaco buddista, Samudra, vi penetrò per errore. Subito condannato ad essere immerso nell’acqua bollente e fumigante di sangue e di escrementi, Samudra sfuggì prodigiosamente alla morte. Ashoka volle constatare questo miracolo di persona, e andò a visitare il suo Inferno. Kandagirika, carnefice e guardiano del carcere, fece rispettosamente notare, al re, che – secondo i suoi ordini – una volta entrato là dentro, lui stesso non poteva uscirne vivo. Si dice allora che il carceriere irrispettoso fu arrostito in un calderone e che Ashoka, convertitosi quel giorno al Buddismo, decretò la distruzione dell’Inferno.
[in copertina: Monsu Desiderio]