Tra la fine degli anni ’70 e il principio degli anni ’80, Carmelo Bene, genio riconosciuto del Teatro del Novecento, conobbe i suoi maggiori trionfi. Insaziabile melomane, straordinario critico musicale, nel 1979 esaudì il grande sogno d’esser chiamato alla Scala di Milano, recitando da Solista in un memorabile Manfred in forma di Concerto: e la sua Voce fu degna compagna delle Musiche di Schumann. Ad acclamarlo, alla Scala, tra il pubblico, c’erano anche i filosofi e gli psicoanalisti che l’avevano descritto a tutto il mondo come un monumento teatrale, un fenomeno unico e un prodigioso e profondo pensatore. Maestri come Gilles Deleuze o Pierre Klossowski alla cui amicizia fu legato per tutta la vita.
Sempre in quegli anni, a Bologna, nel 1981, dedicò ai morti e ai feriti della strage della stazione un’eroica “Lettura di Dante”, davanti a centomila persone, issato sulla storica Torre degli Asinelli.
Tanto grande fu quel trionfo, e davvero impensabile fino allora per un solo “attore recitante”, che Carmelo Bene descrisse quell’esperienza in una eccessiva autobiografia che appunto intitolò, immodestamente: “Sono apparso alla Madonna”.
A Bologna c’è pure una pietra misteriosa, istoriata, che turba il mondo da cinque secoli con il suo enigma: la pietra di “Aelia Laelia”. Come Aelia, che, dice la lapide, “non fu né uomo, né donna, né bambina, né androgino, ma tutto questo insieme”, come Aelia che non morì per arma, per veleno, per fame, “ma per ognuna di queste cause, insieme” anche Carmelo fu nella vita e sulla scena della vita, tutto questo, e altro ancora: fu un uomo vero, e un uomo che non voleva esistere. Fu e non fu un dottor Jeckyll, fu e non fu Pinocchio e Don Giovanni: è stato, e non è stato, Amleto.
L’enigma di quella Pietra non è solo l’enigma dell’Attore, che al pari di Proteo, si disfa dentro ogni metamorfosi. È il mistero dell’Identità moderna, sul quale C.B. non ha costruito solo un Teatro, ma una Visione del Mondo. Una visione d’abisso, non aerea, non “da Torre”.
“Noi scaviamo il Pozzo di Babele”, ha scritto Kafka. Carmelo, in segno d’approvazione di questa Verità, volentieri vi sarebbe precipitato dentro. Avremmo udito allora e ancora la sua Voce, la voce che dava ai poeti, come un’Eco. Un grido modulato in ogni possibile tonalità, colore, sfumatura, accento: ma sempre, grido.
“Sono stato votato da natura matrigna all’autodistruzione”, ha ammesso una volta con sincerità. Poi ha spinto la sua riflessione fino a concludere che di lui non c’era nulla da distruggere.
Di Carmelo, dal momento della nascita, si sa o si crede di sapere, quasi tutto. I testi che parlano di Bene, sono tantissimi: le sue autobiografie, le sue interviste, le apparizioni televisive, i siti web, i libri e i trattati che l’hanno scelto come protagonista.
Crediamo di sapere: era nato a Campi Salentina, sud della Puglia, il primo settembre 1937. Ma subito lui stesso ci corregge: “Io fui abortito in terra d’Otranto”… Abortito, non nato.
Il suo continuo rovesciar le prospettive. Non è gioco. È dramma.
Come tutte le teorie intrinsecamente paradossali, come la teologia, il pensiero proteiforme di Carmelo Bene, messo alle strette, costretto in un angolo, perché si apra in tutta la sua coerenza, schizza via, di qua e là, come mercurio fuso, spiazzando l’interprete, finché si ritira, si raccoglie dove vuole, ossia in un punto che ritiene inattaccabile. Da questo punto, mobile, cruciale, nevralgico, del suo pensiero, egli poté affermare la propria inesistenza, e assieme ai religiosi più radicali, l’inesistenza di Dio.
“Io e Dio non esistiamo”, recita, il primo versetto del suo credo.
“Qui rischia d’esistere anche Dio!”, è un altro dei suoi migliori apoftegmi, un culmine delle sue dispute dialettiche, del quale avvertiamo tutta la carica di sdegno.
Favorito dal suo lavoro sull’attore come Maschera, o meglio come “Situazione”, Carmelo è stato il profeta dell’Io “sottratto” e a questa sottrazione, che è status non solo suo, ma universale, ha dato Voce.
Ci piace ricordarlo (ed è un ricordo personale) quando, normalmente disinteressato a ogni evento “attuale” che non fosse la sua attività d’Artefice, godeva d’inattesi e rabbiosi soprassalti di Realtà, di “quotidiano”, quando gli riusciva di misurarsi con le Autorità pubbliche in ogni loro variante o declinazione, dall’amministratore del condominio al Ministro della cultura; quando riusciva a scagliarsi col suo eloquio più fluente contro Dicasteri, Direzioni Generali, Enti e Istituzioni. Fino all’ultimo anelito di vita, ha combattuto battaglie a colpi di denunce, querele e controdenunce. E annoverava le carte da bollo, che vergava, tra i suoi Testi migliori.
L’altro aspetto che l’esercizio sublime della Voce e la teoria della “phoné” di Carmelo ha fatto dimenticare, e non è giusto, è il rapporto di Bene con il Comico. Carmelo Bene non amava essere paragonato a Jerry Lewis (mentre, per noi spettatori, questo richiamo tra le movenze dell’uno e dell’altro era evidente, soprattutto fino agli anni ‘80). Ma aveva anche lui un suo doppio “idiota” come Jerry, e lo rivela in uno dei passi più confidenziali delle sue autobiografie: “ho sempre avuto accanto una sorta d’angelo custode, ebete, idiotizzato, ma intransigente nella sua qualità di controllore. Per cui tutto al tempo stesso, riga dopo riga, mi si rivoltava in Farsa”.
Condannato alla farsa dalla povertà dei tempi e dal proprio rigore filosofico, C.B. aspirava almeno a una forma involontaria di comicità priva d’ogni complicità consolatoria con il pubblico. Il comico di mestiere, il “buffo”, come lo definiva lui, seppur sublime, rischiava sempre d’appagare l’uditorio e di confermarlo nella propria grettezza. Bene ambiva invece a un procedimento comico che facesse davvero “morire” dal ridere. Morire, con tanto d’esequie, immediatamente, dopo. “Il comico che mi interessa è cattiveria pura”, ha detto.
Inserite nel contesto (teorizzato) di una totale disintegrazione dell’Io, le sue “Farse” allora si mostrano per ciò che sono: non parodie, ma sabotaggi.
Sabotaggi dalla carica “eversiva”. “Demolizioni in corso”.
Una sentenza sua: “Vivere, infine, significa essere ridicoli”.
Su Bene è stato scritto talmente tanto, e talvolta anche bene, che davvero ogni parola “nuova” da aggiungere sarebbe non solo complicata, ma superflua e ripetitiva. Non per questo bisogna smettere di leggerlo: è il modo migliore per risentire la sua Voce, che non si è mai veramente “spenta”. E per scoprirlo al di là del detto e dello stradetto. C’è una dose di “manierismo” o affettazione anche nel professarsi, oggi, beniani, che, a lungo andare, farà dimenticare la “Lezione” di Carmelo.
Carmelo Bene, diceva Pierre Klossowski, è un “incipit”: l’incipit di qualcosa che non è ancora avvenuto.
Forse sbagliava. Quell’inesprimibile Qualcosa, è avvenuto. L’incipit s’è Compiuto. Perfettamente.
E noi, siamo noi i colpevoli, perché noi non ce ne avvediamo.