I- Accadeva un tempo che i boja, durante le impiccagioni, constatassero con orrore professionale che la testa del condannato si staccava imprevedibilmente dal busto: fatalità accettata solo in caso di decapitazione. L’impressione che ne ricevevano i carnefici era a volte talmente devastante che spesso facevano un fioretto di lasciare il mestiere o, altre volte, si davano risolutamente all’alcolismo. C’era dunque bisogno di ordine e rigore “matematico” in un settore dove l’improvvisazione aveva preso troppo piede.
Finché, finalmente, intervenne con le sue formule il celebrato boja britannico John Berry. Secondo il Manuale di Charles Duff, costui gettò nel suo libro Le mie esperienze di boia le basi di una “scienza nuova” nel proprio campo di lavoro, fondando una “fisica della caduta” dei corpi “appesi” sulla forca, cioè: degli impiccati.
La sua formula
risultò universalmente valida e il boia ebbe modo più volte di verificarla sul campo in modo inconfutabile. Almeno fino al 30 novembre 1885.
Non è affatto intuitivo che, per eseguire una buona impiccagione, il carnefice debba disporre di corde diverse per spessore e lunghezza: e soprattutto non è lapalissiano che uomini e donne più leggeri abbiano bisogno di cadere giù dal patibolo, incravattati da una fune al collo, per qualche metro o porzione di metro in più rispetto ai condannati più nerboruti. Berry, secondo Duff, sarebbe stato anche il primo a scoprire che “una corda dello spessore di due centimetri fatta con cinque trèfoli di canapa italiana è l’ideale per impiccare gli uomini. Quattro trèfoli bastano per le donne, e anche solo tre possono funzionare per i bambini”. Non giureremmo che l’accenno ai bambini sia nell’originale di John Berry: forse in Duff il polemista s’è fatto prendere la mano dall’umorista.
La prima tabella di Berry era tuttavia soggetta a importanti variazioni e aggiustamenti “sul campo”, che il boia stesso, sulla base della sua esperienza, metteva in pratica. La lunghezza della caduta, per esempio, poteva essere drasticamente ridotta, o addirittura dimezzata, nel caso si presentassero all’esecuzione condannati “che avevano tentato il suicidio tagliandosi la gola”, o persone altrimenti ferite in modo profondo al collo, o “obesi” con i muscoli del gozzo indeboliti dall’inattività. In questi casi, avverte John Berry, se si usa rigidamente “la formula matematica della caduta”, c’è il rischio che l’impiccagione degeneri in decollamento.
Il 30 novembre del 1885, consegnarono a Berry un giustiziando di nome Robert Goodale. L’uomo pesava 15 stones (più di cento chili). Il boia preparò coscienziosamente la sua corda per una caduta, che, tabella alla mano, doveva essere di 7 piedi e 8 pollici, ma che la sua esperienza decurtò a 5 piedi e 9 pollici “perché i muscoli del collo non sembravano forti e sviluppati”. Il condannato risultò ancora più debole del previsto e la forza d’urto gli tranciò la testa. Berry rivide quindi le sue tabelle, le ritoccò e le rese ancora più flessibili. Dedusse, ma troppo tardi, che per Goodale, la caduta giusta doveva misurare meno di 3 piedi. Come scendere da una sedia con la corda al collo. In effetti, i boja dovrebbero imparare dai suicidi, per non sbagliare mai.
Per inciso, ricorda Charles Duff che il boia Berry è lo stesso “che si travestiva da donna quando gli sembrava che ci fosse il rischio di essere linciato da una folla scalmanata, come per esempio quando dovette spezzare il collo della signora Maybrick”. [dalla Fantaenciclopedia]
II- Feullet de Conches racconta, nel suo prezioso trattato Causeries d’un Curieux, che al principio dell’Ottocento le folle accorrevano, a Londra, per assistere all’esibizione d’ un “disgraziato” che si guadagnava da vivere facendo per mestiere “l’impiccato”: si gettava, con una corda legata intorno al collo, dalle arcate di uno dei ponti del Tamigi . La sua abilità consisteva nel sopravvivere, in modo che poi potesse godersi i proventi d’una colletta tra gli spettatori. Tuttavia un giorno “sbagliò manovra” e la sua forca improvvisata gli costò la vita, “con gran soddisfazione dei curiosi” – commenta lo studioso – “ché altro non attendevano, che questo epilogo drammatico”.
Un eccentrico amico di Lord Bacon, aggiunge Feuillet, rischiò di far parte di questa categoria di fanatici autolesionisti. Il gentiluomo si dilettava a impiccarsi pubblicamente, non per denaro, ma per una forma dandistica di “ricreazione personale”. Se non ché il suo gioco divenne un giorno tragico: gli mancò il piede, durante questa prova, e si dibatteva, già mezzo soffocato, quando finalmente si avvidero delle sue difficoltà e arrivarono a tagliare la sua corda, giusto un attimo prima che morisse strangolato.
La corda in questione finì nel bizzarro museo personale di Thomas Tyrwhitt.
Tyrwhitt, intellettuale inglese, filantropo, ma soprattutto “eccentrico”, collezionava con disinvoltura – come altri collezionano cravatte – vere “corde d’impiccato” provenienti da tutto il Regno Unito. Accompagnava ognuno dei suoi reperti con una esauriente “legenda” – vergata a mano da lui stesso – , che dava conto dei particolari dei crimini commessi dal giustiziato, e, per esteso, anche delle “ultime parole” espresse da chi se l’era trovata annodata intorno al collo. Secondo Feuillet de Conches una lettura sistematica di queste schede chiarisce una volta per tutte il “livello di perfezione” attinto dai britannici in un ramo d’Oratoria nella quale hanno sempre eccelso: “l’eloquenza da impiccato” (l’éloquence des pendus).
[dalla Fantaenciclopedia: capitolo “Avventure sul Patibolo”]
[in copertina: illustrazione da By The Neck Until Dead, di Paul Brock]