I- C’è un “uso astuto” del Pollame (galli, polli, pulcini, galline) che attraversa la Storia, anche con notevoli esempi. Una prova si trova nell’Alessiade di Anna Comnena.
Anna, figlia dell’Imperatore Alessio, nel suo libro dedicato alle gesta del padre, non può non ricordare con raccapriccio le imprese del loro grande nemico, Boemondo, che tentò di muovere l’Occidente alla conquista di Bisanzio.
Boemondo, capo dei Crociati, era stato fatto prigioniero: liberato con un gravoso riscatto, risolse di raggiungere la Francia e di raccogliere e armare un esercito contro Alessio. Considerato con sospetto e acrimonia dai Greci, come dai Turchi, lasciò Antiochia, imbarcandosi segretamente con l’aiuto di complici e amici, che lo trasportarono rinchiuso in una bara e presentandolo a tutti come un defunto che doveva essere sotterrato tra i suoi, in patria. Il feretro era traforato, perché respirasse, e in alto mare il finto cadavere fu alimentato con estrema cautela, senza mai estrarlo dal suo nascondiglio.
Ma poiché il viaggio che doveva condurlo a Roma era assai lungo, e i sospetti cominciavano a serpeggiare tra la ciurma, i sodali di Boemondo concepirono il piano ingannevole di strangolare un gallo, e di porlo dentro la bara: in modo che dal suo lezzo si potesse pensare che il corpo che era lì dentro avesse cominciato a decomporsi. E così il nemico giurato d’Alessio veleggiò con quella putrida compagnia per giorni e giorni. La stessa Anna Comnena, raccontando il fatto, si stupisce che quel malvagio abbia saputo resistere al puzzo, senza farsi scoprire.
“Quest’assurda storia è sconosciuta ai Latini”, commenta Gibbon. Ma ciò non significa che non possa essere vera.
II- Un altro esempio del “Potere Salvifico” del Pollame, si può ricavarlo dalla Storia dei Longobardi di Paolo Diacono.
Dove si parla dell’espediente adottato da due nobili fanciulle per sfuggire alle brame viziose degli invasori della loro nazione, che già si accingevano a disporre senza freni della loro bellezza.
Uno stratagemma grazie al quale – avverte lo storico – “non solo si conservarono caste, ma fornirono un utile esempio di come mantenere la castità, se qualcosa di simile dovesse capitare a altre donne”.
Sconfitti i Longobardi dagli Avari, tutte le donne del popolo vinto furono incatenate come schiave. Tra queste c’erano anche le figlie di Romilda, la regina che per un eccesso di sensuali appetiti e libidine aveva tradito la sua gente aprendo le porte al nemico. “Ma le figlie non seguirono la lussuria della madre: attente, in nome della castità, a non venir contaminate dai barbari, si misero sotto la fascia, tra le mammelle, carne di pollo crudo, che, putrefatta dal calore, mandava un odore fetido”.
Così gli Àvari non osarono toccarle, né loro, né le loro compagne, credendo che quello fosse il lezzo proprio e naturale di tutte le donne longobarde, e… e…
“GIULIO, QUEST’ANIMALE PUTE!” …
…il ricordo di chi scrive sulle “Virtù protettrici” dei Gallinacei non può che correre allora a Alberto Savinio, e inevitabilmente al pollo arrosto di cui parla l’artista in Casa “La Vita”. Mi riferisco a quel racconto esemplare e toccante che è “Mia madre non mi capisce”.
III- Quando gli servirono su un piatto, in trattoria, un volatile “in avanzato stato di putrefazione”, Alberto Savinio protestò violentemente con il cameriere: e costui, Giulio, da uomo navigato, sùbito e come per incanto sostituì quella carogna marcescente con un “mezzo pollo dorato e odoroso”.
Savinio nel racconto collega in modo vago e indiretto, a modo suo, quest’episodio pittoresco a un’avventura “fantastica” capitatagli nella notte di San Silvestro. Vigilia “hoffmanniana” per definizione, veglia da Bonaventura, nella quale compare, credo, la più misteriosa, la più segreta, la più inattesa delle sue Donne-Uccello.
Le numerose Donne-Uccello, su tela, su carta, di Alberto Savinio sono “Metamorfosi”. O meglio, somigliano a Metamorfosi imperfette, a Epifanie colte in fallo, in un momento di riposo, mentre covano segreti che loro stesse non capiscono. Sembrano Reincarnazioni incompiute, o raggelate, che progrediscono con lentezza esasperante.
Luciano di Samosata immagina, in un suo dialogo, che Pitagora si sia finalmente reincarnato, dopo un lungo ciclo di esistenze, in un Gallo. Nel racconto di Casa “La Vita”, Alberto Savinio incontra sua Madre, morta da tempo, sotto forma di Gallina. Di “piccola piccola” gallina.
Che si lamenta di continuo, che esige che lui la riconosca in quella metamorfosi. La gallina è la reincarnazione, o forse meglio, la prosecuzione, oltre l’agonia, degli ultimi momenti di vita della povera donna, che il figlio ha assistito mentre moriva. È ciò che rimane della Madre oltre la Morte.
L’artista allora si fa piccolo, piccolissimo, si chiude dietro la porta della stanza – che è quella, ammobiliata, della sua infanzia –, le si avvicina, e comincia a piangere, lacrime filiali, che non scorrevano più da anni. Lacrime che la Donna-Uccello, forse, in quei suoi ultimi momenti tribolati non aveva visto.
“Allora” – così Savinio si congeda dal racconto – “la piccola gallina cessa il suo lamento. Ha ritrovato il suo pulcino”.
C’è un momento di Grazia, salvifico, anche in questa storia “fantastica”, che ha per protagonista una chioccia grande quanto un pulcino.
Probabilmente Maternità e Gallinità intrattengono tra loro una relazione segreta, misteriosa, ma indissolubile.
A partire dalla prima fase delle doglie, le levatrici ebree usavano legare una gallina alla partoriente, in modo che le tenesse compagnia. “Ciò si faceva perché” – la donna – “riposasse la mente”, spiega lo studioso del Talmud Abraham Cohen. L’uccello da cortile operava, distraendola, un’infallibile terapia del dolore.
In effetti quando una gallina cattura l’attenzione, l’assorbe tutta: come accade a chi fissa a lungo uno specchio.