Il 13 maggio 1961, passati appena sei giorni dal suo sessantesimo compleanno e quattro settimane dal suo ultimo Oscar – onorario –, Gary Cooper si spense consumato da un male ostinato e incurabile. La morte precoce stroncò una delle star più conosciute e amate della storia del cinema e, nello stesso momento, uno dei più misconosciuti disegnatori della storia del Fumetto.
Gary Cooper fu, vivente, un monumento alla fotogenia. Altri divi, come Cagney o Clark Gable magnetizzavano gli astanti, dentro e fuori il set. Lui non ne aveva bisogno. Non faceva nulla di particolare, anzi ciondolava, spesso borbottava e sbagliava le battute. Nel ’35, il regista King Vidor che, dopo le riprese, lo voleva rimproverare per la sua sciatteria, aspettò l’esito dei giornalieri: il risultato sullo schermo era comunque sconvolgente e perfetto.
Dal naso gli partivano verso il mento, a tenaglia, due rughe spesse e profonde come tendini d’armento. La bocca era tirata, sottile il labbro superiore, carnoso e sensuale quello inferiore. Il suo sorriso preferito ostentava timidezza e ritrosia. Assai prima della sua scomparsa, un discutibile lifting (operato da un chirurgo imprudente che guarda caso avrebbe poi sposato sua moglie) aveva già privato il cinema delle sue fattezze rugose, di un volto che, invecchiando, meritava altrettanta leggenda di quello, bellissimo, con cui da giovane sbaragliò i damerini di Hollywood. Quando la malattia scavò di nuovo la sua maschera arrotondata dalla plastica (così apparve ne Il dubbio, il suo ultimo film), svelò che avrebbe potuto diventare, in vecchiaia, il più grande caratterista di tutti i tempi. Era la carriera che evidentemente sognava per sé: se fosse vissuto abbastanza avrebbe Infatti voluto interpretare il ruolo, poi di Mc Crea, del vecchio pistolero presbite in Sfida nell’alta Sierra, di Sam Peckinpah.
Era, la sua, la faccia di un uomo sofferente: e in effetti Gary Cooper era sciancato dall’adolescenza, e i dolori lo facevano guaire, soprattutto negli ultimi anni di acciacchi.
Andò così: si fratturò l’anca in un incidente d’auto, nel natio Montana. Gary, che allora si chiamava “Frank James” (un nome da bandito per il figlio di un giudice), fu esortato dal medico a curarsi con “lunghe cavalcate”. La menomazione non si attenuò, e il ragazzo dolorante fu per molto tempo costretto a dormire seduto. Ma, divenuto un provetto cowboy, la sua abilità di cavaliere gli spalancò le porte di Hollywood.
Delle passioni che coltivò nel ranch paterno, solo quella per i pony e i pellirossa gli fu utile, per la futura carriera di attore. Le altre, meno fruttuose, furono il nudismo e il disegno. Del nudismo il piccolo Gary incarnò il lato selvaggio e thoreauiano (che va decisamente contrapposto a quello, salutista, praticato da Kafka).
La madre lo rincorreva spesso ai bordi del fiume dove si bagnava con amichetti e amichette pellerossa. Una di queste (secondo l’encomiabile supplemento di Excelsior del novembre 1933), una certa “Falce di Luna”, sarebbe stata la sua prima innamorata, e, avendogli preferito un altro, tal “Braccio Alato”, avrebbe decisamente avviato Gary Cooper verso i sentieri di una taciturna e durevole misoginia.
Ma la vera ambizione che percorse tutta la sua adolescenza e lo accompagnò fino alla soglia di Hollywood fu quella di diventare un pittore o un disegnatore professionista.
La vocazione artistica di Gary Cooper data intorno al 1916. Decisivo fu il suo incontro con il paesaggista western Charles M. Russel, che frequentava casa Cooper per ritrarre i cowboys e le bestie del ranch. Il ragazzino non aveva, all’epoca, alcuna inclinazione per lo studio, e a scuola non brillava, nonostante una forbita educazione negli istituti di Inghilterra. I genitori furono quindi entusiasti di assecondarlo. A orientare le sue scelte fu una donna, miss Ida Davis. Era la sua istitutrice e lo spinse verso l’arte “commerciale”. Il giovane Gary passò tre estati a Yellowstone, dove era impegnato come guida turistica, a disegnare, come dice il suo biografo Swindell, “qualsiasi cosa vedesse nel parco”. Più tardi, nel College di Grinnel, pubblicò sul giornale studentesco i primi schizzi, le prime caricature e vignette. Si convinse che, nel suo futuro, c’era una carriera di cartoonist: ma fuori dalla ristretta cerchia goliardica il successo stentava a arrivare.
C’è una leggenda che i biografi prezzolati dalla Paramount hanno tentato di accreditare, quando, nel 1930, bisognò inventare un passato “interessante come un film” per la giovane Star emergente. La favola dell’espulsione di Gary dal College di Grinnel è in effetti degna di Animal House. Sembra che un giorno Cooper sia entrato nell’istituto, salendo le scale fino alla sua stanza, in groppa al suo pony. Il cavallo, finito lo scherzo, non volle saperne di tornare alla stalla. Gary dovette sopprimerlo per non farsi scoprire: lo fece (orrore!) a pezzi minuti, che trasportò giù fino all’uscita. L’episodio venne comunque alla luce: Gary fu cacciato da Grinnel. Naturalmente non andò affatto così.
Nel ’30 Cooper non aveva ancora messo a fuoco il suo cliché di asciutto, afasico e asfittico eroe (ciò accadde solo nel ’36, con È arrivata la felicità di Frank Capra): per questo le sue biografie dell’epoca oscillano tra le avventure alla Topolino, l’esaltazione goliardica, Tom Mix e I tre moschettieri. La verità è invece legata alla sua passione per i cartoons. Gary Cooper lasciò il college per tentare la fortuna come vignettista. Si presentò a Chicago con un album dei suoi disegni migliori, e lì avvenne qualcosa di capitale, di decisivo per lui e per la storia del cinema. Giornali, agenzie di pubblicità, uffici, gli risero in faccia, lo misero alla porta. Fu un calvario. E meglio non andò neppure a Helena, la sua città natale nel Montana. Dei trenta cartoons che presentò al quotidiano locale, il Daily Independent, solo sette furono pubblicati. Erano satire brevi, caricature politiche correttamente disegnate, ma fredde e dallo humor timido e incerto.
Si vocifera che furono date alle stampe solo perché il padre di Gary, il giudice Charles, era amico del proprietario del giornale. Quando uno cade tanto in basso, ha solo due prospettive davanti: o risalire la china, o darsi al Cinematografo. All’epoca Hollywood era un potente magnete non solo per i bei giovanottoni alla Cooper, ma per tutti gli spiantati e gli sfaccendati. Gary seguì il consiglio di un’amica e si presentò agli Studios della Mecca del Cinema. C’è sempre una donna, a quanto pare, dietro le sue scelte. Anche se soprattutto due, alla fine, ebbero una vera influenza su di lui: mrs. Alice Cooper, che lo mise al mondo, lo comandò a bacchetta e lo seppellì, e mrs. Rocky (Veronica) Cooper, sua moglie, che sembra lo convinse, negli ultimi anni, a convertirsi al cattolicesimo.
Alfred Hitchcock (che sognava Cooper per la parte che fu poi di Mc Crea nel Prigioniero di Amsterdam) disse una volta: gli attori sono come il bestiame. Forse per questo tra essi spicca tanto il cowboy. È l’unico che ha l’aria di sapere dove stia andando la mandria. Non c’è dubbio che Gary venne reclutato a Hollywood per fare il cowboy: anche se gode ancora credito (perfino nella biografia di Katz), è davvero insensata la voce che in California cercasse di nuovo fortuna come cartoonista. Coerentemente, Cooper esordì come cowboy ai tempi del muto, come cowboy consolidò la sua fama e la sua dimensione di Divo (in film come Il Virginiano o La conquista del West), e come cowboy offrì a fine carriera la sua prestazione più convincente, nel metallico Mezzogiorno di fuoco. Hollywood, una volta che l’ebbe imprigionato in un cliché, ignorò la sua trascorsa vocazione di artista.
Il candore di Gary, il suo istinto animalesco per l’azione onesta e buona, il suo orgoglio silenzioso mal si addicevano alle esaltazioni e alle sofisticazioni dell’ambiente artistico. Così è puramente statistico il fatto che, con una carriera tanto lunga, Gary Cooper abbia interpretato solo una volta un pittore. Nel delizioso Partita a quattro di Lubitsch viene citato come autore di una “Lady Godiva in bicicletta”. “Le è piaciuto il mio quadro?”, chiede eccitato a Miriam Hopkins. “L’ho visto assieme a un’amica che ne era entusiasta”, risponde la ragazza. E poi aggiunge: “… Da allora non ci siamo più parlate!”. Ironia della sorte, Lubitsch, per tutto il film, non inquadrò mai Cooper con un pennello tra le dita. Se la sarebbe cavata, però forse il pubblico non l’avrebbe trovato credibile, ma eccentrico e, magari, un po’ “picchiatello”.
Se il cowboy-Cooper si sia sentito per tutta la vita un artista fallito o un cartoonista mancato, se provò il rimpianto d’aver rinunciato, in cambio di una facile celebrità, al tormento e all’estasi della creazione artistica, è informazione in tutto degna del tono delle sue biografie, ma in esse tuttavia colpevolmente assente. Persino il già citato, stupendo libretto di Excelsior, scritto da suo “intimo amico Jimmy Clarks” (un nome ignoto a tutti i biografi), sorvola sull’argomento, mentre è prodigo di altri particolari inventati. Ma è certo che, nel corso della sua vita, Cooper non abbandonò mai il suo amore genuino per l’arte. Accantonò solo le sue ambizioni e illusioni d’autore. Posò per Rockwell, abbellì la sua casa di quadri e sculture, avviò sua figlia Maria alla pittura (e lei diventò una apprezzata professionista), scambiò un vecchio cappello da cowboy con Picasso, in cambio di una tela che oggi varrà miliardi.
A Picasso, disse: “i suoi quadri sono belli, ma non li capisco”. Questo è il destino, in generale, della bellezza: non esser compresa. Come “creatura cinematografica” Cooper sperimentò la stessa sorte: fu troppo “bello” per incarnare fino in fondo il bravo ragazzo americano (e infatti Capra, con James Stewart, trovò il suo sostituto più ragionevole). E in qualche modo, come accadde solo alle più rifuggenti star-femmine di Hollywood, egli dovette giustificare agli occhi del pubblico la sua bellezza e la sua leggendaria fotogenia. In questo, condivise in pieno un destino a due dimensioni che fu quasi solo della Garbo. Ebbe quindi ragione Ernst Lubitsch a spiegare così uno dei più grandi misteri di Hollywood: “Io credo – disse una volta a Garson Kanin – che Gary Cooper e Greta Garbo siano davvero la stessa persona. Dopo tutto, è per questo che non li abbiamo mai visti insieme, nello stesso film”.
da Il Grifo, mensile diretto da Vincenzo Mollica, anno I, giugno 1991, numero 3