“Adieu mes amis, je vais à l’amour” furono le ultime parole intellegibili di Isadora Duncan mentre saliva sulla Bugatti pilotata da Benoit Falchetto, sua nuova fiamma. La stanza d’albergo, che era la destinazione naturale degli amanti, lei non la vide mai. “La sacerdotessa moderna della Danza” – scrisse il Figaro (edizione del 16 settembre 1927, due giorni dopo la sciagura), “è morta, vittima d’un incidente spaventoso e singolare”. “La vita di Isadora Duncan – prosegue il giornale parigino – è stata contrassegnata da una serie di catastrofi e d’apoteosi, di lutti dolorosi e di trionfi”. Atterrisce la dimestichezza che ella ebbe, per destino, con le tragedie della strada.
I due figlioletti di Isadora Duncan, Deirdre e Patrick, perirono in un terribile incidente: l’auto che li trasportava finì nella Senna, e affogarono. Era il 19 aprile 1913, un sabato. Quando nacque il fratello, Deirdre, che era piccolissima, disse alla mamma che ne avrebbe avuto sempre cura e l’avrebbe sempre “tenuto tra le braccia”. Rammenta Savinio: “E mantenne la promessa. Quando li trassero morti entrambi dal fiume, Deirdre serrava tra le braccine irrigidite il fratellino”.
Patrick Augustus aveva solo due anni. Era biondo e bellissimo. I proprietari del sapone di bellezza “Cadum” qualche tempo prima avevano chiesto alla Duncan di utilizzare una fotografia del bimbetto meraviglioso per un cartello pubblicitario. Lei lo permise. Dopo l’incidente mortale, “quando Isadora uscì novamente di casa come dopo una lunga malattia, Parigi era costellata dell’immagine del suo Patrizio. Invano la novella Niobe supplicò che fossero tolti dai muri i ‘Bebé Cadum’. Invano offrì il suo denaro, tutto il suo denaro: la fabbrica di sapone non aveva orecchie per quel dolore. E da tutti i muri la tragica madre fu perseguitata dal faccione roseo, dal sorriso, dallo splendore del suo bimbo trasformato in vescica gonfia d’acqua”. [Narrate Uomini la vostra storia].
La fine più tragica e romanzesca però fu la sua, di Isadora. L’auto su cui viaggiava, o meglio stava per viaggiare, non fu coinvolta in uno scontro, un testa-coda, un ribaltamento, un’uscita di strada, un salto nel precipizio. Nulla di tutto questo, eppure l’incidente risultò mortale. Lei che aveva sciolto i movimenti e denudato i piedi dalle scarpine di raso, liberando la danza dai fardelli della tradizione ottocentesca, lei abituata a ballare ignuda, improvvisando omaggi sacrali alla Natura, scontò in questa occasione, e nel modo peggiore, i tranelli dell’abbigliamento. La tradì uno stupido accessorio del vestiario, una sciarpa. Quando la Bugatti di Falchetto si avviò, sgommando verso la felicità, la lunga appendice di tessuto che le stringeva il collo, e che pendeva fuori dell’abitacolo, restò impigliata in una ruota. Furono sufficienti pochi giri e il nodo si trasformò in scorsoio e la strangolò.
Nemmeno due anni prima il suo ultimo marito, Sergéj Aleksándrovič Esénin, si era suicidato. Isadora ballava nuda per lui, mentre il poeta recitava, in russo, poesie che lei non capiva. Neppure lui capiva lei, né in francese, né in inglese, e forse non capiva neppure il senso vero, l’immersione naturale, delle sue esplorazioni nel futuro della danza.
Nijinsky aveva detto di Isadora: “Noi l’amiamo perché ella ha riscoperto la libertà dell’istinto e ritrovato il senso d’una tradizione fondata sul rispetto della Natura”.
Aveva cinquanta anni, quando morì nel modo più innaturale possibile; si può dire: perì impiccata, mentre sotto il suo sedile si accendeva un circuito elettrico, serrata in un involucro di metallo. Condanna a morte inaudita, fino allora.
[in copertina: Autoritratto, di Tamara de Lempicka]