I- Kaspar apparve come un revenant su una strada di Norimberga, il 26 maggio 1828. Come un bimbo risorto dal limbo, non riuscì mai a descrivere da dove veniva, né chi l’aveva accudito fino allora. Aveva un’età apparente di quindici o sedici anni, ma conosceva appena quaranta-cinquanta parole di tedesco. Sgrammaticava. Non riusciva a stare in piedi, barcollava, era abbigliato alla rinfusa con abiti di taglia troppo piccola per la sua età. Pare – lo testimonia Anselm von Feuerbach – ignorasse quasi l’uso delle dita e delle mani.
Recava due lettere: entrambe destinate al comandante della locale guarnigione di cavalleria. La prima era vergata dal suo custode, un anonimo che, scrivendo, voleva a tutti i costi camuffarsi da contadino analfabeta.
Diceva, in sostanza: il ragazzo mi è stato affidato sedici anni fa. La madre non aveva i mezzi per mantenerlo. L’ho allevato da cristiano, gli ho insegnato a leggere e a scrivere “come scrivo io”. Ora che è grande, l’ho mandato in città, perché diventi un cavaliere del reggimento, “come suo padre”.
La seconda lettera, che era sempre anonima, pareva scritta dalla madre di Kaspar al momento dell’abbandono, e chiedeva al contadino di averne cura fino ai diciassette anni; a quell’età doveva condurlo a Norimberga, e farlo arruolare nella cavalleria, dove “è stato anche suo padre”.
I due messaggi però erano artefatti: il loro scopo era nascondere la verità.
Nessuno naturalmente credette che il trovatello fosse davvero il figlio di un soldato di cavalleria. Kaspar finì quasi subito recluso nella torre cittadina. I più – tra essi, la polizia – lo giudicavano un vagabondo, che cercava di lucrare qualche guadagno raccontando una favola.
Non c’è dubbio, infatti, che la sua storia fosse davvero inaudita e fantastica. Quando fu in grado di articolare i primi, elementari, discorsi in tedesco, Kaspar raccontò, o fece capire, che – forse dalla nascita – era stato tenuto rinchiuso in un atroce isolamento.
“Per quanto si ricorda” – ci informa un verbale di polizia –, Hauser “è vissuto sempre in un buco (un locale piccolo e basso che talvolta chiama anche gabbia), seduto a piedi scalzi sul pavimento, con indosso soltanto una camicia e pantaloni aperti sul didietro. Nella sua stanza non ha mai udito un rumore, né d’uomo, né d’animale o altro. Non ha mai visto il cielo né scorto un chiarore (la luce del sole) come qui a Norimberga […]. Non ha mai visto in faccia l’uomo che gli portava da mangiare e da bere ».
Il giurista Anselm von Feuerbach – il padre del filosofo Ludwig, nonché principale biografo di Kaspar – dedusse da racconti come questi che il ragazzo, in tutti gli anni in cui fu tenuto nel buco, “non si è mai sdraiato nemmeno per dormire, ma è rimasto sempre seduto, nel sonno e nella veglia”.
Nel momento della liberazione, che avvenne di notte, Kaspar fu narcotizzato, legato e trasportato fuori come un sacco. In modo spiccio, il suo custode aveva cercato “d’insegnargli a camminare”, cosa che gli provocava dolori lancinanti. Nulla si sa della strada che fecero, del tragitto, del tempo occorso per giungere fino a Norimberga.
II- Il “trovatello” Kaspar Hauser non venne mai, da allora, riconosciuto da nessuno, né lui riconobbe nessuno; non cercò di rubare un nome, un passato, una storia. Nulla lucrò, nulla pretese. Eppure fu considerato da molti suoi contemporanei un ignobile impostore. Per Anselm von Feuerbach – che lo conobbe personalmente, e a lungo lo frequentò – Kaspar Hauser era invece il ritratto del’innocenza, della purezza, dell’ingenuità: era, secondo lui, “il riflesso dell’Eterno nell’anima di un angelo”: “la confutazione vivente del dogma del peccato originale”. Magistrato militante, abituato a trattare con i criminali e i bugiardi matricolati, Feuerbach non dubitò mai, neppure per un istante, che il piccolo vagabondo avesse detto la verità sulle proprie origini e su tutta la vicenda della sua carcerazione, né sospettò mai che avesse simulato o – cosa ancora più probabile – fosse stato almeno reticente.
L’argomento con cui il giurista difende Hauser è un capolavoro degno di figurare in qualsiasi Teatro dell’Assurdo, se non fosse una delle “Prove Retoriche” che ha avuto più successo, presso l’opinione pubblica e anche nei Tribunali, quando si tratta di casi dubbi d’Impostura. In sintesi Feuerbach dice: nessuno si azzarderebbe a raccontare una cosa talmente incredibile a meno che 1) – non fosse vera; e, 2) – non fosse in grado di prevedere con certezza assoluta, “onnisciente”, che tutti, ma proprio tutti, crederanno al suo racconto, compresi gli eventuali testimoni diretti e oculari del contrario. Cito le sue testuali parole: “I testimoni possono mentire, i documenti venire falsificati, ma nessuno – che non sia un mago dotato di onnipotenza e onniscienza – potrebbe raccontare una menzogna del genere in modo tale da farla apparire, quand’anche la si scoprisse, la quintessenza stessa della verità”.
La Storia dell’Impostura, ci dimostra invece proprio l’opposto. Più assurdo è l’azzardo, più spudorata, gratuita, scoperta, e enorme è la menzogna, più c’è la possibilità che venga creduta. E infatti un cultore di “gialli” storici come Leonardo Sciascia ha replicato al giurista sposando in pieno la tesi del tenente dei gendarmi Joseph Hickel, che a Norimberga, di primo acchito, appena gli fu presentato il ragazzotto, disse: “È un vagabondo malizioso”. Sciascia giura sul “fiuto di Hickel”, e non ha dubbi che Kaspar finga innocenza, ma in realtà sia un Simulatore. Che nessuno o quasi si sia accorto dell’inganno, è frutto, secondo lo scrittore siciliano, di una lunga, messianica, radicata, rousseaiana attesa, tipica dei tedeschi: l’attesa dell’Uomo della Natura. “Kaspar Hauser veniva, con esatta tempestività, a inverare un mito culturale”, ci avverte lo scrittore siciliano: quello del “Buon Selvaggio”.
In effetti, sottoponendolo a continui “Esperimenti”, Feuerbach, Daumer, Hermann – i primi protettori del trovatello, convinti della sua sincerità – intendevano proprio dimostrare che il ragazzo aveva tutte le caratteristiche, fisiche e morali, dei più innocenti popoli “incivili”. Ed è anche evidente che il piccolo Hauser, da parte sua, si comportò sempre come i suoi indagatori più benevoli si attendevano da lui: cioè secondo il paradigma del buon “enfant sauvage”.
Dobbiamo però ricordare: che i “ragazzini selvaggi”, di solito, venivano abbandonati da bambini perché vivessero nello Stato di Natura, o alla mercé della Natura, mentre Kaspar fu rinchiuso fin da piccino proprio perché vivesse contronatura.
III- A riprova che non c’era nulla di banale nella sua vita precedente, che comunque era e rimane un mistero, Kaspar Hauser subì due attentati, forse tre. All’ultimo, non sopravvisse.
Nel 1831 il trovatello fu trasferito “per ragioni di sicurezza” ad Ansbach, la città in cui Anselm von Feuerbach era presidente del Tribunale. In poco tempo, mutò profondamente carattere e umore. Scomparvero in lui la curiosità di apprendere, la disponibilità con cui si prestava alle domande assillanti dei curiosi, lo zelo di farsi benvolere. A ventun’anni, era diventato una persona mediocre e un po’ squallida, che si arrabattava facendo lo scrivano al Tribunale e dilettandosi, ogni tanto, in “lavori in cartone”.
Una mattina di dicembre, nel 1833, fu convocato da un misterioso personaggio presso un pozzo artesiano, nel parco cittadino. Andò, non trovò nessuno, fece pochi passi per tornarsene indietro. Da un cespuglio, un uomo gli si parò all’improvviso di fronte, e, porgendogli una borsa, esclamò: “Gliela regalo”. Kaspar la lasciò subito cadere, per il dolore e lo spavento: mentre lo distraeva con quel trucco meschino, il sicario già l’aveva pugnalato a morte. Sanguinante, si trascinò fino a casa. Raccontò in che modo avesse subito l’agguato; perse conoscenza e poi, dopo tre giorni di agonia, il 17 dicembre, spirò.
Anche la morte del Trovatello dunque è misteriosa, e leggendaria, come tutto il resto. Nulla di questa vicenda è stato mai raccontato allo stesso modo, e nulla è stato mai interpretato col medesimo criterio. Qualcuno scrisse persino che Kaspar aveva messo in scena il proprio suicidio in forma di agguato, mistificando per l’ennesima volta la verità: che era un impostore. Non era un’opinione qualunque: la denuncia proveniva da uno dei tutori di Hauser, l’ultimo: l’inglese lord Stanhope, lo stesso che l’aveva sistemato ad Ansbach presso l’istitutore Meyer e presso l’amorevole Anselm von Feuerbach per motivi “di sicurezza”.
Secondo Geminello Alvi, Stanhope era implicato direttamente nell’omicidio di Hauser. La ragione: il delitto era stato commissionato da una potenza straniera per ragioni “politiche”. Dietro, a spiegarne il movente, fa capolino un feuilleton dinastico.
Già Feuerbach, qualche anno prima dell’ultimo attentato, aveva dato credito alla voce che Kaspar avesse origini aristocratiche. Che non fosse un nobile qualsiasi, ma addirittura un Principe: il legittimo erede del trono del Baden. Per la precisione, il primo figlio maschio di Stephanie Beauharnais – parente acquisita del grande Napoleone –, dato per morto a quattro mesi di età, il 16 ottobre 1812.
In realtà, afferma Feuerbach in una sua “Memoria”, quel neonato non ha mai perduto la vita: è stato solo fatto “sparire”. In modo atroce, certo, ma quasi “umanitario”, era stato segregato entro una “gabbia” per sottrarlo ai suoi nemici, in modo che nessuno di loro potesse neanche sospettare che era vivo. Odio antifrancese e intrighi di corte avevano complottato contro il povero Kaspar, perché si estinguesse la linea di sangue in quel momento legittima, e venisse sostituita da un’altra, prettamente tedesca.
E qui, per Alvi, entra in scena Stanhope: il Lord era in realtà una spia inglese al servizio degli antinapoleonici, e pare si fosse dedicato alla ricerca del vero erede al trono del Baden fin da quando Hauser aveva quattro anni. Scoprì che si trovava a Norimberga. Un suo sicario tentò vanamente di ucciderlo. Allora, il lord cambiò strategia. Si fece conoscere, lo incontrò, finse per lui un paterno affetto. Conquistò la sua stima e la sua tutela giuridica. Lo isolò, lo condusse dove più agevolmente poteva disporre di lui; infine, lo fece eliminare nel modo più spietato. Non contento di aver assassinato il figlioccio, calpestò definitivamente la sua memoria: tacciandolo di infingardaggine e impostura.
Sarebbero così risolti tutti i misteri dell’Enigma Kaspar Hauser (cito il titolo di uno straordinario film di Werner Herzog)? No, non credo.
IV- Nel 1996, fu accertato che nelle vene del Trovatello non scorreva neppure una goccia di sangue reale. Il settimanale Spiegel rivelò che un’analisi sul DNA del suo sangue, versato al momento della morte, e confrontato con quello dei discendenti delle sue ipotetiche sorelle, le figlie di Stephanie Beauharnais, aveva dimostrato che Hauser era solo un povero diavolo. Questo naturalmente non scalfisce l’ipotesi del complotto “politico” contro di lui: assassini e mandanti potevano semplicemente averlo scambiato per un altro, che era necessario eliminare.
Ma anche in questo caso rimane senza spiegazione il segreto della terribile prigionia di Kaspar: tenerlo nascosto, va bene, espatriarlo, ancora meglio, sotto mentite spoglie, si poteva: ma perché invece, tenerlo per più di un decennio in un “buco”, una “gabbia” nella quale non gli era neanche possibile sdraiarsi per dormire, pietrificarlo in una postura che l’avrebbe reso poi, poveretto, quasi uno sgorbio? Qual è la ragione di un simile accanimento? E perché poi liberarlo, quando – come nota giustamente Feuerbach – viste le sue condizioni, visto l’oblio che oramai lo circondava, si poteva sopprimerlo senza alcun pericolo?
Nella Fantaenciclopedia ho provato a dare una soluzione a questo mistero e a quella rimando, per non tediare più il lettore, o la lettrice.
La bibliografia su Kaspar è già sterminata, conta ormai migliaia di volumi. Alla ridda di supposizioni si è aggiunta, abbastanza di recente, anche l’ipotesi di un “navigatore” di Internet di lingua portoghese, che Hauser fosse in realtà un extraterrestre.
In qualche modo, questa interpretazione non è affatto risibile e ha persino le sue ragioni: è evidente che il Trovatello fu cresciuto volontariamente, dai suoi carcerieri, perché non appartenesse a questo mondo. Perché gli fosse in qualche modo alieno e superiore. Perciò fu sottratto alla Natura.
È quello che ho provato a argomentare nell’Enciclopedia. Dietro la segregazione di Kaspar Hauser c’è, e mi pare evidente, un “Esperimento”.
L’esperimento non riguarda forse questo: cosa bisogna “sottrarre” a un Essere Umano, perché diventi un Dio? Sottrarre, si crede, o addirittura “rubare”, la Natura.
La reclusione di Kaspar andrebbe quindi letta come il tentativo, operato da una loggia di filosofi, scienziati e complottatori, di creare un Fanciullo Divino.
Il Trovatello, cresciuto in una “gabbia dorata”, viene educato come un “piccolo Dio”, alla tregua di quanto, nei tempi antichi, si faceva col Mikado dei Giapponesi. Lo si netta di notte, nell’oscurità, quasi “rubandogli” la sporcizia. Non perché il Fanciullo Divino non veda i propri carcerieri: egli li vedrebbe, solo se volesse. Invece finge che non esistano, non consente loro di intralciare il suo sonno, i suoi giochi – ultimi dei servi, che sono.
Chi ha “sperimentato” su Hauser le proprie ideologie – coscientemente, o no – , ha voluto ripetere sulla pelle di un neonato, prima, e di un bambino, dopo, il gesto arrogante e blasfemo del Dottor Frankenstein di Mary Shelley (1818): sostituirsi alla Natura per creare un nuovo Superuomo, dal carattere “divino”.
In questo senso Kaspar somiglia molto a quello che Borges ha chiamato, in un testo imprescindibile, uno Hrönir. É stato un Anello Mancante: un “oggetto del desiderio” dei bonapartisti, degli amanti dei feuilleton, e aggiungo, degli alchimisti, dei mesmeristi e dei frammassoni che l’hanno tenuto imprigionato.
È, questo, il vero motivo per il quale il suo mistero ci affascina tuttora.