Gli Orientali, da sempre, armano Corpi Suicidi che mirano a creare morte, scompiglio, distruzione, nelle file avversarie, tramite il proprio sacrificio. Compagini il cui scopo principale non è nuocere, bensì terrorizzare i nemici uccidendosi davanti ad essi. I Cinesi eccellevano, nel formare e poi sterminare simili Corpi Speciali. Il fanatismo, la devozione alla causa, la religione della guerra erano sufficienti a dissipare le vite di questi volontari dotati di ferrea volontà autolesionista.
Il 17 ottobre 1944 gli Alleati assaltarono l’isola di Suluan scatenando la “battaglia del Golfo di Leyte”. Le forze aeree a disposizione dalla Marina imperiale giapponese non erano sufficienti a fronteggiare l’attacco nemico, superiore per mezzi e unità in ogni campo. Il viceammiraglio Takijirō Ōnishi decise allora di formare una “Forza d’Attacco Speciale Kamikaze”. Ritenne che la cosa migliore da fare, per metterle fuori combattimento, non fosse quella di “sganciare una bomba” sulle portaerei alleate – manovra facilmente prevenibile –, ma mandargli contro, a sbattere, il pilota, il suo aereo, e gli ordigni esplosivi dei quali era munito. Il 20 ottobre del 1944 nacque invece ufficialmente il primo “Reparto Kamikaze”, un contingente che ebbe infiniti proseliti, volontari, e soprattutto “ammiratori”. La “formula” conobbe un grande successo anche in altri settori delle forze armate giapponesi: tant’è che artefice del primo attacco Kamikaze registrato dagli storici della seconda guerra mondiale non apparteneva alla speciale unità voluta da Ōnishi, ma fu un anonimo pilota che il 21 ottobre 1944 si schiantò volutamente, con le sue bombe pesanti 2 quintali, contro l’ammiraglia della Marina Reale Australiana.
La parola “Kamikaze” in giapponese significa: “Vento divino”.
Alberto Savinio racconta, in un articolo per un giornale, di un suo amico, la cui officina fu utilizzata durante la seconda guerra mondiale per produrre un dispositivo che moltiplicasse la potenza distruttiva dei siluri. Il marchingegno funzionava talmente bene che anche gli imperialisti giapponesi ne vollero far rifornimento, per i loro piccoli sottomarini guidati da kamikaze. Tuttavia, con l’aggiunta del nuovo ordigno esplosivo l’abitacolo riservato al “morituro” risultava troppo stretto, anche per un orientale di contenute dimensioni.
«Ridurre il congegno del siluro o la carica di esplosivo non si poteva, e si venne alla soluzione di ridurre l’uomo. I “votati alla morte” furono avviati a ottimi ospedali e sottoposti all’amputazione delle gambe. “Sono operazioni eseguite con ogni cura”, spiegò il delegato della Marina giapponese. “Il paziente non soffre affatto. Avvenuta l’amputazione, potenti anestetici sopprimono ogni dolore fino alla perfetta rimarginatura della ferita”».
Quel tronco umano fornito di testa e di braccia “entrava con l’aiuto dei suoi camerati nel siluro, correva elicando e frusciando una parte di Pacifico, e andava a esplodere lui e il suo astuccio di acciaio sul fianco di qualche corazzata”.
Si scopre, da episodi come questi, che la pazienza del suicida non ha limiti, e che – ulteriore nefandezza –, il coltello del chirurgo travestito da patriota volentieri s’accanisce sul commilitone, sull’Eroe.
Giustamente Savinio inserisce l’aneddoto in un articolo dal titolo: “Per semplificare”. Si fa Economia. “Economia” è parola-chiave della Ragione Atroce che sovrintende alle guerre. L’Uomo stesso, viene economizzato: tagliando quello che sporge. È sempre per semplificare che oggi piuttosto che amputare gambe ai kamikaze, si costruiscono bombe intelligenti, robot imbottiti di materia detonante teleguidati con i radar, droni volanti – senza pilota – ma armati come sante barbare. Per semplicità, o per risparmio di seccature, non per umanità. L’automazione, in questo tipo di guerre, serve appunto a elidere quello che è superfluo nell’Uomo e nella Donna: cioè, il Pensiero.
[in copertina: illustrazione di Achille Beltrame per “La Domenica del Corriere”]