Il generale ebreo Tito Flavio Giuseppe, per favorire la propria sopravvivenza e la propria ascesa politica, “programmò” con grande acume, anche aritmetico, la morte di 40 suoi compagni di prigionia. Una sorta di “Gambetto” di massa.
Nella biografia di questo storico “condottiero” del primo secolo, ci sono elementi sufficienti per un paragone con quell’altro esempio di “sublime codardia” e “divina vigliaccheria” che fu la vittoria dell’Orazio sui Curiazi. Esso ne costituisce una variante per così dire, profondamente “ebraica”.
I- Gli Israeliti si sono dedicati spesso allo studio della Vigliaccheria, per trarne un’Etica consona al loro alto senso religioso. Sentendosi circondati da nemici e da idolatri, minacciati di pogrom, sterminio e distruzione, assumeva per loro un valore inestimabile, al di là d’ogni norma morale condivisa col resto delle nazioni, la sussistenza del proprio popolo, della tribù, del clan, del gruppo, anche minuscolo. Salvare un piccolo villaggio dalla persecuzione, e, infine, salvare i più astuti e addottrinati tra i loro correligionari, voleva dire in ultima istanza conservare la Legge e la memoria stessa dell’Unico Dio, che, altrimenti, sarebbero andati perduti per sempre.
“Chi si rende vile nell’interesse dello studio della Legge, finisce con l’innalzarsi anche se ha messo le mani sulla bocca”, ha stabilito, nel Talmud, Rabbi Shemuèl bar Nahmanì.
Con questo spirito i dotti Maestri degli Ebrei analizzarono una voluminosa casistica, facendone scaturire direttive precise fino al dettaglio.
Lo dimostrano quesiti come questo: «Se c’è un gruppo di uomini (di Ebrei) e dei pagani dicono loro: “Scegliete uno di voi, che possiamo ucciderlo, altrimenti vi uccideremo tutti”, tutti devono farsi uccidere, piuttosto che consegnare uno di loro. Ma se, d’altra parte, i pagani hanno specificato uno nella loro richiesta, essi devono consegnarlo; poiché egli ed essi tutti verrebbero uccisi, devono consegnarlo e non andare tutti a morte».
Un rigoroso impianto religioso non esclude che i pagani siano aiutati, in qualche modo, a fare la loro scelta.
II- C’é un momento in cui l’Essere Umano, posto di fronte a una scelta fatale, abbraccia la via del Male. Quel bivio non interessa questo nostro articolo. Non é la morale, il nostro campo d’indagine. Ci interessa invece enormemente l’altro momento: l’istante magico e “divino” in cui lo stesso uomo scopre o si convince, per rivelazione, che la sua scelta é stata quella “giusta”.
Allora l’uomo é immensamente riconoscente verso la propria Divinità, ragione o Spirito del Mondo, che l’ha salvato dal rimorso. É grato e commosso, inoltre, verso chiunque possa anche solo “intuire” la grandezza del suo gesto. Egli si é “sacrificato”: ha donato il Sé precedente, per uno nuovo. Il male non é più male, la macchia infamante scivola invisibile un gradino sotto; ci si sente liberi, elevati. Non parlo di quanto può accadere al delinquente incallito, evidentemente, parlo dell’uomo comune e fragile, come potremmo essere tutti.
Abbiamo detto: rivelazione, momento “divino”, riconoscenza. Questi stadi si riconoscono in più storie. Nelle “metamorfosi” dei falsi Smemorati, per esempio: di Martin Guerre, di Bruneri, di clandestini nella loro stessa terra, come la Principessa Caraboo, e altri truffatori convinti, e folgorati, dalla loro posticcia nuova identità. Modesti, fragili avventurieri, infine, che avevano cominciato a giocare col capestro o col disonore per poche manciate di denaro, un pasto caldo sicuro, una donna che dovevano trattare come moglie, non come sgualdrina.
Ma tanto più la posta si ingigantisce, quanto più questo Teatro si imbatte in personaggi grandiosi, enigmatici, e trova, per le sue maschere, vie d’uscita sorprendenti.
Grazie a figure come quella di Flavio Giuseppe, stratega militare ebreo – divenuto poi scrittore, polemologo e storico delle antichità giudaiche – assistiamo a quello straordinario processo, interiore ed esteriore, che abbiamo battezzato: l’Apoteosi della Vigliaccheria.
Giuseppe era un profeta. Questa é l’immagine che nell’Autobiografia, e nella Guerra Giudaica, intende tramandare di se stesso. Fu anche uno dei principali comandanti della ribellione degli Ebrei contro l’impero romano, perché aveva la responsabilità delle operazioni militari in Galilea; ma fu soprattutto un profeta “politico”. Una Visione l’aveva informato su chi sarebbe stato il futuro Imperatore dei Romani.
Come generale, fu sconfitto da Vespasiano. Il vecchio condottiero, spedito da Nerone in Palestina a soffocare la rivolta degli Ebrei, assediò l’astuto e ardimentoso Giuseppe, che si era asserragliato con i suoi a Iotapata. La fortezza pareva inespugnabile, ma, dopo quarantasette giorni, cadde, grazie a un inganno.
I soldati romani cercarono subito il loro principale avversario, ma non lo trovarono. Il generale si era nascosto nel fondo di una cisterna abbandonata, insieme ad altri quaranta notabili della città. Una donna lo tradì, e i rifugiati furono scoperti. Tuttavia i romani non poterono entrare nel pozzo, e cercarono allora di convincere Giuseppe a uscire, promettendogli in cambio la salvezza della vita. L’ebreo non credette a quelle assicurazioni e non si mosse.
Vespasiano gli mandò allora, come ambasciatore, il tribuno Nicanore, che era suo amico. Giuseppe non fu convinto neanche dalle sue espressioni calorose. I soldati minacciarono di rovesciare il fuoco nella cisterna, per stanare i rivoltosi. A questo punto, avvenne il miracolo, la Rivelazione.
III- Giuseppe, era sacerdote, figlio a sua volta di sacerdoti ebrei, aveva familiarità con le profezie, sapeva interpretare segni e ambiguità di Dio nelle Scritture. Ricordò i gravi sogni che aveva fatto, in quel rifugio. E fu illuminato. Al Signore rivolse in cuor suo questa preghiera:
«”Poiché” disse “ti piace, a te che l’hai creata, di distruggere la stirpe dei Giudei, e la fortuna è passata interamente dalla parte dei romani, e tu hai scelto l’anima mia per annunciare il futuro, di buon grado mi arrendo ai romani e conservo la vita, ma t’invoco a testimone che non vado come un traditore, ma per eseguire i tuoi voleri”».
Non stravolgo il pensiero di Flavio Giuseppe, se lo decifro così: come posso io, valoroso generale, prendere anche solo per un istante in considerazione l’ipotesi di consegnarmi volontariamente al mio nemico mortale, come un vigliacco qualunque? Se qualcuno osasse dirmi che sono un simile codardo, lo affronterei e lo ucciderei immediatamente. Ma se il pensiero di salvarmi la vita si affaccia comunque nella mente di un uomo coraggioso qual io sono, non sarà, per caso, un “segno” divino? Non c’é forse dietro questa mia incertezza, questo dubbio, la mano di Dio, a guidarmi? E posso io, per orgoglio, oppormi a Dio, nel caso, non ancora chiaro, però, che sia proprio Lui a volere la mia salvezza?
Se come militare poteva titubare, come profeta coltivava invece solo certezze. Per due motivi, strettamente collegati. Il primo: egli possedeva la profezia che Vespasiano sarebbe divenuto imperatore dei Romani, ma non l’aveva detto a nessuno, e soprattutto non l’aveva detto all’interessato. Profeti silenziosi, profeti neghittosi, profeti reticenti non si danno, non esistono. Tacere, dimostrerebbe il loro spregio per il dono della profezia, e per chi ha fatto loro quell’omaggio. Quindi, Giuseppe doveva restare vivo, per parlarne a Vespasiano. Secondo: egli come profeta, sa, che di lì a qualche anno, entrerà nelle grazie del futuro Imperatore. Quindi, come potrebbe morire, sia pur valorosamente, in quella cisterna?
Deve scegliere tra il disprezzo della morte e il disprezzo della profezia? Ma si può veramente scegliere, in un ambito così misterioso, così Divino?
Giuseppe si rende conto, per illuminazione, che Dio aveva scelto per lui. Si trasforma – ecco la metamorfosi –, senza rimpianti, senza nostalgie, nell’uomo più coraggioso della terra, “il vigliacco divino”. L’uomo che ha coraggiosamente rinunciato al suo coraggio.
Naturalmente nessuno lo capisce, né può capirlo. Nemo Propheta in Patria. Giuseppe deve fronteggiare, superare e infrangere lo schermo – e lo scherno – dell’ingiuria e del sospetto.
Sta per risalire, e uscire dalla cisterna, ma i notabili lo afferrano, lo coprono di accuse e di improperi: «”Tu sei attaccato alla vita, Giuseppe, e sei disposto anche a diventare uno schiavo, pur di vivere? Come hai fatto presto a scordarti di te stesso! Quanti hai spinto a morire per la libertà! […] Ti presteremo una destra e una spada: se morirai di tua volontà, la tua sarà la morte di un capo dei Giudei, altrimenti sarà quella di un traditore”. Così dicendo, gli puntarono contro le spade minacciando di ucciderlo se si fosse consegnato ai romani».
Comincia così una fase nuova: Giuseppe, che si é avveduto che i notabili sono pronti a trafiggerlo, e poi a suicidarsi, piuttosto che cedere al nemico, parla ai suoi accusatori. Verifica con loro le alternative, tacendo però il suo patto con Dio. Solo noi siamo a conoscenza che la vera ragione per cui non può morire, é che, facendosi uccidere, tradirebbe Dio. Il suo discorso ha dell’ispirato, del meraviglioso: soprattutto perché sappiamo bene che non crede nemmeno a una parola, di quel che dice.
É certo, li apostrofa, che loro, i suoi compagni nel rifugio, preferirebbero fosse lui stesso a togliersi la vita, in modo che nessuno si macchi del suo sangue. Ma lui non si può uccidere, perché, dice, Dio punisce chi si toglie la vita. Né può più morire combattendo, perché é ovvio che i romani non intendono più combattere con lui. Neppure – lo do per sottinteso – può perire in quel nascondiglio combattendo con il suo popolo, perché sarebbe un epilogo, per lui, ancor più ignominioso. Tantomeno, aggiungo ancora, può lasciarsi uccidere dai suoi accusatori, come un vigliacco: sarebbe la prova che é un codardo. Sembrano esaurite tutte le possibilità, le vie d’uscita.
Ma Giuseppe ha in serbo un prodigioso argomento retorico, per convincere i suoi detrattori. Siete sicuri, proclama, che io mi consegni per aver salva la vita? La verità é invece che io mi presenterò loro come traditore di me stesso, perché spero e so che essi mi uccideranno con l’inganno: “Mi auguro che questo sia un tranello dei romani; se infatti dopo le assicurazioni datemi mi uccideranno, io morirò contento, perché il pensiero della loro slealtà mi sarà di conforto più di una vittoria”.
Incredibile: gli Ebrei non vacillano, sono sordi persino (per la “disperazione”, li commisera e li assolve Giuseppe) a questo meraviglioso artificio discorsivo.
Allora: qui avviene d’incanto la seconda metamorfosi del “vigliacco divino”.
Stabilito che Dio ha già scelto per lui, Flavio Giuseppe, a quel punto, non si ferma davanti a nulla. Per la causa santa, si trasforma in una inflessibile “macchina di Dio”. Finge di accettare la risoluzione dei compagni, il loro proposito di suicidarsi in massa. Quindi, «fidando nell’aiuto di Dio, mise in gioco la vita dicendo: “Poiché abbiamo deciso di morire, lasciamo alla sorte di regolare l’ordine in cui dobbiamo darci l’un l’altro la morte: ognuno sarà ucciso da chi verrà sorteggiato dopo di lui, e così sarà la sorte a stabilire il destino di tutti senza che nessuno debba perire di sua mano; non sarebbe giusto, infatti, che quando gli altri fossero morti qualcuno cambiasse idea e si salvasse”».
È un modo, suggerisce il comandante, per ripristinare la legalità di Dio – che disdegna il suicidio – vigilando allo stesso modo sul rispetto dei patti.
La proposta, viene approvata per acclamazione. Scatta così quello che Girolamo Cardano ha chiamato il “Ludus Josephi”, il “Gioco di Giuseppe“, un gioco che si basa sulla “eliminazione” dei concorrenti. Un po’ come accade in Squid Game, la “serie” coreana.
Tutti i reclusi della cisterna saranno divisi, a tappe successive, in coppie: uno sarà sorteggiato come uccisore, l’altro come ucciso. Già, ma chi ucciderà l’ultimo assassino?
Stranamente, nessuno si pone il problema. Oppure, il narratore, che è Giuseppe stesso, e è parte in causa, preferisce non farne cenno.
Ognuno a questo punto si fa uccidere quasi con gioia, porgendo il collo, stimando “più dolce della vita morire insieme a Giuseppe”. Ma il comandante, ancor più stranamente, non viene mai sorteggiato; non uccide nessuno, quindi non può neanche morire per mano di nessun compagno. Le sorprese del racconto, però, non terminano qui.
Cosa accade allora? Che un Miracolo si compie. Giuseppe, “non si saprebbe dire se per un caso o per volere di Dio, restò alla fine assieme ad un altro, e non volendo né essere condannato dalla sorte, né contaminarsi le mani col sangue di un connazionale se fosse rimasto ultimo, persuase anche il compagno a fidarsi delle assicurazioni e ad accettare di aver salva la vita”.
La regola però, sembra ugualmente infranta. È chiaro infatti che, quando gli ebrei sono rimasti in tre, e uno di loro è quello condannato a venir soppresso, il sorteggio finale, implicitamente, è già stato effettuato. Uno successivo, tra i due superstiti, non é necessario: perché la norma dice che chi ha ucciso deve essere a sua volta ucciso. E Giuseppe, a questo punto, si è già salvato. Quindi: è lui l’assassino designato a sgozzare l’ultimo carnefice.
Egli ha di fronte un uomo lordo di sangue, che si erge sopra quaranta freschi cadaveri, fumanti, eppure lo grazia. Perché? Perché ha bisogno d’un testimone. Uno che in cambio della vita sia pronto a confermare la versione dei fatti data dal generale.
Teniamo conto (lo ripetiamo) che noi abbiamo appreso questa storia dalla voce diretta di Giuseppe. É lui che, nella Guerra Giudaica (III, 8, 3-9), sta parlando delle sue avventure, spesso in terza persona. E questo é il suo commentario; l’episodio é talmente centrale nella sua vita, che questa guerra segreta, la guerra della cisterna, vale per lui quanto tutto il commentario De Bello Gallico o il De Bello Civili.
Ci sarebbe allora da stupirsi se egli avesse in qualche modo pilotato la sua sorte, truccando i dadi, e l’avesse elegantemente taciuto? Anche Elias Canetti suggerisce questa ipotesi: “Se si considerano le modalità di quel sorteggio, é difficile non pensare a un inganno. É questo l’unico punto del resoconto in cui Giuseppe rimase oscuro”.
Un malizioso potrebbe persino sospettare che i due sopravvissuti della strage, fossero complici fin dal principio. E che l’altro scampato, manovrasse personalmente le estrazioni, per depistare eventuali sospetti da Giuseppe.
Resta il fatto che, volendo compiacere Iddio, la sua rinuncia all’Eroismo fu totale.
Adesso, egli risorge imbelle dal fondo oscuro della cisterna, si consegna come schiavo codardo e inerme ai massacratori della sua gente, che in quel momento stanno razziando e distruggendo la sua città, e per di più porta a Vespasiano, in dote, in dono, anche l’eccidio degli ultimi notabili, quelli che potevano organizzare una nuova resistenza, e che egli invece ha personalmente fatto massacrare con uno stratagemma. Questo, oggettivamente: ma come può ridersela adesso, il profeta, di queste miserabili apparenze! Egli, con Dio, sa bene che le cose stanno in modo opposto. In segreto, lo stratega ebreo celebra il suo trionfo finale.
Finalmente egli compare dinanzi a Vespasiano, e gli comunica la profezia. Vespasiano, che ha premesso, gli ha salvato la vita, solo perché sia personalmente giudicato a Roma da Nerone, pensa che si tratti di un’astuzia dell’ebreo, che teme di essere giustiziato dall’imperatore. Un suo dignitario mette Giuseppe alla prova: se é veramente un profeta, e vede nel futuro, come mai non ha previsto la disfatta della sua fortezza, né che sarebbe stato preso schiavo dai romani? “Giuseppe replicò d’aver preannunciato ai cittadini di Iotapata che dopo quarantasette giorni sarebbero caduti nelle mani del nemico e che egli stesso sarebbe stato catturato vivo”. Si trovarono testimoni che confermarono le sue doti di profeta, e lo stratega ebreo fu creduto. Vespasiano, confortato dai suoi presagi, lo tenne con sé, e divenne imperatore.
Nessuno indagò se tra quei testimoni, il primo, il più zelante, non fosse per caso l’altro sopravvissuto del sorteggio
Per Canetti, Flavio Giuseppe é il “capo perfetto”. Il campione del Potere. È insito nella natura di tutti i capi, egli sostiene, sopprimere ogni suddito per restare l’unico sopravvissuto.
Non lo seguiamo, però, su questa strada. A noi preme, scorgere in Flavio il campione di una “Logica Altra”.
Raramente si é visto nella Storia, un uomo – per non parlare di un militare e di un eroe famigerato, ammirato anche dal nemico –, che per difendere la propria stessa vita si prodighi con tanto dispiego di sapienza, astuzia, retorica, fervore religioso, per sottomettersi ai disegni oscuri dell’Altissimo.
Come tale, suppongo, Giuseppe Flavio non poté mai non dico condividere, ma neppure comprendere, il disprezzo che dal momento in cui il suo “tradimento” fu palese, gli tributarono tutti gli Ebrei.
IV- La vicenda di Giuseppe può sintetizzarsi così: è la Tragedia dell’Ultimo Rimasto. Emblematica, istruttiva. E come tale destinata a ripetersi: per uno di quei cortocircuiti fantastici che scintillano spesso nella Storia.
Però, come abbiamo già notato, non sempre il Vigliacco Divino giunge alla sua Apoteosi. Egli gioca la sua partita col Destino su un crinale, che può rivelarsi un precipizio.
Nel 1320, durante la seconda ribellione dei cosiddetti “Pastoureaux”, gli ebrei perseguitati si rifugiarono in un’altissima torre, dove vennero assediati dagli insorti. Quando fu evidente che non avrebbero potuto resistere oltre, e che sarebbero stati convertiti a forza o bruciati, consegnarono la spada a uno di loro, perché li sgozzasse tutti. Questi acconsentì, e ne uccise seduta stante almeno cinquecento. Quindi aprì la porta della torre e uscì, accompagnato dai bambini degli ebrei, che aveva pietosamente risparmiato. Giusto al cospetto dei capi ribelli, rivelò la sua orribile mattanza e chiese di essere battezzato insieme ai fanciulli. I Pastoureaux rabbrividirono d’orrore e lo condannarono ad essere squartato e a morire da ebreo, perché aveva compiuto un crimine orrendo contro altri Ebrei. Anche se il cronista che riporta la storia non lo dice, o non lo sa, si può immaginare che nel patto originario era previsto che il giustiziere dei suoi confratelli, dopo averli uccisi tutti, bambini compresi, doveva darsi la morte.
Nel 1321, durante una nuova persecuzione, più di quaranta ebrei furono accusati di essere stregoni malefici, e vennero rinchiusi in una prigione, in attesa del peggiore dei verdetti. Sicuri di morire, diedero incarico a un anziano, rinomato tra loro per la sua saggezza e la santità dei costumi, di ucciderli tutti. Il venerabile vecchio accettò l’incarico, a condizione che fosse aiutato da un giovane. Dopo il massacro, il giustiziere più giovane, esaudendo una preghiera dell’anziano, lo strangolò. Ripulì dell’oro e del denaro tutti i compagni uccisi e si calò con una corda improvvisata, fatta di stracci, dalla finestra. La corda non era lunga a sufficienza; il giovane cadde, si ruppe una gamba, fu catturato e quindi impiccato “insieme ai cadaveri degli altri morti”.
Durkheim, rubrica questi esempi sotto una medesima tipologia, denominandola: “Suicidio per solidarietà”. In tutti i casi esposti, compreso quello di Giuseppe, la serie dei suicidi è interrotta, consapevolmente, da un Vigliacco. Se la stessa vicenda riaccade, nella Storia della Vigliaccheria, non solo un anno dopo, ma milleduecentocinquanta anni prima, un senso dev’esserci senz’altro: non è fatto fortuito, non è fatalità.
[in copertina: Flavio Giuseppe consegna Vespasiano e a Tito il suo libro sulla “Guerra Giudaica” (particolare)]