Di questi tempi in Italia non ha più molto senso parlare di “destra” e di “sinistra”: sarebbe più giusto parlare di “babordo” e di “tribordo” – termini alla Emilio Salgari, che sembrano più appropriati. Anche in politica, siamo un popolo di navigatori. Si naviga dunque a vista, un po’ a tribordo un po’ a babordo, oppure, opportunisticamente, non si naviga per niente, si blatera, o si sta in silenzio, in attesa di tempi migliori: ma purtroppo nel frattempo tutti i Maestri muoiono. Scompaiono quelle tempre d’uomini e di donne che possono insegnarci a “pensare diversamente”, indicandoci una via attraverso le nebbie, visibili, e le secche o gli scogli, invisibili, del vivere comune.
La fine delle grandi ideologie politiche del secolo XX non ha coinciso con la fine dell’Ideologia intesa come baluardo del Pensiero, ha solo permesso alle piccole ideologie di prendere il posto di quelle, e di reclamare, con violenza, con aggressività, lo stesso rilievo che hanno avuto nel passato le Grandi Idee di grandi uomini, di grandi donne.
Franco Fortini (Franco Lattes, 1917-1994), poeta, traduttore di Proust e Goethe, saggista, resistente, polemista, fondatore di “Quaderni piacentini” è stato uno di questi grandi uomini: e quindi, com’è insito nella parola “Maestro” e nei suoi compiti, anche qualcuno col quale valeva la pena dissentire. Fortini, per chi non lo conoscesse (cioè per tutti o quasi gli Italiani), era comunista. Non per appartenenza al partito omonimo (fosse vissuto in Russia ai tempi orribili di Stalin, l’avrebbero presto fucilato, come accadde ad altre migliaia di comunisti genuini). Dico: come costume, come moralità. Come “utopista”.
Riascoltando le parole, i ricordi e le poesie di Fortini, si può capire quanto possa essere stata determinante la visione utopistica del futuro, per una generazione come la sua, che ha cambiato le sorti dell’Italia.
Il nostro sito si occupa solitamente di argomenti che giudico “Fantastici”, e non ho nessuna intenzione di trasformarlo in una tribuna politica. Non ho pulpiti su cui vorrei salire, a declamare. Ma – anche se fin dai tempi del decapitato Thomas More, la sua origine è politica e satirica – vorrei ricordare che l’Utopia è un genere letterario di frontiera che appartiene pure al Fantastico. Naturalmente, non se ne abbia a male nessuno, non è che predicando società perfette, giuste, e libere, gli ideologi siano meno fantastici dei letterati: e uso questo termine, fantastici, nel senso più positivo possibile.
Ho conosciuto Franco Fortini, e l’ho intervistato una prima volta insieme all’amico germanista e storico del Cinema Giovanni Spagnoletti. L’intervista, telefonica, avvenne il 27 settembre 1976: aveva appena girato come protagonista un film di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, nel quale “rileggeva” alcuni brani del suo libro I cani del Sinai, pubblicato nove anni prima. Si trattava d’una riflessione, soprattutto autobiografica, sul conflitto arabo-israeliano culminato nella “guerra dei sei giorni”. Purtroppo il dittafono del giornale “il manifesto” funzionò male e la registrazione risultò disastrosa. Si salvarono per fortuna i nostri appunti, e su quella base, dopo molte scuse, richiamammo il Maestro il 26 novembre 1976 per impostare di nuovo la conversazione, Quello che segue è il testo delle due nostre interviste, rivisto da Fortini, e poi pubblicato integralmente sul numero 269-270 di Filmcritica, diretta dal leggendario e davvero compianto da tutti Edoardo Bruno.
Porcarelli/Spagnoletti:
Qual è la tua opinione sul film che Jean-Marie Straub e Danièle Huillet hanno tratto dal tuo libro I cani del Sinai: Fortini/Cani ?
Franco Fortini:
In un certo senso non posso dare un giudizio critico perché il film mi coinvolge troppo, personalmente e emotivamente. E soprattutto perché l’ho veduto una sola volta, a Pesaro. Prima di allora non avevo veduto un metro di pellicola, né udita alcuna registrazione. Mi ha colpito il fatto che Straub, senza che ci sia stato il mio intervento, abbia mostrato nel film luoghi e fatti della mia biografia che vanno molto al di là di quelli offerti dal libro. È singolare per esempio che a un certo punto, quando la camera fissa molto a lungo la parte non monumentale di Firenze, si veda la torre sotto la quale sono nato. A parte ciò, sono stato scosso dal film in maniera molto positiva. C’è solo una leggera caduta nel finale, quando sullo schermo vengono mostrati, forse troppo lungo, gli articoli dell’Unità e il “discorso” del testo giornalistico si somma o confonde con quello del libro. Ma la mia impressione resta comunque assolutamente positiva.
Pensi che Straub e Huillet abbiano rispettato a fondo le intenzioni del tuo libro, o le abbiano tradite?
Fortini:
No, non credo che le abbiano tradite. Straub è senz’altro d’accordo con l’impostazione ideologica dei Cani del Sinai. Vi ha aggiunto però un elemento di lucida disperazione – che è anche nel libro, solo che nel libro è strettamente personale, mentre nel film di Straub mi sembra allargato fino a diventare un fattore “storico”. Nel libro c’è la storia di un intellettuale che appartiene a una generazione precisa: nel film c’è invece un elemento ulteriore di disperazione nel fatto che le parole, il silenzio e le sovrapposizioni sottolineano i limiti della comunicazione. La mia voce lotta con la voce del rabbino che sembra sovrastarla, lotta con quella dello speaker della televisione… in via dei Servi lotta con il traffico cittadino. Il film è fatto di voci, rumori e silenzi che lottano tra di loro: i rumori sono il simbolo del “negativo”, mentre la positività è rappresentata dalle cose – dalle cose che si vedono in città, dalle Apuane, dal giro di 360 gradi che lì Straub fa fare alla macchina. La positività, nel libro, io la esprimevo nella frase finale, la frase di Lenin: “a ogni situazione esiste una via d’uscita e la possibilità di trovarla. E cioè, la verità esiste, assoluta nella sua relatività”. E subito dopo nel testo c’è la frase di un ebreo: “Se tu non vuoi più credere alla verità, nessuno vorrà più credere a te”, che nel film non c’è. L’autore della frase si chiama Zelman Loewental, ed è una vittima del crematorio II di Auschwitz. La possibilità, la via d’uscita, sono invece indicate da Straub nel giro di 360 gradi che fa la macchina, nell’ultima inquadratura, partendo da me.
Sottolineare i limiti della comunicazione, può forse significare: averne sfiducia. Non pensi che questa sfiducia nella comunicazione si sia riflettuta sulla “comprensibilità” del tuo testo, un testo che riteniamo invece estremamente comunicativo e problematico?
Fortini:
Io credo che questo sia vero nella misura in cui effettivamente Straub ha operato degli effetti di straniamento sul testo che lo hanno reso più difficoltoso. Per esempio mi ha spinto a una lettura che alterasse la punteggiatura – anche perché voleva togliere certe enfasi, e la punteggiatura, così come era, dava molto nell’enfatico. Però ti faccio notare che anche il mio testo non è affatto così scorrevole, ha una sintassi piuttosto complessa. Credo che la scelta del testo da parte di Straub e Huillet sia stata fatta proprio tenendo presente questo fatto: che la parola scritta non costituiva una facilitazione ma anzi un ostacolo.
Puoi dirci ancora qualcosa sulle indicazioni di lettura e di “recitazione” (sia pure in senso lato) che ti hanno dato i registi?
Fortini:
I suggerimenti per la lettura non tendevano solo ad evitare l’enfasi naturale o naturalistica ma a creare nuovi significati con l’accostamento di quel che la punteggiatura avrebbe voluto disgiunto o la separazione di quel che avrebbe voluto unito. C’è stata, in questo senso, una conscia alterazione della portata comunicativa-razionale a favore di un continuum lirico. Il lavoro sulla dizione è stato accanito e straordinario. È la maggiore lezione di “arte retorica” che io abbia mai ricevuto, dopo quella implicita nelle pagine dei grandi simbolisti e dei pensatori dialettici.
Quali sono state le tue impressioni e esperienze durante la lavorazione del film? In che modo ti hanno ripreso?
Fortini:
Come ho detto prima, Straub e la Huillet hanno accentuato intenzionalmente la disperazione che comunica la mia figura nel film, Io so di non essere Franco Fortini, ma un intellettuale degli anni Trenta con cultura mitteleuropea che appare sullo schermo come un vecchio che parla angosciosamente del passato. Straub ha accentuato polemicamente la situazione di solitudine la meschinità dell’esperienza di questo tipo di intellettuale. Ciò si riconosce facilmente dal modo in cui i registi mi hanno filmato. Mentre giravamo, per esempio, non mi sono reso conto che la macchina mi riprendeva dall’alto verso il basso, che mi avrebbe mostrato chinato, come una figura umiliata. Lo stesso: la luce del finale lo ricordo era splendida ma nel film è venuta quasi una luce di crepuscolo.
Per quanto riguarda le impressioni provate durante le riprese, devo dire che la mia è stata un’esperienza difficile, molto tesa, per qualche giorno insopportabile. Non avevo previsto la violenza psichica cui mi sarei esposto ripetendo per giorni e giorni episodi e pagine di anni feroci e umilianti, dove si parlava di situazioni estreme e si tornava a frugare nella mia infanzia e nella vita di mio padre. “Somatizzavo” tutto questo con una fiera nevralgia al trigemino che mi tormentava giorno e notte.
E dell’ambiente in cui avete girato, cosa puoi dirci?
Fortini:
Davanti agli occhi avevo un paesaggio luminosissimo di mare, di una perfezione da eliso, ma come quello che Accattone vede in sogno oltre il muro del cimitero. Alle spalle, nella stanza di cui si scorge la porta, riproduzioni di etruschi, di pompeiani e di Paul Klee…
Cosa pensi del tuo incontro con Straub e Huillet?
Fortini:
Il rapporto tra me e Straub è stato difficile, ma è uno dei più positivi e ricchi che io abbia vissuto. Sono felice di essere amico di Straub e di Huillet. Una sera Straub, quasi citando Brecht, mi ha detto di sé: “Io sono una persona di cui non ci si può fidare”. Ma penso ci sia sotto qualcosa di più serio e credo di averlo capito**. Perciò mi sono messo a disposizione non di Straub ma del fine di Straub, perché entrambi vogliamo la stessa cosa: ossia un prodotto oggettivo, una cosa che poi si guarda. “Con i miei film voglio far qualcosa”, ha detto Straub. Egli però si trova oggi sul filo del rasoio, tra la vertigine puritana della avanguardia e questa estrema profezia di un cinema che è la fine del cinema – per un’arte povera che sia solo “tecnica della visione”.
**Cito dalla lettera che Fortini ha inviato a Straub prima delle riprese di Fortini/Cani, pubblicata sul manifesto del 2 dicembre 1976:
“[…] La distanza che tu inframetti tra quelle opinioni (testi, musiche, eccetera) e l’oggetto compiuto, che è il tuo prodotto, è costante. Questa parola prodotto mi fa venire in mente la definizione brechtiana dell’amore: che sarebbe l’arte di produrre qualcosa con le capacità di un altro. Credo che il tuo modo di procedere sia il più comunista possibile oggi in una società come la presente. La tua arte è di produrre con il simile per evidenziare il dissimile (sinonimia e metonimia contro antinomia e metafora) […].
È quindi chiaro ormai che il personaggio dei Cani del Sinai non è esattamente l’autore di quel libretto e nemmeno coincide con l’io che ora ti scrive. Esso è (o sarà) un intellettuale quasi sessantenne, con tutte le caratteristiche di classe e di cicatrici storiche che ha un intellettuale europeo e italiano e halb-jude vissuto tra il 1930 e il 1970: col suo marxismo ma anche col suo non-comunismo, ossia col suo essere di “prima”: più prossimo all’età di Brecht, più lontano da quella di Schönberg ma comunque poco dell’oggi, seppure con qualche speranza di essere postumo, di domani. Tu mostrerai questo, cioè il suo superamento, le parole che quel personaggio dirà conflitteranno con l’impotenza reale, col dolce mare delle vacanze, col non-comunismo del mondo circostante e con la faccia medesima del protagonista. E così tu avrai portato tutti i rapporti un passo più avanti: lezione di storia. Capisco che l’invito a non fidarsi di te voleva dire che non avrebbe potuto esserci nessuna complicità visibile tra te e il me-personaggio e nemmeno (nonostante tutto) la letteralità delle mie parole dei Cani. Forse non mi tratterai con la distanza critica che hai impiegato per la lettera a Kandinskij; ma una distanza critica ci sarà e grazie a quella anch’io sarò andato avanti.
Sono felice di essere sgabello a questo passo. Voglio tu sappia che ne sono ben cosciente e che ti ringrazio di avermi così inserito in un processo di produzione di rapporti fra esseri umani non dissimile a quello che ho cercato di indurre e proporre nei miei scritti e versi; e che è comunista, se la parola significa. Tuo affezionato Franco Fortini.
[CONTINUA CON: “LA GUERRA IN ATTO, FORTINI, E I CANI DEL SINAI, UNA RIFLESSIONE”]