Tutto è relativo, anche nel campo dei Freaks. “In India saresti un dio”! esclama Josiane, eccitata dal ghigno e dalle fattezze mostruose dell’Uomo che Ride di Victor Hugo.
E il piano programmatico del derelitto Frollo, consumato da amori irreparabili, in Notre-Dame de Paris, recita: “É demenza fermarsi a metà sul cammino del Mostruoso!”. Alludendo non solo al tartassato Quasimodo, ma anche alla propria discutibile moralità.
Hugo, “scultore in carni”, era affascinato dall’Orripilante in tutte le sue possibili declinazioni, attratto dalla Deformità: dalla sua immaginazione saltò fuori anche il gobbo Rigoletto. Lo scrittore ottocentesco ha reso popolare il Raccapriccio, dando volto, così, a un’Epoca. Assolutamente sua è l’idea perversa e nuova per quei tempi che certi visi e certi corpi da Corte dei Miracoli erano destinati a riscuotere un irresistibile successo “erotico”. Il magnetismo sessuale di Gwynplaine ne L’Homme qui rit, risiede tutto nell’esibizione svergognata della chiostra dei denti, che va mostruosamente da orecchio a orecchio: è questa anomalia che lo rende seduttore. Balzana è però la convinzione di Hugo che quel riso fisso e in qualche modo fossile possa pure essere contagioso, e che la sola apparizione dell’orrido Clown sui palcoscenici improvvisati delle fiere possa provocare una sghignazzata generale, tra i rozzi spettatori che affollano i baracconi. No: è proprio il “Mostro” in sé che attira il grosso pubblico, che soprattutto gongola quando l’esibizionismo – lo sfregio – del “Freak” è spudorato. Il Joker di Batman, Nicholson che sia o Joaquin Phoenix, non ha mai fatto ridere nessuno: è troppo inquietante.
Paul Leni, grande figura dell’Espressionismo Cinematografico, appena arrivato negli Stati Uniti trasse dal romanzo di Victor Hugo, nel 1928, il suo Uomo che ride. Protagonista, uno strepitoso Conrad Veidt. Ne diamo un piccolo saggio:
“L’uomo che ride” più famoso della Storia del Cinema non è stato Conrad Veidt, e neppure Jean Sorel, protagonista di un film omonimo nel 1966 (regia di Sergio Corbucci, sceneggiatura di Luca Ronconi): è il segaligno e mascherato Guy Rolfe, alias Mr. Sardonicus, sadicamente sottoposto dal regista William Castle a un trucco facciale dolorosissimo e davvero scioccante per qualsiasi pubblico.
Nella sequenza che presentiamo, il “Barone Sardonicus” sta raccontando la vicenda della sua “trasformazione” a un chirurgo plastico che dovrebbe restituirgli un aspetto decente. Si scopre così l’origine del trauma che gli ha deturpato i lineamenti: un incidente senza cause “fisiche”, ma solo “psicoanalitiche”. È il 1961, e Castle, “il Re dei Gimmicks”, cavalca l’onda lunga del successo dell’hitchcockiano Psycho (un film crediamo perturbante per lui, quasi il culmine della sua concezione di Cinema, ma realizzato “da altre mani”).
Il ricco Barone si chiamava Marek, e era stato un povero contadino, in precedenza. Suo padre aveva acquistato un biglietto della lotteria, poi risultato vincente, ma era morto prima dell’estrazione, e era stato sepolto col biglietto addosso. La moglie di Marek impone al marito, come prova d’amore, di recuperare il tagliando, riesumando suo padre dal sepolcro. Non sarà una buona idea.
Mr. Sardonicus fu presentato da Castle come il “primo film interattivo della Storia”. L’astuto cineasta interrompeva, sullo schermo, la proiezione, e invitava il pubblico a indicare quale finale preferiva, con un sondaggio “punitivo”, all’impronta, da effettuare nelle sale: gli spettatori dovevano riconsegnare agli esercenti un talloncino, con sopra un pollice su o giù, come ai tempi degli imperatori romani. Potevano così graziare o condannare a morte il protagonista.
Era naturalmente un trucco, un gimmick, “alla Castle”: di finale in realtà ne aveva girato uno solo, arciconvinto che i pollici in giù sarebbero stati largamente superiori.