Salvezza, in Tre Parole
Nel Seicento un uomo, colpevole di ogni sorta di crimine violento – stupro, razzie, assassinio –, fu condannato dai giudici di Parigi al supplizio della ruota, finché la morte non fosse sopraggiunta. Incatenato sul seggio degli imputati, il reo non parve molto scosso dalla sentenza, che doveva diventare esecutiva il giorno stesso; chiese però gli venisse concessa un’ultima licenza: voleva dire solo tre parole al Luogotenente Criminale, il celebre signor Deffita. E desiderava che questo colloquio avvenisse nel massimo segreto, per una ragione che non poteva rivelare. La Corte accettò, ma pose la condizione che a nessuno fosse concesso di entrare o uscire da quell’aula, e che l’incontro avvenisse alla presenza dei giudici.
Deffita, che era presente, fece avvicinare l’imputato a una finestra, e di lì lo apostrofò ad alta voce, ammonendolo che non aveva tempo da perdere e assicurandogli che, viste le sue colpe, nessuno stratagemma sarebbe riuscito a prolungare i suoi giorni. Il condannato a morte ascoltò pazientemente, poi, sottovoce, bisbigliò: “Signore, solo tre parole: salvatemi la vita! Se lo fate, entro tre quarti d’ora, riceverete duemila scudi; per ottenerli sarà sufficiente che io scriva appena tre parole, su un foglio, di mio pugno”. Il Luogotenente Criminale, che aveva fama di uomo subdolo, rapace e navigato, accettò. Quando l’imputato fu ricondotto in prigione, perché scrivesse a proprio agio la lettera, i giudici si strinsero intorno a Deffita, e gli chiesero, incuriositi da quel colloquio strambo e segreto, che cosa mai, di così importante, gli avesse rivelato il criminale. Deffita improvvisò la risposta, pronunciò appena tre parole, e li lasciò esterrefatti. I giudici non poterono far altro che sciogliere dai ceppi il condannato, perché fosse consegnato a un’altra Autorità. In breve, lo stupratore, il ladro, l’assassino, l’autore di mille efferati delitti, per ognuno dei quali avrebbe meritato il patibolo, fu salvo; il suo liberatore ebbe immantinente i duemila scudi promessi. L’episodio è storico, ed è registrato in un libro gradevole: L’art de plumer la pou(l)le sans crier.
Nota. Solo per i curiosi: Deffita riferì ai Giudici – con tre parole – il segreto che scagionava il condannato, dicendo: “È un prete!”
La legge non consentiva di processare un sacerdote; l’imputato fu subito consegnato al vescovo, perché lo giudicasse il Tribunale Ecclesiastico. Cosa che naturalmente non avvenne, perché il lestofante non era affatto prete. Si sospetta però che, prima d’esser rilasciato, generosamente seppe dimostrare la sua riconoscenza al clero, al quale non apparteneva.