I- Combinatorie insospettabili. Come Nerone bruciò Roma, per avere una nuova Troia da cantare – con versi ignobili che nessuno ci ha mai tramandato – così ci sono stati omicidi, e dei più turpi, perpetrati al solo scopo di procurarsi cadaveri su cui piangere ai loro funerali. La storia dell’Impero romano li registra.
L’imperatore Caracalla, piccolo, laido, deforme, calvo per la virulenza della sua debosceria, volle imitare in tutto il suo eroe preferito, il bellissimo Achille. Non solo minacciò di tornare sulle rovine di Troia per evocarne l’Ombra (circostanza che riuscì al solo Apollonio), ma, per integrale spirito d’emulazione, volle avere anche lui un suo Patroclo, cui affezionarsi, per poi piangerne le spoglie. E così – racconta Feuillet sulla base di Erodiano (I, IV) – calatosi nei panni d’Achille per rivivere, di persona, la celebre pagina poetica di Omero, fece avvelenare il suo liberto favorito, Festo, che amava teneramente, in modo che potesse realmente inondarne di lacrime il cadavere durante i funerali –, in cui vide il pupillo, a poco a poco, ridursi in cenere.
II- Caracalla si distinse anche quando partecipò allo spietato assassinio del proprio fratello, il buon Geta, amato dal popolo e dai soldati, col quale era destinato a condividere l’impero di Roma. L’orribile fratricidio avvenne sotto gli occhi della madre d’entrambi, che si gettò sui sicari e su Caracalla cercando inutilmente di fermarli, e uscì ferita a una mano, dalla mischia. Quel feroce tiranno simulò la sua disperazione, come se il delitto non dipendesse da lui; ma ostentò contemporaneamente il suo compiacimento. Compì così due atti crudelmente ossimori, come ricorda Gibbon: “Caracalla consacrò, nel tempio di Serapide, la spada con la quale si vantava di aver ucciso suo fratello Geta”. Tuttavia, nello stesso tempo, decretò che Geta venisse “collocato tra gli Déi”, e che venisse onorato nei Templi.
Secondo l’Historia Augusta, quel giorno, davanti all’altare, l’imperatore declamò per la sua vittima il celebre epitaffio: «”Sit Divus, dum non sit Vivus!“, ossia: “Meglio Dio, che Vivo!”».
Caracalla era orgoglioso di fregiarsi del nome dei popoli vinti, e pretendeva d’essere appellato col titolo, per esempio, di “Partico” o “Alemannico”. Ma non era affatto spiritoso. Tanto che, quando uccise il fratello Geta, e la cosa fu ovviamente ben chiara, e nota, all’opinione pubblica, avvenne che il generale “Pertinace osservò che il nome di Getico […] conveniva benissimo all’imperatore”, avendo lui tra l’altro “riportato delle vittorie sui Goti” anzidetti Geti. Il tiranno purtroppo non apprezzò la raffinatezza del calembour, e fece ammazzare Pertinace per via del doppio senso.
III- La Storia contempla casi, nei suoi annali, nei quali vediamo una Profezia inverarsi, a prescindere da qualsiasi intervento soprannaturale, ma soprattutto a prescindere dal fatto che essa sia stata, in origine, vera o falsa, oppure inventata di sana pianta.
Un africano aveva profetato, essendo Caracalla imperatore, che il prefetto Macrino e suo figlio erano destinati a succedere al trono di quel sanguinoso tiranno, pur non essendo neppure suoi lontani parenti.
Il profeta, in catene, fu inviato a Roma, e, tra lo stupore generale, non ritrattò. Il giudice che l’aveva interrogato, inviò il verbale all’imperatore, che si trovava in quel momento in Siria. Nella trasmissione del documento era implicita, ovviamente, la condanna a morte del prefetto Macrino e del figlio, perché Caracalla come tutti i despoti era sospettoso di complotti e geloso del potere.
Il caso volle che quando giunse il verbale, Caracalla fosse “in quel momento impegnato nel guidare il cocchio in una corsa”: quindi consegnò le missive che gli giungevano dalla capitale, senza aprirle, proprio al suo fidato Macrino, “ordinandogli di sbrigare gli affari più ordinari e di dargli ragguaglio dei più importanti”. Fu così che, dice Gibbon, “Macrino lesse la sua sorte e decise di prevenirla”. Immediatamente “infiammò il malcontento” dei soldati e s’accordò con uno di loro, un certo Marziale, che uccidesse il tiranno.
Caracalla, dopo pochi giorni, mentre si recava in pellegrinaggio a Edessa, smontò da cavallo per vuotare la vescica. La sua scorta, formata dai pretoriani più fedeli, si tenne a pudica e igienica distanza. Marziale accostatosi a lui con il pretesto di ossequiarlo, lo trafisse con un pugnale e lo scannò mentre espletava il suo bisogno naturale.
Macrino e il figlio furono proclamati imperatori, esattamente come aveva previsto l’indovino.
[in copertina: Lamento di Achille su Patroclo morto, di Nikolai Nikolajevitch Gay]