Che l’Arte possa fare a meno dell’Artista – è intuizione, credo, antica, ma esaltata soprattutto da Chlebnikov, dai Surrealisti e da altre (vere o presunte) Avanguardie della modernità. C’è però davvero una remota e documentata forma d’arte pittorica, prodotta senza il concorso di nessun artista: è l’arte “acheropita”, disumana per definizione. Le icone catalogabili al suo interno vanno considerate creazioni “divine” o, comunque, di provenienza “celeste”. Recano il marchio di questa fattura “ultraterrena” il Mandylion, la Veronica, e la Sindone. Sono tutti ritratti di Gesù, il Cristo.
Il culto dell’Immagine “Acheiropoìetos” – cioè: mai plasmata da mani “umane” – si diffuse nel mondo greco-cristiano, sostiene Gibbon, a partire dal sesto secolo.
Allorché i Romani combatterono contro Ormisda, figlio di Nushirvan, un generale li incoraggiò a marciare brandendo un’immagine miracolosa del “volto santo” di Gesù, la quale, meritando l’evidente ironia dello storico, fu probabilmente “il più antico acheiropoietos delle manifatture celesti” .
La Sindone è oggi tra tutti questi “capolavori senza pari” il più famoso: della sua fattura sappiamo (quasi) tutto; e forse su questo telo si è detto persino troppo. Una fonte del XX secolo (era pre-Google) dava per sicuro che fosse un’opera segreta, mai reclamata, di Leonardo da Vinci. Sintomo che, tra i nostri contemporanei, il Genio umano (maschile o femminile) viene considerato più raro e ancor più miracoloso dell’intervento divino.
Nel VII secolo, chi vide la Sindone la identificò con il “sudario” di Cristo di cui parla il Vangelo di Giovanni: ossia il panno di lino che fu posto sul volto di Gesù defunto, ben distinto dalle fasce funebri che avvolsero il suo corpo nel Sepolcro. Il telo fu rinvenuto dagli apostoli dopo la Risurrezione, stranamente ben piegato, in un angolo della Tomba (Giovanni, 20, 1-8).
Secondo il franco Arculfo, che descrisse il sudario all’Abate Adamnano (morto nel 704), su di esso non vi era alcuna impronta. Ma quando, nel 1204, un altro viaggiatore, questa volta crociato, Robert de Clari, si accostò alla Sindone a Costantinopoli, notò in essa, in evidenza, i contorni della figura di Gesù. Dovrebbe essere questo il “sacro lino” che, carbonizzato in Francia in un incendio nel tardo Medioevo, fu copiato e pervenne quindi alla casa regnante del Piemonte nel 1449. Ora si trova a Torino, dove, nel 1997, ha corso nuovamente il rischio di finire bruciacchiato.
In realtà, se prestiamo fede al racconto di Giovanni – testimone oculare, che fu tra i primi a arrivare nel sepolcro, trovandolo svuotato – la Sindone torinese risulta ancor più inesplicabile: perché il gran telo stretto dalle fasce intorno al corpo di Gesù si fermava al collo, e, quindi, non dovrebbe conservare nessuna traccia del suo santo volto.
Prima ancora che la Sindone venisse scoperta e trafugata, il più noto tra gli acherotipi era il Mandylion, l’autoritratto del Cristo, donato da lui stesso al re di Emessa.
La tradizione vuole che Gesù, rispondendo a un cortese invito del sovrano Abgar, di andare a visitarlo a Emessa, abbia inviato, in sua vece, una lettera e un ritratto.
Per disporre di quest’ultimo, non si era rivolto a nessun pittore, ma immediatamente, alla presenza del messo del re, aveva preso un tovagliolo, si era asciugato il volto, e le fattezze del suo viso erano rimaste impresse per sempre nel lino.
È testimonianza – certo indiretta, ma autorevole – di san Giovanni Damasceno, che il Cristo abbia poi pregato l’apostolo Taddeo di recapitare al re Abgar quello “schizzo”.
Il ritratto di Gesù rimase a Emessa, ormai convertita. Quando la vocazione cristiana della città si infiacchì, il vescovo fece murare l’icona prodigiosa, insieme a una lucerna accesa, dietro una spessa lastra di mattoni. Decine d’anni dopo, un suo successore riaprì la cripta: non appena la parete fu abbattuta, si costatò che il lume ardeva ancora, e che la luce, come in una misteriosa camera oscura, aveva impresso sulla pietra un’ulteriore immagine di Cristo. Da questa riesumazione, si ottennero così due ritratti, uno su stoffa (Mandylion), e uno su mattone (Keramidion). Entrambi furono esaltati per i loro effetti miracolosi su nobili e popolani.
Il primo, si disse, prese la strada di Roma, l’altro fu appannaggio dei vescovi dell’Impero d’Oriente. Ma altre fonti vogliono che il re Baldovino Secondo, nel 1247, avesse venduto a Costantinopoli il vero Mandylion, per pagare i debiti dello stato francese. Comunque, il giorno della presa di Porta Pia a Roma (20 settembre 1870), le suore di San Silvestro in Capite, dove era conservato il sedicente Mandylion originale, trasportarono l’icona in Vaticano, per sottrarla agli artigli sacrileghi dei Piemontesi. Da allora è scarsamente visibile.
Gli Atti del Concilio di Nicea, nell’anno 787, citano – senza condannarle come false – sia l’effigie donata a Abgar, sia un’altra pittura miracolosa e acheropitica, esistente all’epoca a Beryte, e che mostra Cristo in Piedi.
Forse altrettanto popolare del Mandylion, fu la Veronica di Roma, di Spagna, o di Gerusalemme (il nome seguiva gli spostamenti del manufatto, via via, sulla carta geografica).
In origine, essa non fu propriamente un’icona, ma una statua, eretta dall’Emorroissa a perpetuo ricordo del “miracolo del sangue”, quello che si legge in Luca, 8 (43-4). Questo simulacro, la leggenda vuole pure abbia risanato Tiberio dalla lebbra.
In seguito si nominò Veronica (“Berenike”) l’emorragica guarita dalle sue perdite duodecennali, e ancora dopo, nel tardo medioevo, fu chiamata così la donna che porse il suo velo a Gesù che saliva al Calvario. Il tessuto fu impregnato dell’effigie insanguinata del Salvatore.
Questa tradizione sgominò l’altra: scomparvero statua e Emoroissa. La “Veronica” fu e restò solo un velo: e con questo significato impertinente, un po’ blasfemo, è rimasta nel gergo dei toreadores, a designare il movimento rotatorio che il matador imprime al capote per irridere il toro.
Nel dodicesimo secolo il Santo Velo del Calvario già si trovava a Roma, in Vaticano. Si ignora se la Veronica attuale, che il papato mostra con crescente parsimonia, sia l’originale o una copia, realizzata al tempo del sacco di Roma per salvarla dalla barbarie protestante.
Altra celebre icona “acheropita” è di sicuro l’immagine della venerata “Nostra Signora di Guadalupe” (patrona dell’intero continente americano), che dal 1531 si è conservata intatta fino ad oggi, nonostante un attentato dinamitardo messo a segno da un agente del governo anticlericale del Messico, nel 1921.
Disegno e colori si sono autonomamente formati sul tessuto di un vecchio mantello (una “tilma”), nel quale l’indio messicano Juan Diego ripose – dietro consiglio della Madonna – alcune rose miracolose.
Il manto è formato da due lamine di agave, cucite insieme con un filo molto sottile: diverse commissioni d’esperti scientifici o apostolici hanno assicurato, nel corso dei secoli, che è impossibile che la figura della “Virgen de Guadalupe” sia stata dipinta o anche solo colorata su un simile fragilissimo sedimento.
Una cintura viola, scura, avvolge e stringe la tunica dell’Apparizione: segno inequivocabile, per la cultura azteca, che la Vergine è incinta e, nel suo caso, in dolce attesa d’un fanciullo divino.